Le riforme del contratto a termine: non solo Legge Fornero (di Stefano Chiusolo)

Le riforme del contratto a termine: non solo Legge Fornero

 

Milano, 31/1/13

 

1. Premessa - 2. L’art. 32 L. 183/10 - 3. La riforma Fornero - L’art. 28 DL 179/12.

 

1. Premessa

Il contratto a termine detiene un primato nell’ordinamento giuslavoristico: quello di essere l’istituto forse più riformato.

Qui ci sono tanti giovani e quindi vale la pena ricordare che un tempo il contratto a termine era un istituto tipizzato dall’ordinamento: la L. 230/62 prevedeva un elenco di causali, la cui ricorrenza legittimava l’apposizione del termine; al di fuori di queste causali, il termine non poteva essere legittimamente apposto al contratto di lavoro.

In un contesto normativo come questo, il procedimento mentale dell’avvocato, e probabilmente anche del giudice, era semplice: la causale addotta nel caso concreta rientra tra quelle tipicamente previste dal legislatore? Se sì, si è verificata nel caso concreto? Se sì, il lavoratore assunto a termine è stato realmente addetto, magari con la tecnica dello scorrimento, all’attività interessata dalla causale?

La svolta avviene nel 2001, quando il D. Lgs. 368/01 stravolge le categorie cui erano state abituate intere generazioni di giudici e avvocati: dal sistema tipizzato si passa al sistema aperto; al lungo elenco di causali della L. 230/62 e successive modifiche, si sono sostituite le poche righe del c. 1 dell’art. 1: il termine può essere apposto a un contratto di lavoro subordinato “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Punto.

La nuova formulazione ha costretto l’interprete, prima abituato a ragionare in maniera piuttosto schematica, a lavorare di fantasia. C’era un primo quesito cui rispondere: la causale doveva essere enunciata già all’atto dell’assunzione? Oppure il datore  di lavoro poteva in sede di assunzione limitarsi ad asserire, genericamente, che sussisteva una ragione, per esempio tecnica, e solo in caso di contestazione e in sede giudiziaria doveva esplicitare la ragione? E quale causale avrebbe giustificato l’apposizione del termine? Una qualunque, purché di natura tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva, o c’era bisogno di qualcos’altro? Per esempio, che la giustificazione richiamasse un’esigenza comunque di carattere temporaneo. Insomma, la mancanza dei casi tipizzati dal legislatore lasciava spazio all’interprete e alla sua fantasia.

Oggi, a distanza di oltre 10 anni, le idee al riguardo sono più chiare perché, nel frattempo, è intervenuta la giurisprudenza, che ormai si è consolidata. Ma al contempo l’istituto del contratto a termine non si è fermato e, al contrario, ha proseguito la sua evoluzione.

 

2. L’art. 32 L. 183/10

Una prima, importante riforma del contratto a termine che qui conviene ricordare è quella contemplata dalla L. 183/10. L’art. 32 della legge ha innanzi tutto modificato l’art. 6 L. 604/66, aggiungendo all’originario termine di decadenza di sessanta giorni un successivo termine di decadenza, entro cui promuovere l’azione giudiziaria. In secondo luogo, ha esteso la norma riformata ad alcuni istituti, tra cui appunto il contratto a termine.

Qui devo aprire una parentesi: forse un po’ troppo sbrigativamente abbiamo tutti concluso che l’art. 6 L. 604/66 si estenda all’apposizione del termine tout – court. Nell’immediatezza della riforma, abbiamo forse concentrato troppo l’attenzione sulla norma transitoria, che effettivamente fa riferimento ai contratti a termine in corso di esecuzione o già conclusi alla data di entrata in vigore della riforma. Forse per un eccesso di prudenza, abbiamo dato per scontato che l’impugnazione dovesse riguardare il contratto a termine in quanto tale, trascurando però che la norma transitoria è funzionale alla norma principale e che la norma principale non parla di contratti a termine tout – court, ma di licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla nullità del termine. Ora, poiché la risoluzione del contratto per mera scadenza del termine non è qualificabile alla stregua di un licenziamento, in casi come questi si dovrebbe escludere la necessità del rispetto del duplice regime di decadenza che, al contrario, si imporrà solo quando vi sia una questione di licenziamento in senso tecnico – giuridico. Ciò può capitare, per esempio, quando il datore di lavoro licenzi in senso stretto il proprio dipendente a termine, prima dello scadere del termine medesimo e per un motivo che nulla ha a che vedere con lo spirare del termine: in un caso come questo, e qualora il lavoratore chiedesse non il risarcimento del danno fino alla naturale scadenza del contratto ma la ricostituzione del rapporto in quanto illegittimamente sorto a termine, si dovrebbe rispettare il duplice termine di decadenza.

In ogni caso, e a prescindere da cosa si pensi su cosa ho appena detto, l’impugnazione è dovuta solo quando si faccia valere un motivo di nullità ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 D. Lgs. 368/01. Ciò significa che ogni ipotesi di irregolarità derivante dall’art. 5 D. Lgs. 368/01 (contratto a termine che prosegue oltre la sua scadenza; reiterazione di contratti a termine in violazione dell’intervallo minimo tra un contratto e l’altro; violazione del termine massimo di 36 mesi) può essere impugnata a prescindere dal rispetto del doppio regime di decadenza.

Fatta un po’ di luce, o un po’ di confusione, sull’oggetto dei termini di decadenza, bisogna ancora precisare la misura di questi termini. L’art. 6 L. 604/66 dispone che il lavoratore deve rendere nota la propria volontà di impugnare il licenziamento entro 60 giorni dalla sua comunicazione, mentre nei 180 giorni successivi deve depositare il ricorso. L’art. 32 L. 183/10 (come riformato sul punto dalla legge Fornero) dispone che, nel caso di contratto a tempo determinato, i due termini di decadenza siano:

  • il primo, quello da esercitarsi con atto scritto anche stragiudiziale, e decorrente dalla cessazione del contratto, di 120 giorni per i contratti a termine cessati a decorrere dall’1/1/13; di 60 giorni per i contratti cessati prima;
  • il secondo, quello da esercitarsi con il deposito del ricorso, di 180 giorni.

L’art. 32 ha introdotto anche un’altra novità, questa volta sul piano sanzionatorio: nel caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità onnicomprensiva in una misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità (ma la stipulazione di accordi sindacale che prevedano l’assunzione di lavoratori già occupati con contratto a termine comporta la riduzione della indennità nella misura della metà). In merito, ormai si è consolidata una giurisprudenza che considera l’indennità sostitutiva di ogni altra forma di risarcimento, ma non della ricostituzione del rapporto. Giova segnalare che la Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto l’indennità nei casi in cui era stato impugnato il contratto a termine in assenza di una disdetta del rapporto e, quindi, in un caso in cui si poneva solo la questione della conversione, ma non anche della ricostituzione del rapporto. Quindi, l’indennità è dovuta per la mera conversione del rapporto e a prescindere dal danno subito a seguito dell’eventuale disdetta del rapporto.

Vale la pena ricordare subito che la riforma Fornero fornisce un’interpretazione autentica in merito all’indennità dovuta ex art. 32 c. 5 L. 183/10. Più precisamente, si dispone che l’importo ha la funzione di ristorare per intero ogni pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia della sentenza con cui il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto. Non mi pare che questa formulazione sia in contrasto con la giurisprudenza che ho appena citato, e che dispone l’indennità a prescindere dalla risoluzione del rapporto: l’interpretazione autentica dice solo che il lavoratore non ha diritto a un ulteriore risarcimento nel caso di disdetta del rapporto, ma ciò non è incompatibile con il fatto che l’indennità sia dovuta per effetto della mera conversione del rapporto. Certo è, invece, che nel caso di disdetta del rapporto, per via di questa interpretazione il lavoratore resta privo di qualsiasi copertura contributiva e, francamente, non se ne vede la ragione.

 

3. La riforma Fornero

La L. 92/12 (meglio nota come riforma Fornero) ha introdotto altre novità. La più importante è, secondo me, anche la più odiosa, e non solo perché intrinsecamente ingiusta, ma anche perché in contrasto con i principi conclamati dallo stesso riformatore.

Più precisamente, la modifica dell’art. 18 S.L. era stata accompagnata dalla promessa di una sorta di scambio: alla riforma dell’art. 18 S.L., con l’introduzione di una maggiore flessibilità in uscita, avrebbe fatto riscontro una minore flessibilità in entrata, nel senso di privilegiare il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato contro altre forme contrattuali, che potevano provocare abusi. Ebbene, la principale riforma in tema di contratto a termine sembra la migliore smentita a questo scambio, perché comporta una deroga all’obbligo di giustificare l’apposizione del termine.

Com’è noto, la regola generale (che, prima della riforma, incontrava eccezioni marginali, come nel caso dei dirigenti o dei contratti di durata massima fino a 12 giorni) è che il datore di lavoro, che intenda assumere a termine un lavoratore, deve indicare il motivo per cui il contratto di lavoro viene stipulato – appunto – a termine e non a tempo indeterminato. Il D. Lgs. 368/01, al riguardo, prescrive che deve trattarsi di una ragione di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo di altri lavoratori. Sul punto, la giurisprudenza è ormai consolidata nel senso di ritenere che la giustificazione non può essere generica ma deve, sia pur succintamente, dar conto della specifica ragione invocata dal datore di lavoro; inoltre, la ragione deve far riferimento a un’esigenza di carattere temporaneo (altrimenti, non si capirebbe perché quel lavoratore è stato assunto a termine).

Il motivo per cui è richiesta la giustificazione è semplice: nel nostro ordinamento giuridico, il contratto di lavoro normale è quello a tempo indeterminato, con la conseguenza che il datore di lavoro, se vuole invece stipulare un contratto a termine, deve indicarne la ragione. Il principio appena indicato – come ha da sempre riconosciuto la giurisprudenza pacifica sul punto – è insito nei principi generali del nostro diritto del lavoro e, più recentemente (a seguito di una riforma del 2007), è diventata un’espressa previsione del D. Lgs. 368/01 (art. 1 c. 01).

La riforma di cui si sta ora parlando ha modificato anche l’art. 1 c. 01, ma non si deve pensare che la deroga al principio generale della necessità di motivare il contratto a termine stia in questa modifica. Infatti, prima di questa riforma, la norma disponeva che il contratto di lavoro subordinato “è stipulato di regola a tempo indeterminato”; a seguito della riforma, invece, si afferma che il contratto di lavoro subordinato “costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Come si vede, si tratta di una modifica che non tocca la sostanza delle cose: non fa differenza a seconda che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sia la regola, ovvero la forma comune; in ogni caso, il datore di lavoro deve spiegare perché esca dalla regola, piuttosto che dalla forma comune.

Tanto più grave, e inspiegabile, è dunque la deroga contemplata dalla riforma. Più precisamente, si dispone che il requisito della giustificazione non sia richiesto nell’ipotesi del primo contratto a tempo determinato, di durata non superiore a 12 mesi. Il fatto di circoscrivere l’eccezione al primo contratto comporta l’illegittimità del contratto a termine non giustificato, se preceduto (per esempio) da un contratto a progetto. Non c’è dubbio che ciò valga nel caso di accertamento giudiziale di illegittimità del contratto a progetto e di natura subordinata del relativo rapporto di lavoro (se non altro perché un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato non può essere convertito in contratto a  termine, e ciò a prescindere dalla causale).

Io ritengo però che il contratto a termine acausale non possa essere validamente stipulato neppure in presenza di un preesistente contratto a progetto genuino. Infatti, la riforma prevede che il contratto  a termine acausale presuppone in particolare la condizione di essere il “primo rapporto a tempo determinato […] concluso tra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore”. Ora, anche il contratto a progetto è “un rapporto a tempo determinato” concluso con “un lavoratore”, con la conseguenza che il rapporto instaurato a seguito dell’assunzione a termine non è più il primo rapporto e, dunque, non è giustificata la acausalità del termine.

Io ho parlato con riferimento al contratto a progetto. Naturalmente, lo stesso discorso vale nei confronti di qualsiasi contratto atipico (per esempio, stage) stipulato prima del contratto a termine privo di giustificazione.  Tanto più vale nel caso di somministrazione: infatti, la norma riformata precisa che la deroga si applica tanto nei confronti del datore di lavoro, quanto nei confronti dell’utilizzatore nell’ambito di un contratto di somministrazione a termine. Ciò evidentemente significa che il datore di lavoro, se aveva già utilizzato un lavoratore nell’ambito di una somministrazione a termine, non potrà successivamente assumere a termine quello stesso lavoratore senza indicare la relativa giustificazione.

In ogni caso, il contratto a termine stipulato senza giustificazione non può essere prorogato.

La riforma prevede che le parti sociali possano in alcuni casi, e a determinate condizioni, addirittura ampliare la portata della deroga appena illustrata. Infatti, i contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale possono escludere l’obbligo di giustificazione, invece che nel caso contemplato dalla norma e già illustrato, nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato (o la missione nell’ambito di un contratto di somministrazione a termine) avvenga nel contesto di un processo organizzativo caratterizzato: dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente. Come si vede, in un simile caso la deroga all’obbligo di motivazione non è più giustificata dalla durata del contratto (non oltre 12 mesi), ma dal fatto che l’assunzione a termine è riconducibile a un “processo organizzativo” del tipo contemplato dalla legge. L’aspetto negativo di questa eccezione è che, per questa via, si può sortire un contratto senza giustificazione per un periodo di tempo addirittura più lungo di 12 mesi, e forse anche per i contratti successivi al primo. D’altra parte, il fatto che il datore di lavoro possa fruire di questa deroga solo a condizione che l’assunzione sia riferibile a uno di quei processi organizzativi, di fatto, riconduce l’assunzione a una causale. In ogni caso, queste assunzioni a termine non possono eccedere il limite del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva.

La modifica sul punto è – come si diceva – particolarmente grave. Il fatto di poter assumere a termine un lavoratore senza alcuna giustificazione di fatto comporterà un prolungamento del periodo di prova (ben oltre il termine massimo previsto dal contratto collettivo). In altre parole, prima di assumere un lavoratore a tempo indeterminato, il datore di lavoro stipulerà con quel lavoratore un contratto a termine di 12 mesi senza alcuna giustificazione, procedendo poi alla conversione a tempo indeterminato del rapporto solo a condizione che quel lavoratore l’abbia soddisfatto.

Un’altra modifica apportata dalla riforma riguarda l’ipotesi del contratto a termine che duri oltre la scadenza originariamente pattuita (ovviamente in assenza di alcuna proroga), nonché l’intervallo minimo che deve intercorrere tra un contratto a termine e l’altro.

Procedendo con ordine, prima della riforma l’art. 5 c. 2 D. Lgs. 368/01 prevedeva la conversione a tempo indeterminato del rapporto solo nel caso in cui il rapporto sorto a termine proseguisse oltre il ventesimo giorno, ovvero oltre il trentesimo giorno dopo la scadenza, a seconda che il rapporto originariamente prevedesse un termine inferiore a 6 mesi, ovvero pari o superiore a 6 mesi. Nel caso di prosecuzione per un periodo inferiore, non opera la conversione del rapporto, ma una semplice maggiorazione della retribuzione. A seguito della riforma, la durata della prosecuzione del rapporto oltre la scadenza originariamente pattuita viene elevata, rispettivamente, a 31 e a 51 giorni. Si tratta, come si vede, di una modifica che penalizza i lavoratori, perché aumenta la durata della utilizzabilità del lavoratore, dopo la scadenza del termine originariamente pattuito, senza che ciò comporti la conversione del rapporto.

La modifica è tanto più grave e inspiegabile se letta congiuntamente alla deroga all’obbligo di giustificazione di cui si è già parlato. In altre parole, come s’è visto il datore di lavoro può per la prima volta assumere a termine un lavoratore, senza giustificazione, per 12 mesi; per effetto di questa ulteriore modifica, si potrebbe sostenere che, di fatto, quel lavoratore possa essere utilizzato a termine, senza giustificazione, anche per un periodo superiore a 12 mesi, ovvero per 12 mesi e 50 giorni, senza che ciò comporti la conversione a tempo indeterminato del rapporto.

Io però penso che non sia così. Qui si possono distinguere due ipotesi, a seconda che – per effetto della prosecuzione fino a 50 giorni – il rapporto sia complessivamente durato più o meno di 12 mesi. Nel primo caso, si può sostenere che, essendo il rapporto durato appunto più di 12 mesi, il datore di lavoro non aveva titolo per assumere a termine senza giustificazione; pertanto, e per ciò solo, il termine è stato illegittimamente apposto. Se invece il rapporto non supera i 12 mesi neppure per effetto della prosecuzione per non oltre 50 giorni dopo la scadenza, si deve comunque ritenere che il rapporto sia stato di fatto prorogato rispetto alla scadenza originariamente prevista, con conseguente illegittimità del contratto a termine acausale perché, come ho già detto, questo tipo di contratto non prevede la possibilità di proroghe.

Quanto all’intervallo minimo che deve intercorrere tra un contratto a termine e quello successivo, prima della riforma l’art. 5 c. 3 D. Lgs. 368/01 disponeva che, nel caso di stipulazione di  un nuovo contratto a termine entro 10 giorni dalla scadenza di un contratto a termine della durata fino a 6 mesi, ovvero entro venti giorni dalla scadenza di un contratto a termine della durata di oltre 6 mesi, il rapporto si converte a tempo indeterminato. A seguito della riforma, l’intervallo minimo è stato aumentato, rispettivamente, a 60 e 90 giorni.

La riforma da ultimo indicata – certamente ispirata dalla volontà di contrastare il fenomeno dei contratti a termine fraudolenti – lascia aperto un problema, sia pur transitoriamente. Infatti, come ho già detto, la legge di riforma prevede anche – da un lato – che il termine di decadenza per impugnare i contratti a termine sia elevato da 60 a 120 giorni dal momento della cessazione del contratto (mentre il termine per la successiva azione giudiziaria è diminuito da 270 a 180 giorni); tuttavia, e dall’altro lato, si prevede anche che questa riforma diventerà operativa solo dall’1/1/2013 (fino a quella data, dunque, continueranno a operare i termini, rispettivamente, di 60 e di 270 giorni).

Tutto ciò comporta che, una volta che la riforma sarà a regime, il lavoratore a termine disporrà di un sufficiente spazio temporale per impugnare il contratto a termine. Al contrario, per i contratti scaduti fino al 31/12/2012 la riforma, nel suo complesso, è destinata a penalizzare i lavoratori. Infatti, è evidente che, prima di impugnare il contratto a termine, il lavoratore aspetterà di verificare la possibilità di una nuova assunzione presso lo stesso datore di lavoro. Tuttavia, e poiché il nuovo contratto non potrà essere stipulato se non dopo che siano trascorsi 90 giorni, mentre (fino al 31/12/12) il termine per impugnare è di 60 giorni, il lavoratore sarà posto di fronte al dilemma se impugnare (con la certezza che il contratto non verrà rinnovato), oppure non impugnare (con il rischio che il contratto non verrà ugualmente rinnovato e, comunque, con la preclusione di qualsiasi azione giudiziaria).

In ogni caso, i contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi possono stabilire la riduzione dei termini di 60 e 90 giorni fino a 20 e, rispettivamente, fino a 30 giorni, nel caso in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato da una delle caratteristiche già indicate in tema di contratto a termine privo di giustificazione.

Altra riforma riguarda il termine di 36 mesi ex art. 5 c. 4 bis D. Lgs. 368/01. Più precisamente, la norma dispone che (fatte salve diverse disposizioni da parte dei contratti collettivi), il rapporto sorto a termine si converte a tempo indeterminato se il rapporto, per effetto della successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti con lo stesso datore di lavoro, è complessivamente durato oltre 36 mesi, compresi proroghe e rinnovi. A seguito della riforma, è stato opportunamente previsto che nel calcolo di 36 mesi si debba tener conto anche dei periodi lavorati, per quel datore di lavoro e sempre per mansioni equivalenti, nell’ambito di un contratto di somministrazione a termine.

Resta infine da segnalare una modifica relativa agli aspetti contributivi. Più precisamente, la riforma dispone, per i rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato, un contributo addizionale a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. La riforma prevede anche alcune eccezioni: l’addizionale non si applica, tra l’altro, alle assunzioni a termine sostitutive o per lo svolgimento di attività stagionali. Il contributo addizionale è destinato a essere restituito, nel limite delle ultime sei mensilità, nel caso di trasformazione a tempo indeterminato del rapporto e, comunque, se il datore di lavoro procede alla assunzione a tempo indeterminato entro il termine dei sei mesi dalla cessazione del contratto a termine. La riforma precisa che la restituzione è dovuta successivamente al decorso del periodo di prova. Poiché ciò contrasta con la giurisprudenza che ritiene illegittima la prova nel caso di un precedente rapporto di lavoro per lo svolgimento di analoghe mansioni, si deve ritenere che la precisazione troverà concreta applicazione nel solo caso (peraltro poco probabile in concreto) in cui la conversione a tempo indeterminato del rapporto avvenga durante il periodo di prova apposto al contratto a termine.

 

L’art. 28 DL 179/12

Sono finite le riforme? Naturalmente no, perché il DL 179/12, convertito  dalla L. 221/12, ha introdotto il concetto di start – up innovativa, prevedendo nei suoi confronti alcune deroghe alla disciplina ordinaria del contratto a termine.

Cosa sia una start – up innovativa è spiegata dall’art. 25 del DL: si tratta di una società di capitali che possegga una serie di requisiti, tra cui quella di non svolgere attività d’impresa da più di 48 mesi. Nei confronti di tali società, l’art. 28 del DL prevede alcune disposizioni, destinate a trovare applicazione per un periodo di 4 anni dalla data di costituzione della start – up innovativa (e quindi per tutto il periodo in cui quella società può essere definita tale).

La start – up innovativa viene presa per mano e accompagnata nel suo cammino con alcune agevolazioni. Quelle di carattere retributivo esulano dall’oggetto di questo intervento; le agevolazioni in tema di contratto a termine, invece, devono essere ricordate.

La prima, e forse più importante di tali agevolazioni comporta una sorta di presunzione circa la sussistenza delle ragioni di cui all’art. 1 c. 1 D. Lgs. 368/01, ad alcune condizioni:

  • che il contratto sia stato stipulato per lo svolgimento di attività inerenti o strumentali all’oggetto sociale della società
  • che il contratto sia stipulato per un periodo minimo di sei mesi o massimo di 36.

Si noterà la differenza rispetto alla riforma Fornero. In quel caso, là dove si vuole introdurre un’ipotesi di contratto acausale, si affermava che il requisito ex art. 1 c. 1 non è richiesto; qui si dice che il requisito si intende sussistente. Si può allora concludere che la riforma del DL 179 introduce non una nuova ipotesi di contratto acausale, ma una presunzione di sussistenza della ragione tecnica, organizzativa e produttiva (escluderei qualsiasi riferimento alla giustificazione sostitutiva), e cioè che la ragione stia nel fatto di essere nella condizione di start – up innovativa. Naturalmente, la presunzione ammetterà la prova contraria e, tuttavia, la prova contraria sarà ardua: se si parte dal presupposto che la condizione di start – up innovativa legittima di per sé la stipulazione di un contratto a termine, diventa complicato ipotizzare una prova contraria che non sia fondata sulla configurabilità della start – up innovativa o sulla inerenza dell’attività all’oggetto sociale, cioè una prova che non sia limitata alla messa in discussione dei requisiti previsti dalla legge.

Altro problema è cosa succede nel caso in cui, in corso d’opera, la start – up innovativa cessi di essere tale. Il citato art. 25 prevede una serie di requisiti che devono permanere nel tempo. Per esempio, non si possono distribuire utili; le spese in ricerca e sviluppo devono raggiungere una certa quota. Una società quindi può qualificarsi come start – up innovativa perché, originariamente, possiede tutti i requisiti e, come tale, stipula contratti a termine che, dunque, si presumono coerenti con le ragioni ex art. 1 D. Lgs. 368/01. Ma cosa succede se, in corso d’opera e per esempio, la società comincia a distribuire utili? O investe in ricerca meno del dovuto? La conseguenza è definita dal c. 9 dell’art. 28. La norma dispone che, nel caso in cui sia stato stipulato un contratto a termine ai sensi dell’art. 28 da una società che non risulti avere i requisiti di start – up innovativa, il contratto si considera stipulato a tempo indeterminato. Ora, la mancanza di requisiti può essere originaria o sopravvenuta e, dunque, anche in quest’ultimo caso il contratto deve essere considerato a tempo indeterminato.

L’art. 28 contempla anche la possibilità di un contratto a termine di durata inferiore a 6 mesi, o superiore a 36. Nel primo caso, il contratto è ammesso,  ma secondo le regole ordinarie del D. Lgs. 368/01. Se invece il rapporto dura oltre 36 mesi, ivi comprese proroghe e rinnovi, il rapporto di lavoro si intende a tempo indeterminato.

Entro il termine di 36 mesi, invece, il contratto può essere reiterato anche in violazione dell’intervallo minimo tra un contratto e l’altro ex art. 5 c. 3 D. Lgs. 368/01 o addirittura, precisa la norma, senza soluzione di continuità, ma sempre per lo svolgimento di attività inerenti o strumentali all’oggetto sociale della start – up innovativa. In deroga alla durata massima di 36 mesi, un ulteriore e successivo contratto a termine può essere validamente stipulato, sempre per lo svolgimento delle attività già menzionate, avanti la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio, e sempre che il rinnovo non ecceda il termine di 4 anni dalla costituzione della start – up innovativa.

Quest’ultima precisazione ha una sua utilità, perché costituisce la conferma di quanto dicevo in precedenza, ovvero che la validità della disciplina ex art. 28 DL 179/12 presuppone non solo la sussistenza di una start – up innovativa, ma anche il mantenimento nel tempo della relativa condizione.

 

Stefano Chiusolo