Il nuovo mercato del lavoro secondo Monti: una riforma inutile e dannosa (di Stefano Chiusolo)

Il nuovo mercato del lavoro secondo Monti: una riforma inutile e dannosa[1]

di Stefano Chiusolo

 

Sarà arduo il compito di chi un giorno volesse raccontare la storia della riforma del mercato del lavoro del Governo Monti. Dopo mesi di trattative con le parti sociali, caratterizzate dalla totale assenza di qualsiasi proposta scritta, il Governo ha annunciato – nella forma di una conferenza stampa – che l’accordo era stato trovato con tutti, tranne che con la Cgil (sebbene, successivamente, sia il segretario generale della UIL, Angeletti, a invocare un licenziamento per giusta causa nei confronti del ministro del lavoro).

In quei giorni, anche da fonti governative, sono state dette numerose imprecisioni, che avevano l’evidente scopo di mitigare l’impatto derivante dalla riforma dell’art. 18 S.L., ascrivendo al Governo meriti che, invece, non gli competevano:

  • · era stato detto che la reintegrazione nel caso di licenziamenti discriminatori sarebbe stata estesa anche alle piccole aziende. Ma questa regola è già attualmente vigente (art. 3 L. 108/90);
  • · era stato detto che, per combattere il precariato, sarebbe stato stabilito che il rapporto di lavoro normale è quello subordinato a tempo indeterminato. Ma già attualmente la normativa in tema di lavoro a termine dispone che “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” (art. 1 c. 01 D. Lgs. 368/01);
  • · era stato infine detto che, per contrastare l’abuso dei contratti a termine, si sarebbe prevista la loro automatica trasformazione in contratti a tempo indeterminato dopo 36 mesi: ma anche questa trasformazione è già prevista dalla legge (art. 5 c. 4 bis D. Lgs. 368/01).

A titolo di cronaca, voglio sottolineare anche che gli ultimi due aspetti di cui ho parlato (normalità del contratto a tempo indeterminato e conversione del contratto a termine dopo 36 mesi) sono il frutto di due riforme, rispettivamente del 2007 e del 2008, quando la maggioranza parlamentare era diversa da quella attuale. Questo, tanto per ricordare chi fa buone leggi e chi fa cattive leggi.

Solo il 23/3/12 il Consiglio dei Ministri ha deliberato (e poi diffuso) un testo in cui la riforma veniva spiegata nel dettaglio. La sensazione suscitata dalla lettura di quel testo fu che la dichiarata riforma complessiva del mercato del lavoro, con maggiore flessibilità in uscita controbilanciata da una maggiore rigidità in entrata, servisse solo a nascondere la parte vera e importante della riforma: l’abrogazione secca della reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati, senza alcuna contropartita significativa. Infatti, dal lato dell’accesso al lavoro veniva – per esempio – introdotta una devastante novità, consistente nella facoltà per i datori di lavoro di stipulare il primo contratto a termine in assenza di qualsiasi causale ex art. 1 D. Lgs. 368/01, e ciò senza alcuna limitazione che non fosse il termine dei 36 mesi ex art. 5 c. 4 bis D. Lgs. 368/01. Così prospettata, la riforma pareva privare di qualsiasi regolamentazione l’istituto del contratto a termine: un bel risultato per un Governo che aveva dichiarato di voler combattere la precarietà e la flessibilità cattiva.

Dal lato dell’uscita, veniva in particolare abrogata la reintegrazione nei casi di licenziamento di tipo economico, limitando la sanzione a un indennizzo. La modifica non era neppure mitigata dal fatto che, negli altri casi di licenziamento, la reintegrazione fosse ancora prevista, sebbene con sfumature diverse a seconda della tipologia di licenziamento: era a tutti evidente che il datore di lavoro mai sarebbe ricorso a licenziamenti formalmente diversi da quello economico.

Insomma, una riforma con aspetti preoccupanti, a fronte dei quali tutto il resto impallidiva, ivi compresa la reintroduzione delle norme per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco: francamente, non se ne capiva l’utilità, dal momento che, in ogni caso, il datore di lavoro poteva liberamente licenziare.

Nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2012, è comparso on line il disegno di legge predisposto dal Governo: ed è subito stato un certo sollievo, forse più a causa del confronto con il progetto del 23 marzo che per i meriti intrinseci del disegno di legge. Sta di fatto che gli aspetti più negativi della riforma, come originariamente prospettata, erano caduti: la acausalità del primo contratto a termine veniva circoscritta in un ristretto ambito temporale, mentre la reintegrazione veniva reintrodotta per i licenziamenti di tipo economico nel caso di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del recesso. Una formulazione ambigua, sufficiente però a concludere, almeno in sede di prima approssimazione, che il pericolo dell’abrogazione della reintegrazione fosse superato.

E tuttavia, depurata dal confronto con l’originario progetto del 23 marzo, quella prospettata dal disegno di legge è una riforma brutta e inutile, in quanto resta comunque che la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziamento non è più automatica, senza che ciò neppure sia compensato da una maggiore rigidità in entrata. Insomma, la riforma è tutt’altro che complessiva e ciò che viene modificato, in fondo, è solamente l’art. 18. La lotta alla precarietà e l’estensione delle garanzie per i casi di disoccupazione sono soltanto fumo per tentare di nascondere questa realtà. Infatti, in cosa consistono le novità introdotte, e in particolare quelle per contrastare la precarietà?

Il disegno di legge contiene effettivamente alcune novità per contrastare abusi nell’utilizzo di contratti di lavoro flessibili. In particolare, le misure più severe riguardano l’associazione in partecipazione e i rapporti stipulati con titolari di partita IVA. Il primo istituto non viene più radicalmente abrogato, come era stato preannunciato nel progetto di riforma del 23 marzo, ma solamente limitato, nel senso che non possono essere più di 3 gli associati il cui conferimento consista anche in una prestazione di lavoro (tranne il caso di rapporto coniugale, o parentale entro il terzo grado o di affinità entro il secondo). Anche il secondo istituto viene limitato: si presume (ma il committente può provare il contrario) che si tratti di una collaborazione coordinata e continuativa, come tale illegittima (e automaticamente trasformata in rapporto di lavoro subordinato) se priva di uno specifico progetto, se la prestazione da parte del titolare di partita IVA presenti almeno due delle tre seguenti caratteristiche: collaborazione di durata complessivamente superiore a 6 mesi[2] nell’arco dell’anno solare; percezione di un compenso (anche se fatturato a più soggetti, purché riconducibili al medesimo centro di imputazione di interessi) superiore al 75%[3] dei corrispettivi complessivamente percepiti; fruizione di una postazione di lavoro presso il committente.

Come si vede, le riforme in questione sono davvero significative, ma di scarsa rilevanza pratica:

  • · quanto alla associazione in partecipazione, in tutta la mia carriera di avvocato avrò promosso sì e no un paio di cause sull’argomento;
  • · analogamente per l’altro istituto: soprattutto a seguito della introduzione del co.co.pro., i casi di collaborazione a partita IVA con caratteristiche simili a quelle vietate nel progetto di riforma sono molto rare. In compenso, gli stessi indici che inducono il Governo a ritenere illegittimi questi contratti (sostanziale monocommittenza e inserimento del collaboratore nella struttura aziendale del committente) caratterizzano la quasi totalità dei contratti a progetto. Ci si aspetterebbe quindi un intervento simile anche con riferimento alle collaborazioni a progetto ma, come si vedrà tra breve, questo aspetto sostanziale non è stato sorprendentemente preso in considerazione.

In buona sostanza, rispetto ai lavori atipici gli interventi positivi ci sono, ma riguardano aspetti marginali. Con riferimento alle ipotesi statisticamente più significative, invece, le modifiche sono di poco conto e, in un caso, e come ho già detto, affatto negative.

Partiamo dal contratto a termine. La riforma prevede l’inasprimento dell’aliquota contributiva e, con riguardo alla conversione dopo 36 mesi, chiarisce che nel termine vanno computati anche i periodi eventualmente lavorati con lo stesso datore di lavoro (in qualità di utilizzatore) nell’ambito di un contratto di somministrazione. Altre novità riguarda l’aumento dell’intervallo necessario tra un contratto e l’altro, aumentato da 10 a 60 giorni e da 20 a 90 giorni, a seconda che il contratto a termine abbia avuto una durata inferiore o superiore a 6 mesi. Questa positiva novità è peraltro compensata dall’aumento del periodo durante il quale il contratto a termine può proseguire dopo la scadenza, senza particolari conseguenze per il datore di lavoro: da 20 giorni a 30 e da 30 a 50, a seconda che il contratto a termine sia durato meno o più di 6 mesi.

La novità vera, benché meno devastante di quanto si fosse originariamente temuto, è questa: il primo contratto a termine (intendendosi per tale quello stipulato dallo stesso lavoratore e dallo stesso datore di lavoro per qualunque tipo di mansione, come pure nel caso di prima missione presso un utilizzatore nell’ambito di una somministrazione a termine) non deve più essere motivato ai sensi dell’art. 1 D. Lgs. 368/01. Come si anticipava, l’impatto devastante di questa riforma è sensibilmente ridotto dal fatto che ciò è consentito solo a condizione che il contratto abbia una durata non superiore a 6 mesi[4], non prorogabili. Anche così, però, resta il sospetto che la riforma serva unicamente a legittimare di fatto patti di prova anche di durata superiore a quella indicata dalla contrattazione collettiva. Il sospetto è confermato dalla circostanza che la maggiorazione della contribuzione viene restituita in caso di trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, peraltro limitatamente alle ultime sei mensilità. Sebbene la riforma, a tale ultimo riguardo, precisi che la restituzione è subordinata anche al decorso del periodo di prova, bisogna escludere la validità del patto che abbia a oggetto la medesima mansione per la quale lo stesso lavoratore era stato assunto a termine (sul punto, la giurisprudenza è pacifica).

L’altra forma di lavoro flessibile spesso utilizzata a fini impropri è il lavoro a progetto, e anche questo è oggetto di modifica. Naturalmente, non quella davvero necessaria, che – come anticipavo – finalmente avrebbe dovuto prendere atto che un lavoratore con un solo committente, che lavori tutti i giorni presso l’altrui azienda non è un collaboratore ma un lavoratore subordinato. L’intervento si incentra piuttosto sul progetto, quasi che questo aspetto formale possa davvero rendere autonomo un lavoro che, invece, presenta tutti gli indici della subordinazione. Più precisamente, il disegno di legge sopprime ogni riferimento agli oscuri “programmi di lavoro o fasi di esso” contemplati dall’attuale testo dell’art. 61 D. Lgs. 276/03 e ridefinisce il progetto, stabilendo che esso “deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale”, precisando che “non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente”. Il divieto è giusto e doveroso; tuttavia, non si è tenuto conto del caso, altrettanto grave e frequente nella pratica quotidiana, del progetto che sia la mera descrizione della mansione assegnata al collaboratore: sul punto il disegno di legge non prende posizione e la speranza è che si consolidi la giurisprudenza che equipara questo al caso della radicale assenza del progetto.

Altri punti toccati dalla riforma in tema di contratto a progetto sono:

  • · la limitazione dell’istituto a mansioni non meramente esecutive o ripetitive, che possono essere individuate dai contratti collettivi (e che, dunque, possono essere riconosciute come tali anche dal giudice, a prescindere dalla previsione contrattuale);
  • · la presunzione della natura subordinata del rapporto quando l’attività del collaboratore sia analoga a quella svolta da altri lavoratori dipendenti (salve le prestazioni di elevata professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi). Resta da capire il senso di questa riforma, giacché è previsto che la nuova regola vada aggiunta all’attuale formulazione dell’art. 69 c. 2 D. Lgs. 276/03 e, dunque, alla trasformazione del rapporto nel caso di accertamento della configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato. Probabilmente la nuova regola potrà valere quando i requisiti della subordinazione non emergano in maniera decisiva, e tuttavia le modalità di svolgimento del rapporto del collaboratore a progetto siano – appunto – analoghe a quelle che caratterizzano il rapporto di lavoro dei colleghi pacificamente subordinati. Anche in questo caso, dunque, non contemplato dalla normativa attualmente vigente, la conversione è destinata ad operare;
  • · l’eliminazione della possibilità di inserire, nel contratto, clausole che consentano al committente di recedere prima della scadenza del termine o della fine del progetto (salve le ipotesi di giusta causa e di inidoneità professionale del collaboratore);
  • · l’esplicita affermazione che, in caso di mancanza di un progetto, il contratto si considera subordinato.

Si tratta peraltro di modifiche poco incisive (per esempio, già attualmente il contratto a progetto non trova significative applicazioni con riferimento alle mansioni meno qualificate). In un caso, la modifica dimostra addirittura un certo pressapochismo da parte di chi l’ha elaborata. Più precisamente, già il progetto di riforma contemplava l’esplicita affermazione che, in mancanza di progetto, il contratto si considera subordinato, precisando che, così facendo, veniva accolto il prevalente indirizzo giurisprudenziale. Il punto però è che il dibattito giurisprudenziale non si è formato sulla conversione in sé, già esplicitamente indicata dalla legge. Piuttosto, il dibattito si è svolto tra chi ritiene che la conversione operi automaticamente e inevitabilmente, e chi invece ammette il datore di lavoro alla prova contraria. Quindi, così come formulata, la riforma sul punto dice solo un’ovvietà.

Non mi soffermo sugli altri contratti atipici contemplati dal disegno di legge, sia per la loro scarsa rilevanza pratica, sia per la modesta entità della riforma sul punto. Voglio invece sottolineare una grave lacuna nel progetto di riforma, ovvero la sostanziale assenza di interventi sul contratto di somministrazione, quasi che questo contratto atipico (pure così diffuso in concreto) non sia o non possa essere fonte di abusi.

Piuttosto, il contratto di somministrazione viene separatamente riformato tramite il D. Lgs. 24/12 che, in assenza di qualsiasi confronto con le OO. SS., introduce alcune novità, ancora una volta negative. In particolare, se non bastasse l’ampliamento delle possibilità di ricorrere al contratto a termine disposto dal disegno di legge, la nuova disciplina della somministrazione esclude, per alcune categorie di lavoratori, l’obbligo di giustificare (con ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo) la somministrazione a termine. Le categorie di lavoratori interessati sono i percettori, da almeno sei mesi, dell’indennità ordinaria di disoccupazione, ovvero di ammortizzatori sociali, nonché i lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati”. Costoro, dunque, ancor prima che il progetto di riforma veda la luce, potranno essere assunti a termine, nell’ambito di un rapporto di lavoro somministrato, senza alcuna giustificazione e, anche dopo e se quel progetto di riforma vedrà la luce, potranno essere assunti a termine senza giustificazione per non più di sei mesi. Se ciò non bastasse, per queste stesse categorie di lavoratori non valgono i limiti quantitativi di personale somministrato a tempo determinato previsti dai contratti nazionali di categoria. Mettendo insieme queste due novità, si capisce che la liberalizzazione della somministrazione diventa davvero selvaggia.

Concludo la panoramica dei contratti atipici parlando dell’apprendistato che, nelle originarie dichiarazioni del ministro Fornero (ribadite poi nel progetto di riforma del 23 marzo) dovrebbe rappresentare “il canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro”. Data questa premessa, ci si aspetterebbe una rivoluzione copernicana dell’istituto. Al contrario, il progetto del 23 marzo diceva subito che “la riforma rispetta sostanzialmente l’impianto del D. Lgs. 167/11”, proponendo solo nuovi interventi “volti a enfatizzare i contenuti formativi dell’istituto”. Quanto al disegno di legge, le novità più significative sono le seguenti:

  • · previsione di una durata minima del contratto, non inferiore a sei mesi;
  • · rapporto di 3 a 2 tra numero di apprendisti e numero di maestranze specializzate e qualificate in servizio presso lo stesso datore di lavoro (eccezion fatta per le imprese artigiane);
  • · possibilità di assumere nuovi apprendisti subordinata alla prosecuzione del rapporto, alla scadenza dell’apprendistato e nei 36 mesi precedenti, almeno nei confronti del 50% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro.

In buona sostanza, l’aumento del numero di apprendisti che il datore di lavoro può assumere rispetto all’attuale formulazione dell’art. 2 c. 3 D. Lgs. 167/11 (che individua un rapporto di uno a uno tra apprendisti e maestranze specializzate e qualificate) è compensata dalla necessità di confermare almeno la metà degli apprendisti. Questa è la riforma e, francamente, mi sembra che il “canale privilegiato” avrebbe meritato tutt’altra attenzione.

Riassumendo, gli interventi sui contratti atipici:

  • · nascono viziati, in quanto il Governo si era appropriato di regole introdotte da altri prima di lui;
  • · se sono incisivi, riguardano contratti atipici marginali;
  • · se il contratto atipico non è marginale, gli interventi non sono incisivi;
  • · se il contratto non è marginale e l’intervento è decisivo, allora l’intervento è peggiorativo (come nel caso dei contratti a termine e – per effetto del D. Lgs. 24/12 – della somministrazione a termine, oramai liberalizzati).

Cosa resta allora di questa riforma? Gli interventi sull’art. 18, che sono davvero significativi, tali da stravolgere l’attuale assetto normativo.

Vorrei evitare di dire cose scontate; però molto brevemente voglio ricordare che:

  • · l’art. 18 non è un freno agli investimenti in Italia da parte degli stranieri. Questo per il semplice motivo che l’art. 18 non vieta il licenziamento; solamente, dispone che nel caso di un licenziamento privo di una valida motivazione, il lavoratore deve essere reintegrato. Quindi, il lavoratore fannullone può essere tranquillamente licenziato già oggi, come pure può essere già oggi licenziato il lavoratore che occupi una posizione lavorativa che, a causa di una crisi, sia stata soppressa. Se mai, gli investitori stranieri possono essere scoraggiati per la durata dei processi in Italia. Se oggi deposito un appello, a Milano, l’udienza è fissata a fine 2014: si badi che questo è un problema, oltre che per il lavoratore, anche per il datore di lavoro, sia nel caso in cui abbia ingiustamente perso in primo grado, ma anche nel caso in cui in primo grado abbia ingiustamente vinto (in quest’ultimo caso, il datore di lavoro è destinato a versare risarcimenti enormi);
  • · l’art. 18 S.L. è invece l’architrave di tutto il sistema. Questo noi avvocati lo vediamo nella pratica quotidiana del nostro lavoro: noi facciamo cause per tutelare i diritti dei lavoratori solamente se il lavoratore è garantito dall’art. 18. In caso contrario, il lavoratore non fa causa, neanche – per esempio – se viene pagato poco e male, perché ha sempre il timore di subire un licenziamento ritorsivo che, per quanto illegittimo, non gli consentirà mai di recuperare il posto di lavoro. Togliere l’art. 18 vuol dunque dire sopprimere, di fatto, ogni altro diritto dei lavoratori;
  • · è vero che la reintegrazione ex art. 18 viene raramente applicata dal giudice, mentre invece normalmente le cause sono decise con un indennizzo. E’ però anche vero che oggi è il lavoratore che liberamente sceglie se accettare l’indennizzo proposto o rischiare la causa e ottenere la reintegrazione;
  • · non so se l’art. 18 sia un privilegio. Personalmente, ritengo che sia una norma di civiltà; ma se anche fosse un privilegio, allora il problema si risolverebbe estendendolo a chi ne è privo;
  • · se anche davvero fossimo l’unico Paese civile a disporre la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, non sarebbe questo un buon motivo per dire che la norma è in sé sbagliata. Per di più, in molti Paesi dove la tutela contro i licenziamenti illegittimi è attenuata vige un sistema di protezione sociale davvero efficiente, che protegge in maniera efficace la persona a 360 gradi, quindi non solo nel caso di perdita dell’occupazione, ma anche e per esempio nell’istruzione, nella cura della prole, nell’assistenza agli anziani. In un sistema come questo la perdita del posto di lavoro è ammortizzata da questa vasta rete di protezione sociale, che però nel nostro Paese non esiste. Anche la nuova Assicurazione sociale per l’impiego, ipotizzata dal progetto di riforma come alternativa all’attuale sistema di protezione contro la disoccupazione involontaria (sulla quale non mi dilungo per ragioni di tempo), se da un lato amplia – di poco – la platea dei lavoratori interessati, dall’altro non garantisce più di quanto oggi facciano l’indennità di disoccupazione e l’indennità di mobilità, soprattutto se non vi si accompagni un serio sistema di agevolazione al reperimento di una nuova occupazione.

Ho fatto questa premessa per significare che, davvero, non si sentiva alcuna necessità di modificare l’art. 18. Invece, la modifica proposta è radicale. Il disegno di legge non modifica il campo di applicazione della norma (quindi, per le piccole aziende continua a valere l’indennizzo già oggi previsto tra 2,5 e 6 mensilità), e neppure modifica, nell’ipotesi di reintegrazione, la facoltà del lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità.

Invece, il quadro sanzionatorio è completamente ridisegnato: il progetto di riforma individua infatti le seguenti sanzioni da applicare, a seconda dei casi, al licenziamento illegittimo:

  • · la reintegrazione nel posto di lavoro, sempre e comunque e con integrale risarcimento del danno;
  • · la reintegrazione nel posto di lavoro ma con un risarcimento del danno limitato;
  • · il pagamento di un’indennità, normalmente compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità (ma, in alcuni casi, le misure sono rispettivamente ridotte a 6 e 12), normalmente alternativa per decisione del giudice alla reintegrazione con risarcimento del danno limitato.

Conviene subito chiarire in cosa consista quello che ho chiamato risarcimento del danno limitato: nei casi in cui ciò sia previsto, l’entità del risarcimento viene appunto limitato entro il massimo di 12 mensilità; in secondo luogo, scompare la misura minima del risarcimento pari a 5 mensilità; infine, dall’importo deve essere detratto non solo quanto effettivamente percepito dal lavoratore, com’è già oggi, ma anche quanto egli avrebbe potuto percepire. In ogni caso, resta ferma la condanna al versamento integrale dei contributi.

Basterebbero le modifiche da ultimo indicate (se il disegno di legge non contenesse proposte persino peggiori) per concludere che la riforma è pessima:

  • · limitare a 12 mesi il risarcimento del danno vuol dire scaricare sul lavoratore il rischio della durata del processo: è forse questo il modo attraverso il quale il Governo vuole risolvere, a favore dei potenziali investitori stranieri, i problemi derivanti dai tempi estremamente dilatati del nostro contenzioso di lavoro;
  • · dedurre dal risarcimento anche ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire, costringe il lavoratore stesso a oneri probatori improbi. Il lavoratore dovrà cioè dimostrare, per avere almeno i 12 mesi di risarcimento del danno, di aver fatto tutto il possibile per reperire una nuova occupazione e, ciò nonostante, di non averla trovata. Insomma, se questa ipotesi di riforma passasse, ogni avvocato e ogni operatore sindacale dovrebbero, tra l’altro, invitare ogni lavoratore licenziato a inviare a valanga il proprio curriculum (questo vale anche per l’addetto alla catena di montaggio?), ovviamente con raccomandata R.R., e ripetere periodicamente questo invio almeno per i primi 12 mesi dopo il licenziamento: un’attività francamente dispendiosa e inutile.

Così delineata l’articolazione del nuovo sistema sanzionatorio, vediamo come questo si applica alle diverse ipotesi di licenziamento:

  • · la reintegrazione con integrale risarcimento del danno si applica ai licenziamenti:
    • o discriminatori (in merito alla nozione di licenziamento discriminatorio, la riforma non apporta modifiche);
    • o intimati per maternità o matrimonio (anche in questo caso, non ci sono modifiche al regime già oggi esistente);
    • o intimati per un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.;
    • o collettivi intimati senza forma scritta;
  • · la reintegrazione con risarcimento del danno limitato si applica ai licenziamenti:
    • o disciplinari, se il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa perché il fatto non sussiste, o il lavoratore non l’ha commesso[5], o sia riconducibile, alla luce del contratto collettivo[6], a una più tenue sanzione;
    • o intimati per malattia (superamento del comporto);
    • o motivati dalla inidoneità fisica o psichica del lavoratore;
    • o intimati per giustificato motivo oggettivo (o collettivi per violazione della procedura sindacale), se il giudice accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso;
    • o collettivi per violazione dei criteri di scelta;
  • · l’indennizzo è previsto:
    • o negli “altri casi” in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa. L’indennità deve essere quantificata – tra il minimo e il massimo previsti – in base a una serie di parametri, tra cui l’anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti, del comportamento e delle condizioni delle parti;
    • o per i licenziamenti affetti da vizi formali. Al riguardo, è innanzi tutto contemplata la violazione della procedura disciplinare ex art. 7 S.L.. Inoltre, si tratta della violazione dell’obbligo di motivazione ex art. 2 c. 2 L. 604/66 (modificato dal disegno di legge, nel senso che la comunicazione del licenziamento deve contenere la specifica indicazione del motivo che l’ha determinato), della violazione della procedura di conciliazione prevista nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di cui si dirà, della violazione della procedura sindacale nel caso di licenziamento collettivo. In tali casi, è però previsto che il giudice disponga un indennizzo ridotto da un minimo di 6 a un massimo di 12 mensilità (da quantificarsi considerando la gravità della mancanza), a meno che accerti, sulla base della domanda del lavoratore, che oltre al vizio formale c’è un difetto di giustificazione, nel qual caso dispone – a seconda dei casi – la reintegrazione con risarcimento ridotto o l’indennizzo nella misura da 12 a 24 mensilità;
    • o nelle altre ipotesi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo (o nelle altre ipotesi di licenziamenti collettivi per violazione della procedura sindacale). L’indennità deve essere commisurata, tra il minimo e il massimo, tenendo conto – in aggiunta ai criteri indicati per i licenziamenti disciplinari – anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione, nonché del comportamento tenuto dalle parti nella procedura di conciliazione di cui si dirà.

Come si è visto, tanto per il licenziamento disciplinare, quanto per quello per giustificato motivo oggettivo, la sanzione è la reintegrazione (a risarcimento ridotto) o l’indennizzo, a seconda che la insussistenza della motivazione sia accertata sotto certi profili esplicitamente contemplati, o sotto altri che invece non vengono indicati. Sul punto, la riforma è davvero oscura e incomprensibile.

Quanto ai licenziamenti di natura oggettiva, parlare di “manifesta insussistenza” del fatto è ridondante: un fatto sussiste o non sussiste; la sussistenza non è suscettibile di aggettivi che la rafforzino o la indeboliscano. A tutto voler concedere, la sussistenza può essere opinabile.

A prescindere da questioni terminologiche, si può ipotizzare che il giustificato motivo oggettivo è manifestamente insussistente quando non solo nel processo manca la prova della sua sussistenza (che, nel sistema attuale, sarebbe sufficiente a concludere nel senso della illegittimità del recesso, con conseguente ordine di reintegrazione), ma quando nel processo si sia formata la prova della sua inesistenza. In questa prospettiva, si potrebbe dare un significato all’infelice espressione contenuta nel disegno di legge. Se fosse così, si determinerebbe una sorta di inversione dell’onere della prova, nel senso che tale onere resta a carico del datore di lavoro e, in caso di mancato assolvimento, la sanzione è quella dell’indennizzo; per ottenere la reintegrazione, è invece necessario che il lavoratore fornisca la prova contraria.

Ancora più oscuro è il significato della riforma con riferimento alle altre ipotesi del licenziamento disciplinare. In questo caso, le ipotesi espressamente contemplate, e che portano alla sanzione della reintegrazione, lasciano spazi residui ai soli vizi formali, che però sono oggetto di una specifica disciplina. In ogni caso, bisogna escludere che, con riferimento al licenziamento disciplinare, si verifichi una sorta di inversione dell’onere della prova simile a quella descritta per i licenziamenti per motivi oggettivi. Infatti, da un punto di vista processuale l’inconfigurabilità della giustificazione addotta, per esempio, sotto il profilo che il fatto non è stato commesso dal lavoratore, si verifica sia nel caso in cui il datore di lavoro non provi l’imputabilità del fatto contestato al lavoratore licenziato, sia nel caso in cui esista la prova contraria. Pertanto, e poiché in questo caso manca qualsiasi riferimento – che, come s’è visto, è indicato invece nel caso di licenziamento per motivo oggettivo – a una insussistenza qualificata (manifesta) del fatto, ne consegue che il problema non risiede nell’inversione dell’onere della prova.

Quanto ai licenziamenti per motivo oggettivo, resta ancora da dire che il disegno di legge, limitatamente ai casi di applicabilità dell’art. 18 S.L., prevede un preventivo tentativo di conciliazione, che deve essere espletato dal datore di lavoro presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente. La procedura si deve svolgere in tempi stretti e il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante del sindacato o della Rsa, ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro. Come si è visto, la violazione della procedura rende illegittimo il licenziamento (ma la conseguenza può comportare solo un indennizzo ridotto), mentre il comportamento tenuto dalle parti può essere valutato al fine della quantificazione dell’indennizzo tra il minimo e il massimo.

Insomma, tante modifiche censurabili. In primo luogo, il disegno di legge aggrava il processo e la sua durata. Ciò accade nel caso del licenziamento illegittimo per motivi formali che, attualmente, è illegittimo a prescindere dal merito del recesso (che dunque non deve essere accertato mediante testimoni). Con la riforma, invece, il datore di lavoro può chiedere che – nonostante il vizio formale – si accerti la ricorrenza del giustificato motivo, mentre il lavoratore può chiedere che si accerti l’insussistenza del fatto. Anche nel caso di licenziamento per motivi economici, e al fine di accertare la manifesta insussistenza del fatto, il processo sarà aggravato sotto il profilo istruttorio.

E’ tutto da verificare che questi aggravi processuali siano in qualche modo attenuati dalla riforma del processo avente a oggetto il licenziamento con applicazione dell’art. 18 S.L. (ivi comprese le ipotesi in cui devono esser risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro), pure contemplata dal disegno di legge. In questi casi, il disegno di legge costruisce un processo ricalcato sull’odierna procedura per la repressione dei comportamenti antisindacali ex art. 28 S.L.: una prima fase urgente, che si conclude con ordinanza immediatamente esecutiva, una successiva fase di opposizione innanzi il Tribunale, una successiva fase avanti la Corte d’Appello (definita reclamo) e, infine, il ricorso per cassazione. Il tutto, scandito da tempi brevi e stringenti e con la facoltà di tutti i giudici di merito (compresa la Corte d’Appello) di procedere nel modo ritenuto più opportuno agli atti istruttori, senza formalità non essenziali al contraddittorio. Per garantire la celerità del rito, è anche previsto che a questa tipologia di cause siano riservati giorni particolari nel calendario delle udienze.

Il problema è capire come questa riforma processuale potrà essere concretizzata stante l’attuale organico della magistratura del lavoro, già attualmente inadeguato. Nella migliore delle ipotesi, quand’anche il sistema funzionasse con riferimento alle cause relative ai licenziamenti, si rischierebbe la paralisi – senza un intervento sugli organici – di tutte le rimanenti cause.

Incomprensibile è poi la reviviscenza del tentativo obbligatorio di conciliazione nel caso di licenziamento per motivi oggettivi. L’istituto già c’era, per tutte le cause, e aveva dato una tale prova di sé che, opportunamente, il legislatore l’aveva abrogato. Davvero, non se ne sentiva la mancanza. Tanto più che, come strutturato dalla riforma, l’assistenza del lavoratore in questa fase sembra non essere necessaria e, comunque, non necessariamente adeguata: c’è da chiedersi se un consulente del lavoro possa adeguatamente assistere il lavoratore, il cui comportamento sarà poi valutato dal giudice al fine della quantificazione dell’indennizzo.

Infine, l’aspetto più censurabile: la nuova disciplina del licenziamento per motivi economici. Vero che, rispetto al contenuto del progetto del 23 marzo, è stata reintrodotta l’ipotesi della reintegrazione. E’ però innegabile che, tra tutte le tipologie di licenziamento, quello per motivo oggettivo continua a risultare quello più conveniente per il datore di lavoro, perché comunque in questo caso è obiettivamente più difficile ottenere la reintegrazione. A fronte di questa osservazione, diventa davvero eccessiva l’articolazione delle tipologie dei licenziamenti e delle relative sanzioni: anche dopo il correttivo apportato dal disegno di legge,

la proposta di riforma è in realtà strutturata in modo tale da indurre il datore di lavoro a scegliere una sola ipotesi di licenziamento: quello economico, che non comporterà la reintegrazione, salva l’ipotesi di manifesta insussistenza del motivo addotto. Il problema però è che l’onere di provare tutto ciò incombe probabilmente sul lavoratore, e immagino che sia chiaro a tutti che ciò non sarà per nulla facile.

Anche dopo il disegno di legge resta pertanto ferma un’altra impressione emersa dopo il progetto del 23 marzo: la nuova frontiera del licenziamento saranno il licenziamento discriminatorio e il licenziamento per motivo illecito. Solo per questa via, infatti, si potrà sperare di ottenere la reintegrazione senza correre il rischio di percepire il mero indennizzo. Almeno, vale la pena provarci.

Il licenziamento discriminatorio è già noto, benché scarsamente praticato nelle aule di Tribunale. Da un lato, il datore di lavoro non licenzia esplicitamente motivando il recesso con una motivazione riconducibile alla discriminazione; d’altra parte, il lavoratore – formalmente licenziato per un motivo diverso – di solito preferisce non addentrarsi in quella tematica perché, a fronte di un regime probatorio assai complesso, l’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento oggi porta pur sempre alla reintegrazione nel posto di lavoro: come dire, il gioco non vale la candela. Se però le regole del gioco cambiano, e l’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento porta a conseguenze più favorevoli (e al contempo crescono gli oneri probatori per il lavoratore che miri alla reintegrazione), tanto vale tentare questa strada.

Sul punto, vale la pena di ricordare che l’ordinamento giuridico, per favorire la vittima della discriminazione, ha già previsto una attenuazione del rigido sistema della prova, prevedendo che il lavoratore può fornire presunzioni in merito alla discriminazione subita, anche fondata su dati statistici: a quel punto, spetta al datore di lavoro provare che, invece, il licenziamento non si fonda su motivi discriminatori. Cosa ciò significhi è dettagliatamente spiegato dal legislatore nel caso di discriminazione fondata sul sesso (ma analogamente si può ritenere che lo stesso valga per ogni altra forma di discriminazione), là dove si precisa che i dati statistici possono riguardare le assunzioni, i regimi retributivi, l’assegnazione di qualifiche, la progressione in carriera e i licenziamenti. Per esempio, la lavoratrice licenziata può fornire dati da cui si ricavi che il datore di lavoro assume prevalentemente personale di sesso maschile, cui poi sono riservate le mansioni più qualificate e le retribuzioni più elevate. A questi casi, se la proposta di riforma vedesse la luce, si può aggiungere – come elemento presuntivo – la radicale falsità del motivo addotto per il licenziamento che, insieme ad altri elementi statistici simili a quelli ricordati, possono indurre il giudice a concludere nel senso della natura discriminatoria del licenziamento.

Il licenziamento per motivo illecito rappresenta invece una novità assoluta, tutta da scoprire. A tale riguardo, il disegno di legge richiama espressamente l’art. 1345 c.c., che dispone l’illiceità del contratto (o, è lo stesso, dell’atto) quando ha, come motivo unico e determinante, un motivo illecito, con conseguente nullità del contratto (o dell’atto) ex art. 1418 c.c.. Il problema è capire quali applicazioni concrete questa normativa possa trovare nel caso del licenziamento. Un esempio di applicazione potrebbe essere quando si accerti che il posto di lavoro, contrariamente a quanto indicato nella lettera di licenziamento, non è stato soppresso. E’ vero che il legislatore già disciplina il regime sanzionatorio nel caso di insussistenza del giustificato motivo oggettivo; tuttavia, la differenza tra questa ipotesi (di mera insussistenza del giustificato motivo oggettivo) e quella del motivo illecito sta nel motivo unico e determinante. Certo, rimane un arduo problema di prova, ma che dire – per esempio – se il datore di lavoro, un mese dopo aver licenziato per soppressione del posto, assume un altro lavoratore per svolgere gli stessi compiti? O se dai libri contabili della società che ha licenziato per crisi risulta invece un attivo? In casi come questi è evidente la consapevolezza, da parte del datore di lavoro, dell’inesistenza del motivo addotto, tanto che si deve inevitabilmente concludere che l’unico e determinante motivo che l’ha indotto a licenziare è un altro, tanto più illecito in quanto mai dedotto.

Analogamente si può concludere nel caso in cui si accerti che la scelta del lavoratore concretamente licenziato per motivi oggettivi è del tutto irragionevole, o che il licenziamento sia avvenuto nonostante la vacanza di altri posti assegnabili a quel lavoratore. In casi come questi, infatti, il licenziamento, formalmente intimato per un motivo oggettivo, è mirato nei confronti della singola persona, acquistando così caratteristiche tutt’altro che oggettive e, pertanto, determinato da un unico motivo illecito determinante.

Per concludere: siamo di fronte a un progetto di riforma propagandistico, che cerca di nascondere tra fumi e proclami il vero volto della riforma, in realtà imperniata su un unico provvedimento, grave e sbagliato: la modifica dell’art. 18 S.L. e una maggiore flessibilità in uscita.

 

 


[1] Nel frattempo, la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti è stata approvata con L. 28/6/12 n. 92. Nelle successive note, si darà conto delle modifiche, intervenute in sede parlamentare e contenute nella legge appena indicata, rispetto all’originario disegno di legge.

[2] Elevati a 8 mesi dalla L. 92/12.

[3] Elevato all’80% dalla L. 92/12.

[4] Elevati a 12 mesi dalla L. 92/12.

[5] La L. 92/12 ha soppresso il riferimento all’ipotesi dell’accertamento che il fatto non è stato commesso dal lavoratore. Peraltro, le due ipotesi originariamente contemplate erano ridondanti, perché la non commissione del fatto si risolve nella insussistenza del fatto stesso, così come contestato.

[6] All’ipotesi del contratto collettivo, la L. 92/12 ha aggiunto quella del codice disciplinare.