Lavoro a termine / Contratto a termine

  • Stampa

Questione 1: quando è possibile assumere a termine un lavoratore?


Il contratto a termine si differenzia sensibilmente rispetto a quello a tempo indeterminato. Infatti, mentre quest'ultimo è destinato a perdurare fino a quando il lavoratore non rassegni le dimissioni, ovvero fino a quando non sopraggiunga una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento da parte del datore di lavoro, il contratto a termine necessariamente finisce, salvo proroghe peraltro limitate dalla legge, allo scadere del termine originariamente pattuito.
La prima regolamentazione dell'istituto risale all'inizio degli anni Sessanta, con la L. 18 aprile 1962 n. 230 – che consentiva la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato a termine solo nei casi tassativamente indicati –, successivamente sostituita dal D. Lgs. 6/9/01 n. 368 che, nella versione originaria, disponeva la possibilità di fare ricorso al contratto a tempo determinato tutte le volte in cui ricorrevano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.
Negli ultimi anni il legislatore ha più volte messo mano alla disciplina del contratto a termine: dapprima con la Legge 183/2010; quindi con la legge di riforma del mercato del lavoro contenuta nella n. 92/2012; poi con il Decreto Legge 76/2013 (convertito in Legge 99/2013); ancora, il Decreto Legge 34/2014 convertito in Legge 78/2014, che ha soppresso ogni riferimento alla giustificazione tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva che, in base alla previgente disciplina, doveva giustificare l'apposizione del termine al contratto di lavoro; più di recente il D. Lgs. 81/15, come modificato dal cd. Decreto Dignità (D.L. 87/18 convertito con L. 96/18), ha profondamente innovato la disciplina del contratto a termine.
E, da ultimo, il D.L. 48/2023 (c.d. "Decreto Lavoro"), che ha rideterminato il contenuto delle c.d. "causali" (v. infra, questione 1 - bis), necessarie laddove la durata del rapporto superi i 12 mesi.
In base all'attuale disciplina, è consentita la stipulazione di un contratto di lavoro a termine acausale di durata non superiore ai 12 mesi.
Il contratto a termine può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i 24 mesi, comprensivi di eventuali proroghe e rinnovi, solo (art. 19 co. 1):
- nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali;
- in assenza di previsioni dei contratti collettivi, nei casi previsti dalla contrattazione aziendale; e laddove neppure quest'ultima indichi causali, per "esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva" individuate, concordemente, dal datore e dal lavoratore (quest'ultima ipotesi, in ogni caso, è valida solo fino al 30 aprile 2024).
- in sostituzione di altri lavoratori.
In caso di contratto a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi l'assenza di tali condizioni comporta la conversione dello stesso in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi.
Analogamente, il superamento del termine massimo di 24 mesi, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, determina la trasformazione a tempo indeterminato del contratto, e ciò a partire dal giorno in cui si è verificato il superamento dell'indicato limite temporale. Alle parti, peraltro, è data la facoltà di derogare al termine massimo di 24 mesi attraverso la stipulazione di un ulteriore contratto a tempo determinato, che non deve avere durata superiore a 12 mesi e che deve essere sottoscritto presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio.
L'apposizione del termine deve risultare per iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno che la durata del rapporto non sia superiore a dodici giorni (nel qual caso l'atto scritto non è necessario). Copia dell'atto scritto deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall'inizio della prestazione. In caso di rinnovo, l'atto scritto deve indicare la specificazione delle esigenze per le quali è stipulato; in caso di proroga, l'indicazione dei motivi è necessaria solo se il termine complessivo supera i 12 mesi.
Esistono alcuni limiti numerici all'assunzione di lavoratori a tempo determinato. In particolare, la legge stabilisce che il numero complessivo dei rapporti di lavoro a termine non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al primo gennaio dell'anno di assunzione.
Questo limite, tuttavia, incontra numerose eccezioni, a partire dalla possibilità per la contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale) di fissare limiti percentuali diversi da quello indicato dal legislatore. Nelle seguenti ipotesi, inoltre, è prevista l'esenzione da qualsiasi limitazione quantitativa:
 assunzioni a termine da parte di datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti;
 avvio di nuove attività, per i periodi indicati dai contratti collettivi;
 assunzioni per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità;
 assunzioni per specifici spettacoli o programmi radiofonici o televisivi;
 assunzioni di lavoratori di età superiore a 50 anni;
 assunzioni a termine da parte di imprese start-up innovative;
 contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra università private, incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa, tra istituti della cultura di appartenenza statale ovvero enti, pubblici e privati derivanti da trasformazione di precedenti enti pubblici, vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Per espressa indicazione della riforma del 2015, la violazione di tale limite non comporta la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti, ma soltanto l'applicazione di una sanzione amministrativa, il cui importo, per ciascun lavoratore, è pari:
 al 20 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è superiore a uno;
 al 50 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno.
L'apposizione di un termine al contratto di lavoro è invece vietata nei seguenti casi:
 sostituzione di lavoratori scioperanti;
 presso unità produttive dove, nei sei mesi precedenti, siano stati effettuati licenziamenti collettivi che abbiano coinvolto lavoratori adibiti alle medesime mansioni cui fa riferimento il contratto a tempo determinato (salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi);
 presso unità produttive nelle quali sia in atto una sospensione dei rapporti di lavoro o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui fa riferimento il contratto a termine;
 da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
In caso di violazione dei suddetti divieti, il contratto si trasforma a tempo indeterminato.
Il lavoratore assunto a termine ha diritto alle ferie, alla tredicesima mensilità, al TFR e a ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo indeterminato inquadrati al medesimo livello; ovviamente, questi istituti spettano in proporzione al periodo lavorato, e sempre che non siano obiettivamente incompatibili con la natura del contratto a termine.

 

 

Questione 1 – bis: cosa sono le "causali" ?


L'art. 1 del D.Lgs. 81/2015 prevede che "il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro".
Questo significa che la regola è (o dovrebbe essere) il tempo indeterminato, mentre il contratto a termine rappresenta (o dovrebbe rappresentare) un'eccezione.
Si è già detto (v. questione 1) come la normativa sul lavoro a tempo determinato sia stata interessata (anche di recente) da continue modifiche, ed abbia conosciuto anche periodi nei quali il ricorso a tale forma contrattuale fosse completamente "liberalizzato".
Oggi, laddove la durata del rapporto superi i 12 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi), permane l'obbligo delle "causali", così tipizzate dall'art. 19, co. 1 D. Lgs. 81/2015 (come modificato dal D.L. 48/2023):
a) "nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51" (del medesimo D. Lgs. 81/2015);
b) "in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti";
b-bis) "in sostituzione di altro lavoratori".
Ferma restando quest'ultima previsione, rimasta invariata rispetto alla disciplina precedente, il legislatore ha quindi affidato (e sembra voler affidare, per il futuro) prevalentemente alla contrattazione collettiva, nazionale e/o aziendale, il compito di individuare le specifiche ipotesi che legittimino la proroga del contratto a termine.
In assenza di previsioni di natura contrattuale o di esigenze sostitutive, è invece rimessa alle parti (ma solo fino al 30 aprile 2024, salvo ulteriori proroghe) la facoltà di individuare e "concordare" una causale.

 

 

Questione 2: il contratto a termine può essere prorogato?

La questione è disciplinata dall’art. 21 D. Lgs. 81/15.

La norma dispone che il contratto a termine può essere prorogato liberamente nei primi 12 mesi. Successivamente, è possibile prorogare il contratto solo a fronte delle condizioni di cui all'art. 19 co. 1 (v. questioni 1 e 1.bis).

In caso di violazione di quanto sopra esposto, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.

I contratti a tempo determinato stipulati dai lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate dai contratti collettivi, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ovvero, fino alla sua adozione, dal decreto del Presidente della Repubblica n. 1525 del 7 ottobre 1963 possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all’art. 19 co. 1.

La proroga è ammessa fino a un massimo di 4 volte nell'acro dei 24 mesi a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore a 4, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga.

Tali limiti non si applicano alle imprese start-up innovative per i primi 4 anni dalla loro costituzione, ovvero, nel caso di imprese già costituite all’epoca dell’entrata in vigore del D.L. 179/2012, per i più limitati periodi previsti dall’art. 25, c. 3, di detto decreto.

 

Questione 3: Cosa succede se il lavoratore viene trattenuto in servizio oltre lo scadere del termine?

La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine non comporta di per sé la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Infatti, in caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza, il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del venti per cento, per ogni giorno di prosecuzione del rapporto fino al decimo; per ogni giorno ulteriore la maggiorazione è fissata nella misura del quaranta per cento.

La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato si verifica solo nel caso di continuazione del rapporto oltre il trentesimo giorno, se il contratto aveva una durata inferiore a sei mesi, ovvero negli altri casi oltre il cinquantesimo giorno. In queste ipotesi, il datore di lavoro ha l’onere di comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente, entro la scadenza del termine inizialmente fissato, che il rapporto continuerà oltre tale termine, indicando altresì la durata della prosecuzione.

 

Questione 4: è possibile reiterare la stipulazione di contratti a termine?

Al fine di evitare abusivi ricorsi al lavoro a termine, l’art. 21 c. 2 D. Lgs. 81/15 ha previsto che, tra un contratto a termine e l'altro, deve intercorrere un intervallo minimo: si tratta di dieci giorni, ovvero di venti, a seconda che il contratto sia di durata fino a sei mesi o sia superiore. Se questo intervallo non viene rispettato, il secondo contratto si reputa a tempo indeterminato; se i due rapporti si succedono senza soluzione di continuità, si considera a tempo indeterminato l'intero rapporto, dalla data di stipulazione del primo contratto.

Tuttavia, l’intervallo tra un contratto e l’altro non è obbligatorio nel caso di attività stagionali e nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

 

Questione 5: è possibile assumere a termine un dirigente?

L’art. 29 c. 2 lett. a) D. Lgs. 81/15 disciplina l’assunzione a termine dei dirigenti. In particolare, è previsto che la stipulazione del contratto a termine è sempre possibile, con l’unico limite che non può avere una durata superiore a 5 anni.

Invece, il dirigente può recedere dal contratto trascorsi 3 anni dando il preavviso previsto dalla contrattazione collettiva. Ciò rappresenta una norma di favore per il dirigente: infatti, nel caso di rapporto a termine, la regola generale è che chi recede dal rapporto prima dello scadere del termine deve corrispondere all’altra parte le retribuzioni dovute da allora fino alla naturale scadenza del contratto. Questa regola generale vale anche per il lavoratore; tuttavia, nel caso di cui si sta parlando, e come si è visto, il risarcimento del danno è limitato al periodo di preavviso.

Il medesimo articolo 29 stabilisce ancora che i rapporti a termine con i dirigenti sono esclusi dal campo di applicazione delle norme contenute nel capo III del D.Lgs. 81/2015; diversamente, la normativa pre-riforma (contenuta nel comma 4 dell’art. 10 D.Lgs. 368/2001) prevedeva l’applicazione ai dirigenti assunti a termine quanto meno delle norme relative al principio di non discriminazione e ai criteri di computo.

A tal proposito, va tuttavia osservato che, in tema di criteri di computo, l’art. 27 D.Lgs. 81/2015 ricomprende espressamente i dirigenti assunti a termine. Quanto, poi, al principio di non discriminazione, sebbene l’art. 25 del D.Lgs. 81/2015 non faccia espresso riferimento ai dirigenti, può tuttavia ritenersi che la necessità di rispettare un tale principio possa in ogni caso ricavarsi dai principi comuni.  

 

Questione 6: Il lavoratore a termine ha un diritto di precedenza nel caso di assunzioni presso la stessa azienda?

In alcune ipotesi in cui il lavoratore a termine ha un diritto di precedenza nelle assunzioni presso la stessa azienda.

La prima ipotesi riguarda il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi: costui ha appunto il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine. Sono espressamente fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi.

Per le lavoratrici il congedo di maternità, intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza. Alle medesime lavoratrici è poi riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, sempre con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.

La seconda ipotesi riguarda invece il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionale. In questo caso, la precedenza riguarda le nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per la medesima attività stagionale.

In entrambi i casi il diritto di precedenza può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti al datore di lavoro la volontà di avvalersene. Ciò deve avvenire, nel primo caso, nel termine di sei mesi dalla cessazione del rapporto; nel secondo caso, entro tre mesi. In ogni caso, il diritto si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto.

È infine previsto che il diritto di precedenza sia espressamente richiamato nel contratto di assunzione.

 

Questione 7: è possibile licenziare un lavoratore, assunto a tempo determinato, prima che scada il termine?

Il lavoratore a termine non è tutelato contro i licenziamenti alla pari di un lavoratore a tempo indeterminato. Ovviamente, alla scadenza del periodo concordato, il rapporto si esaurisce automaticamente. Ma anche nel caso in cui il datore di lavoro licenziasse illegittimamente il lavoratore in anticipo rispetto alla data concordata per la fine del rapporto, quest'ultimo potrebbe invocare solo il risarcimento del danno e mai sarebbe configurabile la reintegrazione.

In ogni caso, il licenziamento anticipato non è necessariamente illegittimo. Infatti, il datore di lavoro può recedere dal rapporto, anche prima della scadenza del termine, in presenza di una giusta causa. In altre parole, si tratta di un gravissimo comportamento del lavoratore, che comprometta in modo irreparabile il rapporto fiduciario, al punto da rendere intollerabile la prosecuzione, anche in via provvisoria, del rapporto di lavoro.

Se invece il licenziamento anticipato non fosse sorretto da una giusta causa, il licenziamento sarebbe illegittimo. Tuttavia, anche in questo caso - come si diceva - il lavoratore potrebbe domandare al giudice la condanna del datore di lavoro per il danno subito a seguito dell'illegittimo licenziamento. Di regola, il danno viene commisurato alle retribuzioni che il datore di lavoro avrebbe corrisposto dal giorno del licenziamento dichiarato illegittimo al giorno in cui scade il termine apposto al contratto di lavoro.

Le stesse regole valgono per il lavoratore a termine che volesse dimettersi. Ciò infatti potrebbe avvenire senza impedimenti solo per giusta causa. Diversamente, qualora non sussistesse questo, è necessario concordare una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con il datore di lavoro.

In caso contrario, il lavoratore dovrebbe risarcire il danno, nella misura delle retribuzioni dovute fino alla scadenza naturale del contratto.

 

Questione 8: Cosa deve fare il lavoratore che intenda impugnare il contratto a termine?

Il lavoratore che intenda ottenere l’accertamento giudiziario della illegittimità del termine ha l’onere di impugnarlo, a pena di decadenza, entro 180 giorni dalla scadenza del termine e, nei successivi 180 giorni, sempre a pena di decadenza, deve essere depositato il ricorso giudiziario.

Prima della riforma del 2015, l’onere di impugnazione riguardava esclusivamente i licenziamenti che presupponevano la soluzione di questioni relative alla legittimità del termine apposto al contratto e ogni azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 D.Lgs. n. 368/2001.

L’attuale disciplina, racchiusa nell’art. 28 co. 1 D.Lgs. 81/2015, prevede invece l’impugnazione del termine apposto al contratto senza ulteriori precisazioni.  In base alla nuova normativa, dunque, l’onere di impugnazione ricorrerà, per esempio, anche nel caso di illegittimità del termine per violazione dell’intervallo minimo tra un contratto e l’altro (vizio che in precedenza era invece escluso dall’onere di impugnazione, non rientrando tra quelli richiamati dall’art. 32 della L. 183/2010).

Nei casi caratterizzati da una pluralità di contratti a termine che si siano succeduti nel tempo, si pone il problema di stabilire da quando decorra il termine di impugnazione; in questo caso, si potrebbe sostenere che il lavoratore debba impugnare ogni singolo contratto, anche se il relativo termine di impugnazione decorra non dopo la cessazione definitiva del rapporto, ma durante l’esecuzione di un successivo contratto a termine. La conseguenza di questo ragionamento è che se l’impugnazione avvenisse solo dopo che il rapporto è definitivamente cessato, la causa non potrebbe riguardare i primi contratti a termine di quel rapporto, per i quali sia intervenuta la decadenza. Questa interpretazione, peraltro, sembrerebbe ora trovare conferma nel testo dell’art. 28 del D.Lgs. 81/2015, ove si legge che l’impugnazione del contratto a termine deve avvenire entro 180 giorni dalla cessazione del “singolo” contratto.

È tuttavia evidente che una soluzione di questo tipo rischia di limitare fortemente la praticabilità stessa del rimedio previsto dal legislatore contro le ipotesi di illegittima apposizione del termine, dal momento un lavoratore non impugnerà mai un precedente contratto a termine mentre ne sta svolgendo un altro. Ciò avrebbe la conseguenza di precludere di fatto (o di limitare) il controllo giudiziario in un caso in cui il datore di lavoro ha fatto illegittimo ricorso a un rapporto di lavoro eccezionale, in luogo dell’ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato: in altre parole, il controllo giudiziario sarebbe di fatto vanificato a fronte di uno dei più gravi comportamenti che un datore di lavoro può porre in essere.

In altre parole, una simile interpretazione di fatto vanificherebbe la normativa limitativa del contratto a termine, e ciò in contrasto con il principio basilare della eccezionalità del termine e con il rigore cui il legislatore subordina il ricorso a questa tipologia contrattuale.

A ciò si aggiunga che, benché frammentato tra un contratto a termine e l’altro, in realtà la illegittimità del termine comporta la sussistenza di un unico rapporto a tempo indeterminato, decorrente dal primo contratto a termine illegittimo fino alla scadenza dell’ultimo. Ciò significa che, benché formalmente anche prima di allora si siano verificate plurime scadenze del termine, in realtà il rapporto è caratterizzato da una sua continuità e da un unico, complessivo termine, giacché quelli intermedi sono simulati e, comunque, di effimera efficacia, in quanto destinati a essere di lì a poco vanificati dalla instaurazione di un nuovo contratto a termine.

In buona sostanza, anche in un caso come questo vi è in realtà un unico termine scaduto, ovvero quello che ha comportato definitivamente la fine del rapporto (perché quelli precedenti non hanno impedito che il rapporto proseguisse), con la conseguenza che il giorno dal quale decorre il termine di decadenza è quello della scadenza del termine conclusivo, dopo il quale il rapporto (complessivamente considerato) è finito.

Nel caso di accertamento giudiziale della illegittima apposizione del termine, il lavoratore ha diritto alla ricostituzione del rapporto di lavoro e al pagamento di un’indennità onnicomprensiva, in misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità (il limite massimo è però di 6 mesi nel caso in cui accordi sindacali, anche aziendali, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato e comunque nell’ambito di specifiche graduatorie, di lavoratori già occupati con contratto a termine).

 

Questione 9: è legittima la riforma introdotta dal DL 34/2014?

La riforma del DL 34/14, convertito in L. 78/14, è certamente illegittima nella parte in cui ha subordinato l’apposizione del termine non più a una ragione tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva, ma a requisiti meramente formali (durata massima del rapporto).

Infatti, se a seguito della riforma, la legittimità del contratto a termine prescindesse del tutto dall’esistenza di una causale, o di una giustificazione oggettiva, si verificherebbe un evidente contrasto con la normativa europea sui contratti a termine (direttiva 1999/70/CE). Infatti, la direttiva richiede ragioni obiettive per la stipulazione di un contratto a termine, o almeno per le sue proroghe o rinnovi, mentre la riforma del 2014 considera esclusivamente ragioni tutt’altro che oggettive. Inoltre, la direttiva era stata recepita nell’ordinamento italiano proprio con il D. Lgs. 368/01, che il DL 34/14, convertito in L. 78/14, ha modificato. Ebbene, la direttiva contiene la c.d. clausola di non regresso, che impedisce, nel recepimento della normativa comunitaria, peggioramenti della disciplina nazionale. Ciò è quanto avviene con la riforma in questione: a questo punto, e per effetto della riforma del 2014, la normativa italiana in materia di contratto a termine, di recepimento della normativa comunitaria, contiene un arretramento rispetto alla normativa nazionale previgente (in quanto quest’ultima imponeva la causalità del contratto a termine); pertanto, violando la clausola di non regresso, è illegittima.

 

Questione 10: Esiste un regime particolare per l'assunzione a termine da parte di aziende di trasporto aereo e di aziende esercenti i servizi aeroportuali?

Il D. Lgs. 368/01 prevede una consistente serie di eccezioni alla disciplina generale, escludendo dal proprio campo di applicazione particolari rapporti o settori produttivi o prevedendo talune discipline speciali. In particolare, l'art. 2 introduce una disciplina aggiuntiva applicabile al settore del trasporto aereo ed ai servizi aeroportuali (la riforma del 2015 ha peraltro disposto che tale disciplina rimarrà in vigore solo fino al 31 dicembre 2016).

Più precisamente, in tali casi il termine può essere apposto per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Inoltre, il contratto deve avere un limite di durata e deve svolgersi in particolari periodi dell'anno: in altre parole, il contratto non può eccedere la durata di sei mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno; tuttavia, se la durata del contratto non eccede i quattro mesi, lo stesso può svolgersi nell'ambito di periodi diversamente distribuiti.

In ogni caso, le assunzioni a termine di cui si parla non possono eccedere il 15% del personale aziendale che risulti, al primo gennaio di ogni anno, complessivamente adibito ai servizi prima indicati (il limite è però elevabile negli aeroporti minori su autorizzazione della Direzione Provinciale del lavoro).

Della richiesta di tali assunzioni il datore di lavoro deve rendere comunicazione alle OO.SS. provinciali di categoria.

 

Questione 11: Vi sono casi in cui è vietata la stipulazione di un contratto a tempo determinato?

Ai sensi dell’art. 20 D.Lgs 81/15, è vietato assumere un lavoratore a termine nei seguenti casi:

  • quando l’assunzione avvenga per la sostituzione di altri lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

  • quando l’assunzione avvenga presso un’unità produttiva nella quale, nei sei mesi precedenti, erano stati effettuati licenziamenti collettivi, che avevano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni per le quali si vorrebbe assumere a termine. Tale divieto non trova applicazione laddove il contratto a termine sia stipulato per una durata iniziale non superiore ai tre mesi o per la sostituzione di lavoratori assenti o ancora ai sensi dell’art. 8 L. 223/91 (con lavoratori iscritti alle liste di mobilità e per la stipulazione di un contratto della durata massima di 12 mesi);

  • quando l’assunzione avvenga per svolgere le medesime mansioni svolte da altri lavoratori sospesi in cassa integrazione;

  • quando il datore di lavoro non ha effettuato la valutazione dei rischi ai sensi della normativa vigente.

 

Questione 12: esiste una durata massima del contratto a termine?

Il rapporto di lavoro a termine tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore può avere una durata massima di 24 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi di contratto, indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro. A tal fine è peraltro necessario che il lavoratore svolga sempre, nel periodo in considerazione, mansioni equivalenti.

Ai fini del calcolo del periodo di 24 mesi, si tiene conto anche di eventuali contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato svolti tra i medesimi soggetti, sempre per lo svolgimento di mansioni equivalenti.

In caso di superamento dei 24 mesi, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato a far tempo dalla scadenza del ventiquattresimo mese.

La legge riconosce alle parti la possibilità di derogare al termine di 24 mesi stipulando un ulteriore contratto a tempo determinato, alla duplice condizione che tale contratto non abbia durata superiore ai 12 mesi e che esso sia stipulato presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio; se una di queste due condizioni non viene rispettata, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla data della sua stipulazione (art. 19, c. 3, D.Lgs. 81/2015).

Sono comunque fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

In ogni caso, la disciplina sopra descritta non si applica nel caso di attività stagionali, nelle ipotesi previste dai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi e nel caso di contratto a termine stipulato con un dirigente.

 

Questione 13

 Le modifiche introdotte nel luglio del 2018 (limite di 24 mesi, 4 proroghe e obbligo di causale oltre i 12 mesi) con il cosiddetto “Decreto Dignità”, valgono per tutti i contratti a termine o per alcuni si applica ancora la precedente disciplina?

 

La legge n. 96/2018 di conversione del cosiddetto “Decreto Dignità” ha previsto un periodo transitorio che ha fatto salvi, sino al 31 ottobre 2018, i rinnovi e le proroghe dei vecchi contratti a tempo determinato già in essere in regime di “jobs act”; a tali contratti, dunque, ha continuato ad applicarsi la precedente disciplina (acausalità, limite di 36 mesi e un massimo di 5 proroghe).

Questo ha creato (e può creare) alcuni problemi nell’individuare la disciplina applicabile a ciascun contratto, a seconda del momento in cui è stato stipulato, rinnovato o prorogato.

 

Pertanto, lo schema per individuare correttamente la normativa applicabile (a seconda del momento in cui è sorto il rapporto) nella fascia temporale fra il 13 luglio e il 31 ottobre 2018 è il seguente:

- ai contratti attivati fino al 13 luglio 2018, si applica la precedente disciplina;

- ai contratti attivati, prorogati o rinnovati dal 14 luglio all’ 11 agosto 2018, si applica il Decreto Dignità;

- con riferimento al periodo dal 12 agosto a 31 ottobre 2018, si applica il Decreto Dignità ai nuovi contratti, proroghe, rinnovi e la precedente disciplina ai contratti attivati prima del 14 luglio 2018;

- da 1°novembre 2018, si applica solo il “Decreto Dignità”.

 

 

Questione 14

Quali modifiche o deroghe sono state introdotte in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da Covid 19?  

 

Il cosiddetto Decreto "Cura Italia" (D.L. 18 del 17 marzo 2020, convertito con Legge 27/2020) ha permesso, in parziale deroga alla disciplina generale, la proroga e il rinnovo dei contratti in essere, ai datori che avessero usufruito di trattamento ordinario di integrazione salariale o cig in deroga. 

 

Deroghe riferite ai soli contratti in essere, con previsione, in ogni caso, che la durata delle proroghe o dei rinnovi non eccedesse il periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali legati all’emergenza Covid.

Successivamente, il  D.L. 34 del 19 maggio 2020, ha consentito, per i contratti in essere al 23 febbraio 2020, la proroga e il rinnovo senza l'indicazione di una delle causali normalmente previste dalla legge ("esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori, esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria"), ma solo a condizione che ciò avvenisse per far fronte al "riavvio delle attività in conseguenza dell'emergenza Covid". In ogni caso, è stato previsto che la durata del rapporto non potesse superare il 30 agosto 2020.

Sempre il medesimo Decreto aveva introdotto, all’art. 93, comma 1 bis, la proroga automatica (sempre riferita ai contratti in essere al 23 febbraio 2020), per una durata corrispondente, per ciascun rapporto, al periodo di sospensione dell’attività lavorativa.

Da ultimo, è intervenuto il D.L. 104/2020 (entrato in vigore il 15 agosto 2020), che ha esteso a tutti i contratti (non solo quelli in essere al 23 febbraio 2020) la possibilità di proroga e rinnovo per motivi connessi all’emergenza epidemiologica, sino al 31 dicembre 2020 e per un periodo massimo di 12 mesi, ferma restando in ogni caso la durata massima di 24 mesi.