Licenziamento nelle piccole imprese

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Questione 1

Quali tutele sono riconosciute al lavoratore illegittimamente licenziato in una piccola impresa?

In caso di licenziamento di lavoratori assunti presso aziende di piccole dimensioni – vale a dire le aziende che non raggiungono le soglie dimensionali fissate dall’art. 18 della legge 300/1970: unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale –, la legge prevede che il recesso debba essere comunicato per iscritto e che, su richiesta del dipendente, il datore di lavoro debba fornire le motivazioni del licenziamento. La violazione di una di queste due regole comporta l’inefficacia del licenziamento.

Perché il recesso sia ritenuto legittimo, è altresì necessario che il licenziamento sia sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo).

Se il giudice accerta l’illegittimità del licenziamento, per assenza della giusta causa o del giustificato motivo addotto dal datore di lavoro, il lavoratore beneficia di specifiche tutele previste dall’ordinamento.

Dette tutele, a seguito della recente riforma del diritto del lavoro nota come Jobs Act, variano a seconda della data di assunzione del lavoratore illegittimamente licenziato. In particolare:

  • in caso di dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, le tutele applicabili sono quelle disciplinate dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della Legge 108/1990, e dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, così come modificati dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero);
  • in caso di dipendente assunto dal 7 marzo 2015 in avanti, trovano invece applicazione le tutele di cui al decreto legislativo 23/2015.

 

A. Le tutele per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015

Per quanto concerne i lavoratori delle piccole imprese assunti prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, la legge prevede, anzitutto, che essi possano beneficiare della tutela reintegratoria nei seguenti casi:

  • licenziamento nullo perché discriminatorio;
  • licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio;
  • licenziamento comminato in violazione delle disposizioni in materia di tutela della maternità e paternità;
  • licenziamento determinato da motivo illecito determinante;
  • altre ipotesi di licenziamento nullo previsto dalla legge;
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale.

In tali ipotesi, ai lavoratori illegittimamente licenziati spetta:

  • la reintegrazione nel posto di lavoro;
  • un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non inferiore alle 5 mensilità (dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative);
  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;
  • il cd. diritto di opzione, ossia la possibilità di scegliere di sostituire la reintegrazione con una indennità pari a 15 mensilità e non assoggettata a contribuzione previdenziale.

In tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo, invece, il lavoratore avrà diritto a una tutela esclusivamente economica.

In particolare, l’art. 8 della legge 604/1966, nella sua attuale formulazione, prevede che quando il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a versargli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Il giudice stabilisce l’ammontare dell’indennità tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'impresa, dell'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, del comportamento e delle condizioni delle parti.


B. Le tutele per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti

Come detto, i lavoratori delle piccole imprese che siano stati assunti dopo il 7 marzo 2015 beneficiano del regime di tutele introdotto dal decreto legislativo n. 23/2015. In linea con la disciplina previgente, anche la nuova normativa prevede la reintegrazione nelle seguenti ipotesi:

  • licenziamento discriminatorio;
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge (ad esempio perché intimato in concomitanza con il matrimonio o in violazione delle disposizioni in materia di tutela della maternità e paternità);
  • licenziamento intimato per motivi relativi alla salute e disabilità fisica o psichica del lavoratore.

In tutti questi casi, il giudice condanna il datore di lavoro a riammettere in servizio il dipendente e a corrispondergli un’indennità corrispondente alla retribuzione maturata nel periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità, che non può in ogni caso essere inferiore a 5 mensilità, va dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Nelle altre ipotesi di licenziamento illegittimo, invece, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico (non assoggettato a contribuzione previdenziale) di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio; in ogni caso, l’indennizzo non può essere inferiore a 3 mensilità, né può superare le 6 mensilità.

Se l’illegittimità del licenziamento discende dalla violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300 del 1970, tuttavia, l’indennità sarà pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 1 mensilità e un limite massimo di 6 mensilità.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194/2018, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 co. 1 nella parte in cui determina rigidamente l’indennità dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato. La Corte Costituzionale ha infatti affermato che tale modalità di calcolo, legata unicamente all’anzianità aziendale, è illegittima in quanto “prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente” e, pertanto, non può ritenersi rispettosa degli artt. 4 co. 1 e 35 co. 1 Cost.. Conseguentemente, la stessa Corte ha precisato che, al fine di quantificare l’indennità dovuta nel caso contrato, il giudice deve far riferimento ai criteri ex art. 8 L. 604/66 e art. 18 c. 5 S.L. (anzianità aziendale del lavoratore, dimensioni dell’azienda, condotta delle parti…).

La pronuncia della Corte Costituzionale ha certamente rilievo anche con riferimento alle imprese di piccole dimensioni, giacché l’art. 9 del D. Lgs. 23/15 richiama direttamente l’art. 3 co. 1. Infatti, il citato articolo 9 non dispone una disciplina autonoma della sanzione applicabile ai licenziamenti illegittimamente intimati dai datori di lavoro che non raggiungo le soglie occupazionali ex art. 18 S.L.. Piuttosto, a tal fine la norma  compie un mero richiamo dell’art. 3 c. 1, prevedendo che l’importo ivi previsto viene dimezzato e non può superare il limite di 6 mensilità.

Va infine segnalato che la riforma del 2015 ha introdotto una nuova procedura conciliativa, che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe ridurre i tempi di definizione delle controversie sul licenziamento, in particolare attraverso il pagamento immediato di un indennizzo da parte del datore di lavoro.

Tale procedura prevede che il datore di lavoro, entro 60 giorni dal licenziamento, possa convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare che, per i lavoratori delle piccole imprese, avrà un importo pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 1,5 mensilità e non superiore a 6 mensilità.

L’indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.

L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.