Licenziamento per malattia

Questione 1

E' possibile licenziare un lavoratore perché ammalato?

 

Il nostro ordinamento è particolarmente attento alla salute ed ai problemi che ne derivano. Infatti, l'art. 32 della Costituzione definisce la salute come diritto fondamentale dell'individuo e come interesse della collettività. Con riguardo ai rapporti di lavoro, l'art. 2110 del codice civile dispone che, in caso di malattia (oltre che di infortunio, gravidanza o puerperio), il rapporto di lavoro viene sospeso e che il datore di lavoro può licenziare il lavoratore malato solo quando sia scaduto il termine di conservazione del posto (cosiddetto termine di comporto) appositamente previsto dai contratti collettivi. In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato.

La legge 92/2012 è intervenuta sul punto, disciplinando espressamente le conseguenze derivanti da un licenziamento comminato il violazione delle regole appena descritte. Secondo la riforma del 2012 (cd. riforma Fornero), infatti, il lavoratore può ottenere la cd. tutela reintegratoria attenuata. Più precisamente, ai sensi del nuovo art. 18 comma 7 S.L. (che rinvia al comma 4 della stessa norma), Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltrechè al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Il licenziamento per malattia non è invece espressamente menzionato dal D. Lgs. 23/2015, che ha introdotto il contratto di lavoro a tutele crescenti e il conseguente apparato sanzionatorio, alternativo all'art. 18 S.L.. Tuttavia, l'art. 2 c. 4 del D. Lgs. appena citato, contempla il licenziamento per un motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli art. 4 c. 4 e 10 c. 3 L. 68/99. Con riferimento a tali licenziamento, la riforma del 2015 dispone che, accertato il difetto di giustificazione, si applica la stessa sanzione prevista per i licenziamenti discriminatori o nulli o intimati in forma verbale (reintegrazione e risarcimento del danno nella misura minima di 5 mensilità). Ebbene: poiché il riferimento è anche alle ipotesi contemplate dalla L. 68/99, ne consegue che il riferimento alla disabilità non riguarda solo quelle accertate, ex art. 1 L. 68/99, mediante apposite commissioni amministrative. Piuttosto, la disabilità contemplata dalla norma riguarda ogni ipotesi di inidoneità, anche temporanea, allo svolgimento del lavoro, e quindi anche le ipotesi riconducibili alla malattia, con la conseguenza che il licenziamento per eccessiva morbilità (attenendo a una disabilità in senso lato del lavoratore) deve essere ricompreso nelle ipotesi disciplinate dal citato art. 2 c. 4.

Si capisce dunque che diventa prioritario verificare la durata del termine di comporto disciplinato dal contratto.

Di solito, il contratto distingue due ipotesi: il comporto secco, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di un'unica malattia di lunga durata, e il comporto per sommatoria, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di più malattie. Tuttavia, anche se quella appena indicata appare una normativa di garanzia a favore del lavoratore, si capisce che, scaduto il termine di comporto, il lavoratore può essere licenziato anche se effettivamente e seriamente malato. Per ovviare a questo inconveniente, spesso i contratti collettivi di lavoro introducono un altro istituto, quello della aspettativa non retribuita: per un periodo massimo indicato dal contratto, il rapporto di lavoro può proseguire, sia pur in assenza della retribuzione, anche oltre il termine di comporto. Si tratta di un istituto molto importante, tanto che alcune sentenze hanno dichiarato illegittimo il licenziamento intimato per superamento del termine di comporto, se il datore di lavoro non ha preventivamente comunicato al lavoratore la facoltà di fruire della citata aspettativa.

Pertanto, il lavoratore che sia seriamente malato e che, approssimandosi la scadenza del periodo di comporto, non può tornare al lavoro, può fruire dell'istituto di cui si è detto. Il datore di lavoro non può rifiutare l'aspettativa, a mano che dimostri la sussistenza di seri motivi impeditivi alla concessione della stessa.

 

Questione 2

Come si calcola il periodo di comporto per un lavoratore a tempo parziale?

 

Di tale ipotesi si è occupata la Cassazione, a seguito del ricorso presentato da un lavoratore con orario di lavoro ridotto a 24 ore settimanali (sentenza n. 14065 del 14.12.99).

Tale lavoratore era stato licenziato sebbene non avesse superato il tetto massimo di assenza, pari a 180 giorni, previsto dal contratto nazionale di lavoro a lui applicato. La società aveva difeso la propria decisione sostenendo che, trattandosi di lavoratore non a tempo pieno, aveva diritto ad un periodo di comporto inferiore, ovvero proporzionato alla durata del suo orario. Tale tesi era stata accolta dal Pretore, ma non dal Tribunale che, in sede di appello, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento. La Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale, ma con una precisazione.

Nel caso in cui il rapporto di lavoro sia (come nell’ipotesi esaminata dalla Corte) un part – time cosiddetto orizzontale, ovvero distribuito sui tutti i giorni lavorativi, ma con una durata giornaliera ridotta, non vi è motivo di riconoscere un periodo di comporto inferiore rispetto a quello ordinario, effettuando tale lavoratore un numero di giornate lavorative analogo a quello dei colleghi a tempo pieno. Al contrario, nel caso in cui il part – time sia "verticale", ovvero con orario pieno ma per pochi giorni la settimana, potrebbe essere riconosciuto al lavoratore un periodo massimo di assenza ridotto, e ciò al fine di evitare conseguenze eccessivamente pesanti per il datore di lavoro. In questo caso, toccherebbe al giudice determinare, in via equitativa, la durata di tale periodo.

Ovviamente, il problema potrebbe essere superato nel caso in cui la contrattazione collettiva regolasse espressamente la materia, prevedendo un periodo di comporto specifico per i lavoratori part time.