Dimissioni

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Questione 1: Qual è la disciplina delle dimissioni dopo il 12/3/16?

 

L’art. 26 D. Lgs 151/2015 dispone che le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro debbano essere presentate, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche, tramite appositi moduli messi a disposizione dal Ministero del Lavoro. Il Decreto Ministeriale 15 dicembre 2015 ha poi chiarito nel dettaglio le modalità di comunicazione delle stesse, ed il contenuto della modulistica. La riforma è entrata definitivamente in vigore il 12 marzo del 2016.

In forza della nuova procedura, il lavoratore può scegliere se effettuare personalmente l’invio telematico, oppure farsi assistere da un soggetto abilitato.

Nel primo caso, deve anzitutto richiedere il codice PIN INPS accedendo al sito dell’Inps (attraverso il link http://serviziweb2.inps.it/RichiestaPin/jsp/menu.jsp). Tale procedura richiede qualche giorno di attesa, in quanto online si ottiene solo la prima parte del codice PIN, mentre la seconda parte arriva tramite posta raccomandata all’indirizzo di casa.

Il lavoratore deve poi registrarsi al Ministero del Lavoro, accedendo al sito www.clicklavoro.it, per ottenere username e password; fatto questo, deve accedere al sito del Ministero del Lavoro (www.lavoro.gov.it) e compilare il modulo per le dimissioni.

Una volta compilato, il modulo deve essere trasmesso al datore di lavoro (tramite PEC) ed alla Direzione Territoriale del Lavoro (tramite mail ordinaria).

Nella seconda ipotesi, il lavoratore può invece avvalersi dell’ausilio di qualsiasi soggetto abilitato presente sul territorio nazionale (non è necessario quindi che si trovi nella stessa provincia del datore di lavoro), che effettuerà la procedura in sua vece ed a suo nome. Si tratta di Patronati, Organizzazioni Sindacali, Enti Bilaterali e Commissioni di Certificazione (di cui all’art. 76 del D. Lgs). Tali soggetti entreranno nel sito Cliclavoro con la loro utenza e si assumeranno la responsabilità di identificare il lavoratore e convalidarne la dimissioni.

La nuova procedura si applica a tutte le ipotesi di dimissioni, comprese quelle per giusta causa, con le sole seguenti eccezioni:

- dimissioni durante il periodo di prova;

- dimissioni nel rapporto di pubblico impiego;

- dimissioni della lavoratrice durante il periodo di gravidanza, della lavoratrice o del lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento: per costoro, le dimissioni continuano ad essere disciplinate dall’art. 55 D. Lgs. 151/2001, con la procedura di cui al comma 4;

- dimissioni in un rapporto di lavoro domestico;

- dimissioni (o risoluzioni consensuali) concordate nelle sedi di cui all’art. 2113, comma 4, c.c. o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 D. Lgs. 276/2003.

 

Questione 2: E' legittima la pretesa del datore di lavoro di sottoscrivere, fin dall'inizio del rapporto, una lettera di dimissioni senza data, da utilizzare poi, nel corso del rapporto, come mezzo di pressione e ricatto?

 

Talora, i datori di lavoro, ritenendo insufficiente il periodo di prova previsto dalla contrattazione collettiva, comunque volendo mantenersi la possibilità di risolvere in qualsiasi momento il rapporto di lavoro, impongono, al lavoratore, come condizione per l'assunzione definitiva, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni senza data, che quindi può essere poi utilizzata in qualsiasi momento, di fatto ponendo il lavoratore in una situazione di soggezione psicologica.

 

Si tratta di una procedura sicuramente illegittima, in quanto diretta ad eludere norme di legge imperative (e cioè inderogabili). Tra queste rientra anche la disciplina del periodo di prova: il periodo di prova, nel corso del quale ciascuna delle parti può recedere dal rapporto di lavoro senza necessità di giusta causa o giustificato motivo e senza obbligo di preavviso, non può avere durata superiore a sei mesi (una durata inferiore può poi essere prevista dai contratti collettivi di categoria). La necessità di porre un limite al periodo di prova deriva dal fatto che, in mancanza di tale limite, si potrebbe, per assurdo, ipotizzare un periodo di prova di moltissimi anni, con il risultato che, in un lavoratore potrebbe essere licenziato in qualsiasi momento, a semplice discrezione del datore di lavoro.

 

Spesso il problema è però quello di dimostrare l'esistenza di una simile lettera di dimissioni, e di impedirne l'utilizzo.

 

Si deve peraltro ritenere che, attualmente, il problema sia superato. Infatti, con riferimento alla lavoratrice in gravidanza o alla lavoratrice/lavoratore durate i primi tre anni di vita del bambino (o di accoglienza del minore adottato o in affidamento), è necessaria la convalida delle dimissioni da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio: in sostanza, dopo che le dimissioni sono state presentate, le parti debbono convalidarle davanti al Servizio ispettivo del Ministero del lavoratore e la risoluzione del rapporto non può produrre effetti sino a che tale adempimento non venga effettivamente compiuto.

 

In tutti gli altri casi, le dimissioni sono efficaci solo se presentate in via telematica, con le modalità descritte al quesito precedente.

Si deve pertanto ritenere che il problema delle dimissioni in bianco sia superato.

 

 

Questione 3: Come dovrebbe comportarsi il lavoratore al quale il datore di lavoro prospetti la necessità del suo licenziamento, con possibilità di rassegnare, in alternativa, le dimissioni?

 

In linea generale, a meno che non vengano versate cifre consistenti, non è mai conveniente rassegnare le dimissioni, ma è preferibile essere licenziati. Infatti, nonostante le comune convinzione che il licenziamento sia più "infamante", le conseguenze tra le due ipotesi sono ben differenti. Innanzitutto sul libretto di lavoro non viene annotata la causa di cessazione del rapporto, ma solo ed esclusivamente la data di risoluzione. In secondo luogo, il licenziamento di regola determina il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, che varia secondo le qualifiche e l'anzianità.

 

Quel che più conta però è che il licenziamento può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, mentre le dimissioni, salvo casi eccezionali, no. Questo significa la possibilità di far verificare al Giudice che effettivamente sussistessero le ragioni che hanno portato al licenziamento (che in molti casi si rivelano, al vaglio della Magistratura, insussistenti). Nel caso in cui fosse esclusa la legittimità del licenziamento, al lavoratore- qualora si trattasse di aziende di più di 15 dipendenti- spetterebbe la tutela prevista dall’ art. 18 S.L. (per maggiori approfondimenti su questo punto, si veda Licenziamento Individuale).

 

 

 

 Questione 4: E' possibile revocare le dimissioni?

 

Fino a qualche tempo fa, le dimissioni avevano effetto quando giungevano a conoscenza del datore di lavoro; conseguentemente, da quel momento non potevano più essere revocate senza il consenso del datore di lavoro (Cassazione 20/11/90 n. 11179).

 

Tuttavia, se questa era la regola generale, erano state individuate alcune ipotesi in cui è possibile annullare le dimissioni, con conseguente ripristino del rapporto, a prescindere dal consenso del datore di lavoro. In primo luogo, sono state considerate annullabili le dimissioni rassegnate in un momento in cui il lavoratore versava in uno stato di incapacità di intendere e di volere. E' stato anche precisato che, a tal fine, non è necessaria la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive: basta la menomazione di esse, in modo tale, quanto meno, da impedire la formazione di una volontà cosciente (Cass. 5/4/91 n. 3569). Nel caso di lavoratore minorenne (le cui dimissioni sono astrattamente valide in quanto il Codice civile attribuisce al minore la capacità di compiere atti giuridici nell'ambito del rapporto di lavoro), le dimissioni possono essere annullate qualora si dimostri l'incapacità di fatto di intendere e di volere del lavoratore al momento del recesso, nonché il grave pregiudizio derivante al minore dall'atto compiuto. Un'altra ipotesi ricorre allorquando le dimissioni siano rassegnate a seguito di pressioni esercitate da datore di lavoro e configurabili alla stregua di violenza morale. Ciò si verifica, per esempio, se il datore di lavoro prospetta al lavoratore le dimissioni come alternativa al licenziamento o alla denuncia penale; più in generale, l'ipotesi ricorre se il datore di lavoro prospetta le dimissioni come alternativa all'esercizio di un proprio diritto e se, da tale minaccia, il datore di lavoro si proponga di ottenere vantaggi ingiusti (vedere per tutte Tribunale di Milano 14/2/90, che ha dichiarato l'annullabilità delle dimissioni rese dal lavoratore convinto di poter evitare l'arresto da parte dei carabinieri chiamati dal datore di lavoro).

 

Un'ultima ipotesi si è ritenuta configurabile in caso di dolo del datore di lavoro: se, cioè, il lavoratore è stato indotto alle dimissioni, che altrimenti non avrebbe rassegnato, da una falsa rappresentazione delle realtà o opera, appunto, del datore di lavoro.

 

In sintesi, una volta rassegnate, le dimissioni producevano il loro naturale effetto, salvo che ricorresse o che il datore di lavoro acconsentisse alla revoca.

 

La situazione è cambiata a seguito dell'entrata in vigore della riforma delle dimissioni, disciplinata dall'art. 26 D. Lgs. 151/2015. Infatti, a far tempo dal 12/3/16 le dimissioni devono essere rassegnate mediante la compilazione telematica di un apposito modulo, che deve essere successivamente inviato al datore di lavoro e alla Direzione Territoriale del Lavoro.

La norma prevede in particolare che, nel termine di 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo, il lavoratore ha la facoltà di revocare e dimissioni. La revoca può avvenire con le medesime modalità previste per la dimissioni, quindi compilando telematicamente un apposito modulo da inviare al datore di lavoro alla Direzione Territoriale del Lavoro.

 

Questione 5: Cosa si intende per dimissioni per giusta causa?

 

Il lavoratore può rassegnare le proprie dimissioni in tronco o senza preavviso, quando si sia verificata una causa che non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto. La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di “giusta causa” facendo riferimento a gravi inadempimenti del datore nell’ambito del rapporto di lavoro (es. omessa corresponsione della retribuzione, omesso versamento dei contributi previdenziali, molestie sessuali, dequalificazione professionale); in tal caso, proprio perché il recesso è stato determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro, il lavoratore che recede per giusta causa conserva comunque il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, nel caso si versi in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale indennità spetta al lavoratore per motivi di equità, ossia a titolo di indennizzo per la mancata percezione delle retribuzioni per il periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione, tenuto conto che l’interruzione immediata del rapporto è, in realtà, imputabile al datore di lavoro. Nel caso in cui il datore di lavoro neghi l’esistenza di una giusta causa alla base del recesso del lavoratore, e si rifiuti così di versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere l’accertamento della giusta causa delle dimissioni, e vedersi riconosciuto il diritto a percepire tale indennità, oltre che per la restituzione dell’importo eventualmente trattenuto a titolo di mancato preavviso.

 

Il lavoratore deve rassegnare le dimissioni per giusta causa con tempestività e facendo riferimento al motivo che ha determinato il recesso.