La riforma Fornero (di Mario Fezzi)

LA RIFORMA FORNERO

 

Mario Fezzi

 

Si può solo essere insoddisfatti per la normativa introdotta con la legge 92/2012.

La legge è brutta nei contenuti e nella forma (l’accorpamento in 4 articoli dei precedenti 72 ha poi anche aumentato la confusione), ma soprattutto non corrisponde alle tanto decantate novità che dovevano trasformare il nostro mercato del lavoro.

Il Governo Monti ad esempio ci ha ripetuto per mesi (in TV, attraverso i giornali, sfruttando tutti i media a disposizione) che la manovra Fornero sul lavoro tendeva a ridurre drasticamente le tipologie contrattuali (figlie, in prevalenza, della legge Biagi), a rendere più complesso e costoso il ricorso ai contratti che una volta si chiamavano atipici e comunque a quelli temporanei, e infine, in cambio di questa ritrovata rigidità in favore del contratto a tempo indeterminato, a introdurre qualche elemento di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro.

Orbene, con la L.92/2012 la tanto decantata rigidità in entrata viene intesa come possibilità di stipulare il primo contratto a termine senza la necessità di specificare la causale (di cui all’art.1 D.Lgs.368/2001), nel caso il contratto sia di durata non superiore a 12 mesi.

Altrettanto curiosa è poi l’affermazione, anche questa svolta in molte occasioni, di avere ridotto drasticamente le tipologie contrattuali, quando l’unico contratto eliminato (ma non proprio del tutto) è invece solo l’associazione in partecipazione. Tutte le altre tipologie contrattuali sono rimaste, seppur con qualche non troppo significativa modifica.

Infine, dopo la premessa che la flessibilità in uscita sarebbe stata compensata da un moderno sistema di welfare, che si sarebbe occupato dei problemi determinati dalla perdita del posto di lavoro, era lecito attendersi la costruzione di un vero sistema di welfare di marca scandinava (in quei Paesi, in cui la tutela contro i licenziamenti illegittimi è attenuata, vige un sistema di protezione sociale che protegge in maniera efficace la persona a 360 gradi, quindi non solo nel caso di perdita dell’occupazione, e nell’aiuto alla ricerca di nuova occupazione, ma anche e per esempio nell’istruzione, nella riqualificazione, nella cura della prole, nell’assistenza agli anziani. In un sistema del genere la perdita del posto di lavoro è ammortizzata da questa vasta rete di protezione, da noi totalmente inesistente).

Il nostro welfare straccione si è invece limitato a introdurre una sorta di sussidio di disoccupazione (ASPI), di durata limitata e di contenuto modesto.

 

Per quanto riguarda i licenziamenti la legge introduce un sistema complicato e confuso, per abbattere il celebre tabù rappresentato dall’art.18 S.L. I licenziamenti vengono suddivisi in molteplici ipotesi a ognuna delle quali corrisponde, in caso di annullamento da parte della magistratura, una sanzione differente.

Volendo semplificare si potrebbe dire che la nuova legge introduce un sistema tripartito (con ulteriori ripartizioni al suo interno): i licenziamenti discriminatori e quindi nulli; i licenziamenti per colpe del lavoratore, con applicazione, secondo i casi, nell’ipotesi di annullamento del licenziamento, della reintegrazione ovvero dell’ indennità risarcitoria; i licenziamenti economici, con solo indennizzo (salvo che risultino manifestamente infondati).

Viene invece modificato, sempre nel caso di reintegrazione, il risarcimento del danno da corrispondere al lavoratore: in primo luogo, l’entità del risarcimento viene limitata entro il massimo di 12 mensilità; in secondo luogo, dall’importo deve essere detratto non solo quanto effettivamente percepito dal lavoratore, com’è già oggi, ma anche quanto egli avrebbe potuto percepire, se si fosse impegnato assiduamente nella ricerca di un nuovo lavoro.

Su questi punti c’è subito da osservare che limitare a 12 mesi il risarcimento del danno vuol dire scaricare sul lavoratore il rischio della durata del processo; così come dedurre dal risarcimento anche ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire, costringe il lavoratore stesso a oneri probatori impropri. Il lavoratore dovrà cioè dimostrare, per avere almeno i 12 mesi di risarcimento del danno, di aver fatto tutto il possibile per reperire una nuova occupazione e, ciò nonostante, di non averla trovata.

E’ vero che la legge introduce anche una corsia processuale privilegiata per i licenziamenti, prevedendo che l’impugnazione del licenziamento venga attivata con una specie di procedura d’urgenza (senza necessità però di dover dimostrare il periculum in mora), cui deve far seguito un giudizio celere e spedito. E’ però altrettanto vero che nell’attuale situazione cronica di carenza di organici e di strutture non è dato intravedere come i Tribunali aditi potranno far fronte ai termini strettissimi di questo nuovo sistema.

 

Questo sistema poi è incredibilmente incostituzionale. E’ infatti impensabile che possa reggere all’esame della Corte Costituzionale una norma che prevede per casi identici, soluzioni tanto diversificate. Non solo, ma addirittura l’incolpato di una grave mancanza, che poi risulti meno grave e quindi determini l’annullamento del licenziamento, avrebbe diritto alla reintegrazione, mentre un licenziato per causa economica (che quindi nessuna mancanza, nemmeno lieve, ha commesso) si vedrebbe negata la reintegrazione e potrebbe ottenere solo l’indennità risarcitoria. E ancora: il licenziato senza motivazione o quello licenziato senza contestazione non avrebbero diritto alla reintegrazione, ma solo a un’indennità risarcitoria da un minimo di 6 a un massimo di 12 mensilità (quindi molto meno anche dell’indennizzo per altri licenziamenti, che va invece da 12 a 24 mesi).

Ma la vera novità di questa riforma è il fatto di costringere gli operatori del diritto a ragionare in termini radicalmente nuovi e diversi dal passato. E’ infatti indispensabile dare inizio a un’operazione culturale e giuridica che costringa tutti gli operatori del diritto a utilizzare fino in fondo tutte le possibilità offerte dalle norme antidiscriminatorie. Il concetto di discriminazione è, diciamolo francamente, un concetto che ci è praticamente ignoto: solo una vicenda grossolana e esageratamente sproporzionata può essere colta da chi ha sino ad oggi ignorato il problema. Se escludiamo le donne che hanno sollevato e sollevano le questioni di genere sin dal 1977 (L.903), gli avvocati maschi (e anche diverse avvocate) non hanno la percezione dell’esistenza del problema. Quante volte è capitato che avvocati pur aperti e sensibili abbiano affrontato un licenziamento provando a immaginare se vi sia stata una discriminazione ?  Quante volte hanno verificato se i loro assistiti facessero parte o   meno di una categoria  che potrebbe     essere discriminata ?  Quante volte hanno provato a immaginare che l’inesistenza di una causale a sostegno  di un licenziamento poteva   nascondere una discriminazione ?  La riforma Fornero, con la sanzione  reintegratoria collegata al licenziamento discriminatorio, costringe tutti gli operatori a ripensare al proprio modo di lavorare e di istruire le cause: sostenendo la discriminazione ci si incanala in un sistema che ha come sbocco la reintegrazione nel posto di lavoro e non solo una indennità risarcitoria.

E del resto, se un lavoratore licenziato per motivi economici vede annullare il proprio licenziamento per insussistenza della causale indicata, avrà davvero solo diritto all’indennità risarcitoria ? Non potrà invece sostenere (già fin dal ricorso) che la causale era falsa e il vero obiettivo era liberarsi di lui,  in quanto  persona sgradita al  datore di lavoro ?   E come potrebbe essere definito un comportamento del genere, se non come  discriminatorio ?

E allo stesso modo quel licenziamento economico illegittimo perché non dovrebbe essere considerato nullo (e quindi destinato alla reintegrazione) ai sensi dell’art.1345 c.c. ?  Se il motivo economico non c’era, è ovvio che l’unico motivo determinante –illegittimo- era quello di liberarsi surrettiziamente d una persona sgradita. Ed ecco allora che il motivo unico determinante (e illecito) porta all’integrale applicazione dell’art.18 S.L.

Ma ancora sempre quel licenziamento economico illegittimo potrebbe anche essere valutato come una sanzione disciplinare occulta o simulata, e potrebbe così essere disposta dal Giudice la reintegrazione.

Pare insomma evidente che dal 18 luglio 2012  le conclusioni in tutti i ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che saranno la stragrande maggioranza se non addirittura l’esclusività, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica.

Una considerazione finale. Si è tanto parlato in questi mesi della deterrenza che l’art.18 esercita a protezione dei diritti dei lavoratori nell’ambito giornaliero del rapporto. E questa deterrenza resterà se il Giudice potrà, in molti casi, applicare la reintegrazione, in luogo dell’indennità. Ma se in qualche distretto giudiziario i giudici del lavoro non applicassero mai l’ordine di reintegrazione, limitandosi in ogni occasione a disporre il pagamento dell’indennità risarcitoria,  la deterrenza scomparirebbe e le impugnative dei licenziamenti diventerebbero solo un mercato nel quale stabilire il prezzo di una persona.