I licenziamenti discriminatori (di Mario Fezzi)

I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI.

 

Mario Fezzi

 

La nuova legge si occupa dei licenziamenti discriminatori, per i quali è prevista la reintegrazione,  in caso di accoglimento della domanda da parte del Giudice.

Non si tratta di una novità, visto che non solo  l’art. 3 della L.108/1990 disponeva espressamente la reintegrazione per i casi accertati di licenziamento discriminatorio, ma diverse altre leggi  sancivano la nullità degli atti riconosciuti come discriminatori, con ciò implicitamente stabilendo la sanzione della reintegrazione nei casi di licenziamento.

Si può dire, per sommi capi, che si ha una discriminazione, rilevante a questi fini,  ogni volta che un soggetto venga trattato in modo più svantaggiato di altri in determinate situazioni (con un criterio, quindi, di tipo comparativo), oppure ogni volta che un soggetto subisca un provvedimento (negativo) in ragione di certe caratteristiche che la legge intende invece proteggere.

Ecco un elenco, che non potrà mai essere tassativo, di discriminazioni vietate:

- discriminazioni di genere;

- discriminazioni basate sull’età;

- discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale;

- discriminazioni basate sulla disabilità;

- discriminazioni religiose;

- discriminazioni basate sull’origine etnica;

- discriminazioni in base alla razza;

- discriminazioni politiche;

- discriminazioni sindacali;

- molestie o molestie sessuali;

- discriminazioni basate sulle condizioni sociali;

- discriminazioni basate sulle condizioni e caratteristiche personali;

- discriminazioni basate sulla lingua;

- discriminazioni basate sulle caratteristiche fisiche, sui tratti somatici, sull’altezza, sul peso;

- discriminazioni basate sullo stato di salute;

- discriminazioni basate sulle convinzioni personali.

La legge inoltre equipara al licenziamento discriminatorio, quanto ad effetti, quello intimato in concomitanza con il matrimonio, quello disposto in violazione del divieto di licenziamento in materia di tutela della maternità e della paternità, e infine il licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o quello fondato su motivo illecito determinante ai sensi dell’art.1345 c.c.

Infine, anche il licenziamento intimato per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo) può determinare l’ordine di reintegrazione da parte del Giudice, qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti invece determinato da ragioni discriminatorie.

C’è ancora da tenere conto del fatto che se le ragioni economiche poste a fondamento di un licenziamento risultano insussistenti, il licenziamento stesso si configura come licenziamento discriminatorio, in quanto, eliminata la causale economica, resta solo il fatto che l’impresa ha scelto di eliminare quel certo dipendente per sue caratteristiche personali non gradite: tal genere di licenziamento può sicuramente essere definito come discriminatorio.

Per quanto attiene la dimostrazione della discriminazione, il punto 4 dell’art.28 del D.Lgs.150/2011, stabilisce l’inversione dell’onere della prova (mutuato dalla L.125/1991) sancendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.

 

La prima considerazione da svolgere riguarda la non tassatività dell’elenco sopra indicato.

Con l’art.4 della L.604/66 e poi l’art.15 della L.300/70 (Statuto dei Lavoratori), con le integrazioni introdotte dall’art.13 della L.903/77 (Legge di Parità), e l’art.4 della L.125/1991 (Azioni Positive), poteva probabilmente sostenersi che le ragioni discriminatorie che rendevano illecito il licenziamento fossero solo quelle specificamente indicate dalla legge (sindacali, politiche, religiose, razziali, di lingua e di sesso).

Ma l’introduzione nell’ordinamento delle disposizioni di cui ai D.Lgs. 215 e 216 del 2003 hanno allargato il campo delle discriminazioni sino a ricomprendervi handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali,  dilatando gli atti vietati fino a ricomprendere qualunque finalità diversa da quelle positivamente ammesse dall’ordinamento (M.T. Carinci, 2012).

E pertanto qualunque causa giustificativa diversa da quella tecnico-organizzativa ammessa dall’ordinamento, come tale collegata a caratteristiche, opinioni, scelte della persona del lavoratore prive di attinenza con la prestazione lavorativa, è per ciò stesso discriminatoria e illecita e può perfino prevalere su un’eventuale causa tecnico-organizzativa concorrente (M.T. Carinci, ib.).

Bisogna poi osservare che le direttive europee hanno modificato profondamente negli anni la nozione di discriminazione, superando il giudizio di tipo comparativo e introducendo quello di natura assoluta. La nozione di discriminazione accolta dalle direttive europee tende a superare la struttura tradizionale della tutela antidiscriminatoria che presuppone una comparazione con altri soggetti; non è più necessario ormai prendere in considerazione il gruppo, cioè il numero di persone colpite da un certo atto, ma è sufficiente guardare solo alla situazione dei singoli individui (Barbera, 2007).

In questa logica, per fare un esempio, un lavoratore sessantenne licenziato per motivi economici potrebbe sostenere, a prescindere da qualsiasi comparazione con altri lavoratori licenziati o altri lavoratori mantenuti in organico, che la ragione sottesa alla sua eliminazione è quella anagrafica.

Il confronto con il gruppo di riferimento potrebbe essergli utile per giovarsi dell’inversione dell’onere della prova di cui all’art.28 D.Lgs.150/2011, ma l’azione sarebbe esperibile anche a prescindere dal riferimento al gruppo, dimostrando la propria utilità tecnico-organizzativa e quindi l’incomprensibilità della sua estromissione, se non per un atto discriminatorio in ragione della sua età anagrafica.

L’esempio è probabilmente estensibile a tutte le discriminazioni indicate nella scheda precedente: a prescindere dalla comparazione con la platea di riferimento (che, appunto, consentirebbe l’inversione dell’onere della prova), ogni licenziamento attuato in danno di un soggetto che faccia parte di una delle categorie di cui alla scheda, che possa dimostrare la propria utilità tecnico-organizzativa, deve essere annullato in quanto discriminatorio, con la conseguenza della reintegrazione nel posto di lavoro.

 

Ma la vera novità di questa riforma è il fatto di costringere gli operatori del diritto a ragionare in termini radicalmente nuovi e diversi dal passato. E’ infatti indispensabile dare inizio a un’operazione culturale e giuridica che costringa tutti gli operatori del diritto a utilizzare fino in fondo tutte le possibilità offerte dalle norme antidiscriminatorie. Il concetto di discriminazione è, diciamolo francamente, un concetto che ci è praticamente ignoto: solo una vicenda grossolana e esageratamente sproporzionata può essere colta da chi ha sino ad oggi ignorato il problema. Se escludiamo le donne che ancora una volta sono avanti anni luce rispetto ai maschi e che hanno sollevato e sollevano le questioni di genere sin dal 1977 (L.903), gli avvocati maschi (e anche diverse avvocate) non hanno la percezione dell’esistenza del problema. Quante volte è capitato che avvocati pur aperti e sensibili abbiano affrontato un licenziamento provando a immaginare se vi sia stata una discriminazione ?  Quante volte hanno verificato se i loro assistiti facessero parte o meno di una categoria  che potrebbe  essere discriminata ?  Quante volte hanno provato a immaginare che l’inesistenza di una causale a sostegno  di un licenziamento poteva   nascondere una discriminazione ?  Quante volte hanno seriamente intervistato i propri assistiti onde verificare l’esistenza di caratteristiche o convinzioni personali che potessero avere scatenato una reazione illecita discriminatoria ?

La riforma Fornero, con la sanzione  reintegratoria collegata al licenziamento discriminatorio, costringe tutti gli operatori a ripensare al proprio modo di lavorare e di istruire le cause: sostenendo la discriminazione ci si incanala in un sistema che ha come sbocco la reintegrazione nel posto di lavoro e non solo una indennità risarcitoria.

 

Sul piano concreto, la prima cosa da fare, per un vertenziere come per un avvocato, quando si ha a che fare con un licenziamento, è quella di interrogare a fondo il lavoratore per individuare eventuali specificità che consentano di farlo rientrare in una delle ipotesi di discriminazione vietate o in una diversa e autonoma ipotesi discriminatoria.

Solo attraverso una seria e approfondita analisi delle caratteristiche personali del lavoratore si può dare una valutazione delle possibilità di introdurre l’impugnazione del licenziamento sotto il profilo della nullità per ragioni discriminatorie.

Nel caso di licenziamento discriminatorio in termini relativi (cioè in raffronto con un gruppo), è indispensabile raccogliere dati analitici sulle persone in posizione analoghe (sia i licenziati, sia i rimasti in organico) onde poter fornire elementi di fatto, anche di natura statistica, dai quali possa desumersi la discriminazione, per potersi giovare dell’inversione dell’onere della prova (art.28 D.Lgs.150/2011).

Nel licenziamento in cui si affronti il tema della discriminazione in termini assoluti, bisogna raccogliere tutti i fatti e le circostanze specifiche relative alla persona del lavoratore, da cui possa farsi derivare l’ipotesi discriminatoria.

In ogni caso è bene ricordare che le conclusioni in tutti i ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che, quanto a motivazione,  saranno la stragrande maggioranza, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica.