Lavoratrice madre e lavoratore padre

Questione 1

Come viene tutelata la maternità nel nostro ordinamento, a seguito della più recente evoluzione normativa?

La tutela che il nostro ordinamento accorda alla lavoratrice madre è frutto di una lunga evoluzione normativa che è sempre stata caratterizzata dalla finalità protezionistica sancita dalla Costituzione, in particolare all’art. 37. A partire da tale norma, la tutela della lavoratrici madri è stata in principio attuata con l’emanazione della Legge 1204/1971, integrata successivamente dalla Legge n. 903 del 1977 e dalla Legge 53/2000.

La materia in esame, poi, è stata ridisegnata in una logica paritaria dal D.Lgs. 151/2001, contenente il T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, modificato e integrato con il D.Lgs. 115/2003.

Il Testo Unico, in particolare, ha raccolto e riordinato il complesso delle disposizioni vigenti in materia, nonché alcune norme della Legge n. 903 del 1977 in tema di parità di trattamento tra uomo e donna.

Successivamente, la normativa a protezione delle lavoratrici madri è stata oggetto di ulteriori modifiche a seguito dell’introduzione, dapprima, della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (cd. riforma Fornero), successivamente dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act (legge delega n. 183 del 2014), e da ultimo del D.Lgs. 105/2022 (in vigore dal 13 agosto 2022).

Attraverso tale evoluzione, a oggi, la legge tutela la lavoratrice madre nelle diverse fasi della gravidanza e dei primi anni di vita del bambino.

In primo luogo, la salute della lavoratrice è tutelata vietando che la stessa venga adibita, dall’inizio della gravidanza e fino al settimo mese di età del figlio, a lavori ritenuti pericolosi, e, fino al primo anno di età del bambino, a lavori notturni (dalle 24 alle 6).

La legge prevede poi la possibilità per la madre lavoratrice (o per il padre, in casi specifici) di astenersi dall’attività lavorativa in determinati periodi della gravidanza e dei primi mesi di vita del figlio.

In particolare, il congedo di maternità prevede l’obbligo di astensione dal lavoro per la lavoratrice da due mesi prima la data presunta del parto, sino a tre mesi dopo (è però prevista la possibilità di astenersi in un momento antecedente i due mesi precedenti la data presunta del parto – in determinate condizioni di salute della lavoratrice – oppure il mese precedente la data presunta del parto ed i quattro mesi successivi), con diritto all’80% della retribuzione. In alternativa, è riconosciuta alla lavoratrice madre la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente nei 5 mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del SSN e il medico del lavoro attestino che ciò non pregiudichi la sua salute e quella del nascituro.

Tale diritto spetta anche la lavoratore padre (cd. “congedo di paternità”) a determinate condizioni previste dalla legge.   

Nei primi dodici anni di vita del figlio, la legge prevede la possibilità per i genitori lavoratori di astenersi dall’attività lavorativa per un totale di 10 mesi, frazionati o continuativi; i mesi sono 11 se il padre si astiene almeno per 3 mesi, ovvero quando vi sia un solo genitore nei confronti del quale sia stato disposto l'affidamento esclusivo del figlio. In tale ultimo caso, l'altro genitore perde il diritto al congedo non ancora utilizzato.

Ciascun genitore può usufruire del congedo parentale per un massimo di 6 mesi (elevabili a 7 per il padre lavoratore che eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo non inferiore a 3 mesi).

Nei primi 12 anni di vita del bambino, nei periodi in cui godono di questo congedo, le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto, per 3 mesi (non trasferibili all'altro genitore) ad un'indennità pari al 30% della retribuzione.

La riforma del 2012 ha poi previsto che, al termine del periodo di congedo di maternità, la lavoratrice madre possa sostituire il congedo parentale con un voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, per un massimo di sei mesi. Tale beneficio, introdotto in via sperimentale dalla legge 92/2012, è stato dapprima prorogato fino al biennio 2017/2018, poi cancellato dalla Legge di Stabilità per il 2019.  

Ai lavoratori genitori è altresì riconosciuta la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time), con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50% (novità introdotta dal d.lgs. 81/2015). Il datore di lavoro è tenuto a disporre la trasformazione entro 15 giorni dalla richiesta.

Nel corso della vita del figlio, i genitori lavoratori hanno poi diritto a riposi retribuiti e congedi non retribuiti per le malattie del figlio.

La legge, infine, garantisce la conservazione del posto di lavoro per la lavoratrice madre, o il lavoratore padre che abbia usufruito di congedi, attraverso il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del figlio, l’obbligo di convalida da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro delle dimissioni presentate durante i primi tre anni di vita del bambino, nonché il diritto a conservare il proprio posto di lavoro e a rientrare nella stessa unità produttiva cui era adibita precedentemente, con le stesse mansioni.

Il licenziamento intimato in violazione delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità è nullo e comporta l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dalla legge, che varia a seconda della data di assunzione della lavoratrice (o del lavoratore); in particolare:

  • se il licenziamento riguarda una lavoratrice assunta prima del 7 marzo 2015, si applicano le tutele indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012;

  • se l’assunzione è avvenuta a decorrere dal 7 marzo 2015, trovano invece applicazione le tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del cd. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti).

Tali norme, peraltro, hanno contenuto sostanzialmente identico: in entrambi i casi è stabilito che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;

  • la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);

  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;

  • il cd. diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

 

Questione 2

Sono previste tutele anche a favore dei genitori adottivi? 

Il nostro ordinamento prevede delle tutele anche nel caso di adozione (sia nazionale che internazionale) e affidamento. 

In particolare, si prevede:

  • un congedo di maternità di 5 mesi (3 mesi in caso di affidamento temporaneo). Tale congedo nel caso di adozione nazionale deve essere fruito tutto dopo l’ingresso del minore in famiglia. Nel caso di adozione internazionale, invece, il congedo può essere fruito anche prima dell’ingresso del minore in Italia e durante il periodo di permanenza all’estero dei genitori;

  • un congedo di paternità, che può essere esercitato in alternativa alla madre lavoratrice dipendente, che abbia rinunciato (anche solo in parte) al congedo di maternità. Il padre può altresì godere del congedo di paternità previsto a favore dei genitori biologici, in caso di morte o di grave infermità della madre adottiva o affidataria o da parte di abbandono del bambino da parte della stessa;

  • un congedo parentale analogo a quello riconosciuto ai genitori biologici, qualunque sia l’età del minore, da utilizzarsi entro 12 anni dal suo ingresso in famiglia, e comunque non oltre il raggiungimento della maggiore età;

  • riposi giornalieri e congedi analoghi a quelli riconosciuti ai genitori biologici.

  

Questione 3

È legittimo licenziare una lavoratrice in stato di gravidanza, o che ha appena avuto un bambino?

Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento è connesso con lo stato oggettivo di gravidanza.

La lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l'esistenza, all'epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano.

Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere:

  • sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale;

  • collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della Legge 223/1991 e successive modificazioni. 

Il divieto di licenziamento si applica anche in caso di adozione o affidamento (fino a un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità).

Il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo coperto dal divieto è nullo.

È inoltre nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore.

Il divieto di licenziamento non si applica nel caso di:

  • colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

  • cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;

  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;

  • esito negativo della prova. 

La legge disciplina espressamente le conseguenze derivanti da un licenziamento illegittimo, in quanto comminato in violazione della normativa prevista in materia di tutela della maternità e paternità. Formalmente, il regime sanzionatorio varia a seconda che la lavoratrice sia stata assunta prima o dopo il 7 marzo 2015: nel primo caso, valgono le sanzioni indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970; nel secondo caso, invece, si applicano le sanzioni di cui all’art. 2 del decreto legislativo 23/2015.

Nella sostanza, peraltro, le tutele contemplate dalle due normative sono pressoché identiche, dal momento che entrambe prevedono:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;

  • la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);

  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;

  • il cd. diritto di opzione a favore lavoratore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

  

Questione 4

Il divieto di licenziamento opera anche in favore del padre ?

In caso di fruizione del congedo di paternità (sia obbligatorio che "alternativo"), il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per tutta la durata del congedo stesso, e si estende fino all'anno di vita del bambino.

 

Questione 5

Che cosa si intende per congedo di maternità (cd. astensione obbligatoria)?

Il congedo di maternità indica il periodo durante il quale non è possibile adibire al lavoro una lavoratrice.

In particolare, la legge vieta di adibire al lavoro le lavoratrici nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi al parto.

Il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all'avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli.

 

E’ stata recentemente riconosciuta alla lavoratrice la facoltà di assentarsi dal lavoro esclusivamente dopo il parto entro i 5 mesi successivi allo stesso, a condizione che un medico specialista del SSN (o con esso convenzionato) e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che ciò non attenti alla salute della gestante e del nascituro (L. 145/18 modifica art. 16, co. 1.1 D.Lgs. 151/01).

 

Può inoltre essere disposta l'interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza anche in un momento precedente nei seguenti casi:

  • nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;

  • quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;

  • quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, non pregiudizievoli. 

Le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che un certificato medico attesti che tale opzione non arrecherà pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.

Prima dell'inizio del periodo relativo al congedo di maternità, le lavoratrici devono consegnare al datore di lavoro e all'istituto erogatore dell'indennità di maternità il certificato medico indicante la data presunta del parto.
Successivamente, la lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato di nascita del figlio, ovvero la dichiarazione sostitutiva.

Se il parto avviene oltre la data presunta, l’astensione obbligatoria opera anche per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto; in caso di parto anticipato, invece, gli ulteriori giorni non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo di maternità di cui la lavoratrice beneficia dopo il parto, e ciò anche quando la somma dei periodi (prima e dopo il parto) superi il limite di 5 mesi (quest’ultima disposizione, introdotta dal d.lgs. 80/2015 e originariamente prevista in via sperimentale per il solo anno 2015, è stata infine resa definitiva dal d.lgs. 148/2015).

In caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo post partum, riprendendo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del congedo dalla data di dimissione del bambino. Tale diritto, introdotto nel 2015, può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di un certificato medico che attesti la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell'attività lavorativa.

 

Questione 6

E' previsto un periodo di astensione obbligatoria anche per il padre lavoratore ?


Sì. Introdotto in via sperimentale nel 2012 (per il triennio 2013-2015), è divenuto strutturale con l'entrata in vigore del D. Lgs. 105/2022.

Il padre lavoratore, nel periodo fra i due mesi precedenti la (presunta) date del parto ed i cinque mesi successivi, si astiene dal lavoro per un periodo di 10 giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. In caso di parto plurimo, la durata è di 20 giorni lavorativi.

Il congedo - che si applica anche al padre adottivo o affidatario - è fruibile anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice.

Per poterlo esercitare, il padre deve comunicare in forma scritta al datore di lavoro i giorni in cui intende fruirne, con un anticipo non inferiore a 5 giorni.

  

Questione 7

Durante il congedo di maternità la lavoratrice ha diritto a un’indennità?

Per tutto il periodo del congedo per maternità, le lavoratrici hanno diritto ad una indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione.

Molti contratti collettivi pongono a carico del datore di lavoro il pagamento del restante 20%, così da assicurare alla lavoratrice l’intera retribuzione.

L’indennità di maternità è dovuta anche in caso di:

  • cessazione dell'attività dell'azienda cui la lavoratrice è addetta;

  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;

  • risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;

  • risoluzione del rapporto a seguito di licenziamento per giusta causa derivante da colpa grave della lavoratrice (ipotesi introdotta in via sperimentale dal d.lgs. 80/2015 e resa definitiva dalla legge 148/2015). 

Le lavoratrici gestanti che si trovino, all'inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero disoccupate, sono ammesse al godimento dell'indennità giornaliera di maternità purché tra l'inizio della sospensione, dell'assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni, per il calcolo dei quali non si tiene conto di:

  • assenze per malattia o infortunio sul lavoro;

  • congedi per precedente maternità;

  • periodi di mancata prestazione lavativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.

Qualora invece il periodo di congedo di maternità abbia inizio dopo che siano trascorsi sessanta giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro (o dalla sospensione): 

  • se la lavoratrice si trova – all’inizio del congedo – disoccupata e con diritto al godimento dell’indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità, anziché all’indennità ordinaria di disoccupazione;

  • se la lavoratrice non è titolare di diritto al godimento di indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità purché al momento dell'inizio del congedo di maternità non siano trascorsi più di centottanta giorni dalla data di risoluzione del rapporto e, nel biennio che precede il suddetto periodo, risultino a suo favore, nell'assicurazione obbligatoria per le indennità di maternità, ventisei contributi settimanali;

  • se la lavoratrice si trova – all’inizio del congedo – sospesa e in godimento del trattamento di integrazione salariale a carico della Cassa integrazione Guadagni, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità, anziché al trattamento integrativo.

La normativa relativa al congedo di maternità si applica alle lavoratrici dipendenti (comprese le lavoratrici a domicilio, le lavoratrici domestiche e quelle con contratto a tempo parziale) e alle titolari di collaborazioni a progetto (per le quali, in caso di gravidanza, è prevista la proroga della durata del rapporto di lavoro per 180 giorni). Godono di una indennità di maternità (erogata dall’Inps) anche le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole.

L’indennità è erogata per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi ed è pari all'80 per cento della retribuzione minima giornaliera prevista rispettivamente per gli impiegati e per gli operai agricoli a tempo indeterminato.

Alle libere professioniste, iscritte a una cassa di previdenza e assistenza, è corrisposta un'indennità di maternità (in misura pari all'80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda) per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi.

L'indennità è corrisposta, indipendentemente dall'effettiva astensione dall'attività, dalla competente cassa di previdenza e assistenza, a seguito di apposita domanda presentata dall'interessata a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di centottanta giorni dal parto.

In caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre, l’indennità spetta al padre libero professionista per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua (novità introdotta dal d.lgs. 80/2015)

 

Questione 8

È previsto un periodo di congedo facoltativo anche a favore del padre?


Sì, è il "congedo di paternità alternativo".

Per legge il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro (con diritto ad un’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione), per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, nei soli casi di:

  • morte o grave infermità della madre;

  • abbandono del figlio da parte della madre;

  • affidamento esclusivo del bambino al padre.

Lo stesso diritto vale anche in caso di adozione o affidamento di minore, con i limiti previsti per il congedo di maternità.

Il D. Lgs. 105/2022 ha inoltre esteso il diritto al congedo parentale anche al lavoratore autonomo.

 

  

Questione 9

Cosa si intende per congedo parentale (cd. astensione facoltativa)?

Per congedo parentale si intende il diritto in capo a entrambi i genitori di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino.

La disciplina dei congedi parentali è stata modificata dal legislatore, dapprima nell’ambito della complessiva riforma del diritto del lavoro del 2015 (c.d. Jobs Act), che ha esteso ai primi 12 anni di vita del bambino il periodo nel quale i genitori possono astenersi dal lavoro. E da ultimo, con il D. Lgs. 105/2022, che ha così ridisegnato i periodi di congedo parentale indennizzabile: 

 

alla madre, fino al dodicesimo anno (e non più fino al sesto anno) di vita del bambino (o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento) spetta un periodo indennizzabile di 3 mesi, non trasferibili all'altro genitore;

 

- al padre, fino al dodicesimo anno (e non più fino al sesto anno) di vita del bambino (o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento) spetta un periodo indennizzabile di 3 mesi, non trasferibili all'altro genitore;

 

- entrambi i genitori hanno altresì diritto, in alternativa tra loro, a un ulteriore periodo indennizzabile della durata complessiva di 3 mesi, per un periodo massimo complessivo indennizzabile tra i genitori di 9 mesi (e non più 6 mesi).

 

Restano, invece, immutati i limiti massimi individuali e di entrambi i genitori previsti dall'articolo 32 del T.U. ossia:

 

- la madre può fruire di massimo 6 mesi di congedo parentale per ogni figlio entro i primi dodici anni di vita o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento;

 

- il padre può fruire di massimo 6 mesi (elevabili a 7 mesi nel caso in cui si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi) per ogni figlio entro i primi dodici anni di vita o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento;

 

- entrambi i genitori possono fruire complessivamente massimo di 10 mesi di congedo parentale (elevabili a 11 mesi nel caso in cui il padre si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi) per ogni figlio entro i primi dodici anni di vita o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento.

 

Al genitore solo, sono riconosciuti 11 mesi (e non più 10 mesi) continuativi o frazionati di congedo parentale, di cui 9 mesi (e non più 6 mesi) sono indennizzabili al 30 per cento della retribuzione. La novella normativa precisa che per genitore solo deve intendersi anche il genitore nei confronti del quale sia stato disposto, ai sensi dell'articolo 337-quater del codice civile, l'affidamento esclusivo del figlio.

 

Per i periodi di congedo parentale ulteriori ai 9 mesi indennizzabili per entrambi i genitori o per il genitore solo, è dovuta, fino al dodicesimo anno (e non più fino all'ottavo anno) di vita del bambino (o dall'ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento), un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, a condizione che il reddito individuale dell'interessato sia inferiore a 2,5 volte l'importo del trattamento minimo di pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria.

Tutte queste modifiche, inizialmente previste in via sperimentale per il solo anno 2015, sono state rese definitive dal d.lgs. 148/2015, entrato in vigore il 24 settembre 2015.

Sempre nel 2015, il legislatore ha inoltre previsto per i lavoratori e le lavoratrici la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time), con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50% (novità introdotta dal decreto legislativo n. 81/2015).  

La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell'articolo 4, comma 1, della Legge 104/1992, ha diritto al prolungamento fino a tre anni del congedo parentale, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati.

Il congedo parentale spetta anche nei casi di adozione (nazionale e internazionale) e di affidamento ed è fruibile, qualunque sia l’età del minore, entro otto anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare e comunque non oltre il raggiungimento della maggiore età.

 

Questione 10

Può la lavoratrice madre allontanarsi dal lavoro per allattare il bambino?

Durante il primo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre (o il padre, se la madre non se ne avvale, se non è lavoratrice dipendente, se è deceduta o se i figli sono affidati esclusivamente a lui) ha diritto a due periodi di riposo (cumulabili nel corso della giornata) della durata di un’ora ciascuno (mezz’ora se il bambino frequenta il nido aziendale), che comportano il diritto ad uscire dall’azienda (con orario giornaliero inferiore a sei ore, il riposo è uno).


I riposi si applicano anche in caso di adozione o affidamento, nel primo anno di vita del bambino.

In caso di parto plurimo, le ore di riposo sono raddoppiate. Per questi riposi è dovuta un’indennità – a carico dell’ente assicuratore ma anticipata dal datore di lavoro – pari all’intero ammontare della retribuzione relativa ai riposi stessi. 

 

Questione 11

È legittimo non assumere una lavoratrice che, sottoposta ad un preventivo test di gravidanza, sia risultata incinta?

Un simile comportamento sarebbe sicuramente illegittimo. Dispone infatti l’art. 27 del d.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) che è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro. La stessa norma chiarisce che la discriminazione sessuale è vietata anche se attuata, tra l'altro, attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza.

Deroghe a questo divieto possono essere introdotte dalla contrattazione collettiva, con riferimento a lavori particolarmente pesanti. Un'altra deroga al divieto è prevista dalla legge stessa nel caso in cui si tratti di assunzione in una attività della moda, dell'arte o dello spettacolo, ovvero nei casi in cui l'appartenenza all'uno o all'altro sesso sia essenziale alla natura del lavoro e della prestazione.

Sulla scorta dei principi sopra segnalati, la lavoratrice che non sia stata assunta in quanto gravida, può chiedere che l'assunzione sia disposta per ordine del giudice. A tale riguardo, l'art. 38 della legge citata disciplina una procedura particolare e celere. Più precisamente, la lavoratrice personalmente, o le organizzazioni sindacali dalla stessa delegate, possono ricorrere al giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento discriminatorio. Il giudice convoca entro i due giorni successivi le parti e, accertata la discriminazione sessuale, ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo, nonché la rimozione degli effetti di tale comportamento. Il giudice decide con decreto immediatamente esecutivo, che può essere opposto dalla parte interessata nel termine di 15 giorni dalla comunicazione dello stesso alle parti. L'inottemperanza a tale decreto è penalmente sanzionata (ammenda fino a 50 mila euro e arresto fino a 6 mesi).

 

Questione 12

La legge tutela in modo specifico la salute della lavoratrice madre sul posto di lavoro?

Durante la gravidanza (e fino ai sette mesi di età del figlio) la lavoratrice non può essere adibita al trasporto, al sollevamento di pesi nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri.

 
Nel periodo di divieto, la lavoratrice deve essere adibita ad altre mansioni, con mantenimento di retribuzione e qualifica. Quanto al compimento di mansioni superiori od equivalenti, si applica l’art. 2103 c.c..
 
Se la lavoratrice non può essere spostata ad altre mansioni, può essere disposta l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di gravidanza e fino al compimento dei sette mesi di età del figlio.

È vietato adibire le donne che allattano ad attività che comportino rischio di contaminazione.

La lavoratrice gestante ha diritto a permessi retribuiti per effettuare esami prenatali, accertamenti clinici o visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro (dietro presentazione della relativa documentazione giustificativa).

Queste tutele sono applicabili anche alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o affidamento, fino al loro compimento di sette mesi di età.

 

Questione 13

Quali diritti ha la madre di un minore portatore di handicap?

L’art. 33 d.lgs. 151/2001 consente alla lavoratrice madre (o, in alternativa, al padre) di minore portatore di handicap di richiedere la protrazione del periodo di astensione facoltativa dal lavoro sino a tre anni, e ciò al fine di consentire al genitore di prestare assistenza al minore in difficoltà, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore.

Per poter fruire di tale diritto, è però necessario che lo stato di minorazione o di difficoltà del minore, tale da richiedere un intervento assistenziale permanente, sia accertato dalle competenti commissioni mediche costituite presso le unità sanitarie locali.

Peraltro, i tempi di pronunciamento di tali commissioni non sono sempre rapidissimi; può, dunque, accadere che l’ordinario periodo di astensione dal lavoro vada a scadere prima che vi sia stata la decisione della commissione, e dunque il riconoscimento dello stato di invalidità. In questo caso, la lavoratrice sarebbe costretta a riprendere servizio sino alla pronuncia della commissione. Per supplire a tale problema, l’art. 2, d.l. 324/1993 prevede che, in attesa della pronuncia definitiva della commissione, è possibile richiedere un accertamento provvisorio, che deve essere effettuato da un medico specialista in servizio sempre presso l’unità sanitaria locale. Tale accertamento, che non richiede formalità particolari, produce immediatamente effetto, e dunque consente alla lavoratrice di protrarre il periodo di aspettativa sino alla decisione definitiva della commissione.

In alternativa, ovvero nel caso in cui la lavoratrice/ il lavoratore ritenga comunque preferibile riprendere l’attività lavorativa prima che siano trascorsi tre anni, la legge le consente di fruire di un permesso giornaliero di due ore, retribuito, sino al compimento del terzo anno di vita del bambino.

Dopo i tre anni del bambino, il genitore, allorché ricorrano le condizioni previste dalla legge, potrà fruire del congedo straordinario della durata complessiva di due anni contemplato dall’ art. 42, co. 5, d.lgs. 151/2001.

 

Questione 14

E' possibile licenziare una lavoratrice in stato di gravidanza durante il periodo di prova ?

L'art. 54, comma 3, lett. d) del D. Lgs. 151/2001, dispone che il divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza, non opera (fra le altre ipotesi) in caso "di esito negativo della prova"; fermo restando, "il divieto di discriminazione di cui all'art. 4 della Legge 10 aprile 1991, n. 125 e successive modificazioni".

Ciò significa che il datore di lavoro, laddove sia a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice, può legittimamente avvalersi, anche nei suoi confronti, della facoltà di recesso "ad nutum" tipica del periodo di prova; ciò, ovviamente, indicando espressamente le ragioni in base alle quali ritenga che la stessa non abbia superato la prova. 

La lavoratrice, in ogni caso, potrà agire in giudizio per far accertare la nullità del recesso, laddove ritenga che, dietro la motivazione formalmente invocata, si celi in realtà un intento discriminatorio; fermo restando che, in tal caso, sarà sua onere dimostrare la sussistenza di un motivo illecito determinante.