I contratti a tempo determinato nel pubblico impiego e l'applicabilità della sanzione della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 9555/10 della Corte di Cassazione (di Alessia Gabriele)

Alessia Gabriele - Ricercatrice dell’Università degli Studi di Enna “Kore”

I contratti a tempo determinato nel pubblico impiego e L’applicabilità della sanzione della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 9555/2010 della Corte di Cassazione.

Sommario: 1. Le argomentazioni della Suprema Corte. – 2. Rapporto di lavoro pubblico e contratto collettivo di diritto privato. – 3. Il principio costituzionale del concorso. - 4. La giurisprudenza di merito e la disapplicazione delle norme nazionali. - 5. Brevi considerazioni conclusive.

 

1. – Dai recenti orientamenti dei giudici di merito in materia di rapporti precari nella scuola, è emersa una tendenza che ha infranto lo schema tradizionale dato dal divieto di conversione dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego[1].

Nella stessa direzione si è mossa anche una pronuncia della Corte di Cassazione che, rimasta ad oggi isolata, va sottoposta a scrupolosa disamina, e per l’originale soluzione apportata e per le motivazioni addotte al fine di affermare la piena operatività della conversione del contratto a tempo determinato per dei lavoratori dipendenti da un ente di diritto pubblico[2].

Qui la quaestio iuris prende le mosse dal ricorso presentato da una lavoratrice che aveva prestato la sua attività con la qualifica di portiera in uno stabile di proprietà dell’I.N.A.I.L., in forza di un rapporto di lavoro fondato su cinque contratti a tempo determinato consecutivi.

A seguito del licenziamento, la dipendente ha chiesto al Giudice del lavoro di riconoscere l’illegittimità della reiterazione dei contratti e di dichiarare la nullità del licenziamento, condannando l’Istituto alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione delle retribuzioni non pagate.

La vicenda giudiziaria vede in primo grado l’accoglimento pieno delle istanze della ricorrente, mentre in grado d’appello i giudici, riconoscendo l’illegittimità della stipulazione reiterata di più contratti a tempo determinato, hanno tenuto conto della natura giuridica di diritto pubblico dell’Ente datore di lavoro e hanno dichiarato l’inoperatività della conversione del rapporto di lavoro, applicando la sanzione prevista dall’art. 36, comma secondo, d.lgs. n. 165/2001.

La sentenza in epigrafe riforma il decisum della Corte d’Appello di Roma e risolve la questione attraverso un singolare percorso logico – giuridico: singolare perché l’esito cui approda la Corte è di affermare la piena applicazione della sanzione della conversione del contratto a termine in caso di abuso da parte del datore di lavoro, anche se quest’ultimo è un ente pubblico che rientra nell’ambito soggettivo della privatizzazione di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001[3].

Secondo la ricostruzione del Supremo Collegio, malgrado il rapporto di lavoro di portierato alle dipendenze dell’Istituto sia da ritenere di natura pubblicistica, esso è comunque assoggettato alla disciplina tipica del rapporto di lavoro del settore privatistico; e ciò in forza dell’applicazione del contratto collettivo di diritto privato per i dipendenti da condomini e fabbricati.

Sul punto la Corte rinvia ad un percorso argomentativo già parzialmente elaborato in precedenza. Della questione della natura del rapporto di lavoro degli addetti alle funzioni di vigilanza e custodia dipendenti da fabbricati di proprietà dell’I.N.A.I.L., infatti, la giurisprudenza della Suprema Corte si è occupata fin dal 1989[4], con riferimento a specifiche ipotesi quali la giurisdizione e il decorso dei termini per la prescrizione[5]. Questa, pertanto, è la prima volta in cui la Corte si occupa della disciplina da applicare ai rapporti di lavoro in questione, nel caso in cui siano violate le norme in materia di proroga e rinnovo o reiterazione di contratti a tempo determinato.

Il primo argomento della motivazione si fonda sul richiamo alla disposizione di cui all’art. 51 del regolamento emesso con d.p.r. n. 411 del 1976, secondo cui è esclusa l’applicabilità della disciplina sostanziale dello stesso decreto a quei rapporti di lavoro che, in quanto regolati da contratti collettivi di diritto comune, assumono una natura obiettivamente privata e pertanto non possono essere ricondotti agli specifici obblighi di pubblico impiego di cui alla legge n. 70 del 20 marzo 1975 (c.d. legge sul parastato) e successive modifiche[6].

Da qui, secondo il Supremo Collegio, discenderebbe l’inapplicabilità ai rapporti di lavoro di vigilanza e di custodia alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico della disciplina di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993 come modificato dal d. lgs. n. 80 del 1998. La natura dell’ente datore di lavoro, in questa prospettiva, allora non è da ritenere ‹‹circostanza autonomamente sufficiente›› per escludere la conversione di contratti a tempo determinato con termini nulli in contratti a tempo determinato.

A conferma di questa tesi, la Corte espone anche un altro argomento e, con riferimento al momento genetico del rapporto di lavoro a tempo determinato, pone una sottile linea di demarcazione tra rapporti di lavoro la cui instaurazione avviene mediante concorso, o altre procedure selettive (art. 36, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 29 del 1993), e gli altri tipi di professionalità, di solito profili bassi, per cui l’assunzione avviene direttamente con la verifica del requisito della scuola dell’obbligo (art. 36, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 29 del 1993)[7]. In questa seconda tipologia sono da includere anche i rapporti di lavoro dei dipendenti da fabbricati addetti ad attività di vigilanza e di custodia e, secondo l’argomentazione della Corte, proprio dalla circostanza che per tali professionalità non sia richiesto dal legislatore l’espletamento di una procedura concorsuale consegue l’inoperatività del divieto della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Questa soluzione è ancorata alla storica pronuncia della Corte costituzionale n. 89 del 2003, secondo cui la ratio dell’inoperatività della conversione sarebbe costituita esclusivamente dalla difesa del principio del concorso nell’accesso al pubblico impiego[8]. Pertanto, ove l’accesso sia per chiamata diretta dalle liste di collocamento e sia quindi esclusa all’origine la necessità di un concorso, come nel caso oggetto della sentenza in commento, il Supremo Collegio ritiene pienamente applicabile la disciplina privatistica.

Inquadrata la soluzione in tale cornice argomentativa, pertanto, si perviene ad un principio di diritto, in forza del quale esisterebbero delle sacche di rapporti di lavoro nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, che verrebbero sottratte all’operatività della norma di cui all’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, e che quindi, in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, sarebbero garantite dalla costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Tuttavia, sebbene appaia fondata sotto il profilo metodologico, una simile conclusione va sottoposta ad attenta verifica. Quantomeno è necessario accertare fino a che punto si possa trascurare che, in questa prospettiva, la natura giuridica dell’ente datore di lavoro diventi irrilevante.

Inoltre, seguendo lo schema logico adottato dalla Corte, sorgono almeno due interrogativi: il primo in merito alla correttezza del riferimento alle precedenti decisioni in materia di rapporti di lavoro alle dipendenze di un fabbricato di proprietà dell’INAIL; ed il secondo, riguardo alla possibilità di ritenere ammissibile la conversione di rapporti di lavoro caratterizzati da qualifiche per le quali non è previsto il concorso.

 

2. – L’argomentazione più rilevante della motivazione della Corte consiste nel rinvio ai precedenti giudizi che hanno avuto ad oggetto la soluzione di controversie in cui erano dedotti rapporti di lavoro di portieri e addetti alla vigilanza alle dipendenze di fabbricati di proprietà dell’INAIL.

In questi casi, infatti, la Corte aveva sempre escluso che ai rapporti in questione si applicasse la normativa della legge sul parastato (legge 20 marzo 1975, n. 70) per effetto del successivo D.P.R. 26 maggio 1976, n. 411[9].

Tuttavia, una pronuncia delle Sezioni Unite del 1990, dirimendo un contrasto che era sorto tra le Sezioni, ha affermato che il rapporto di lavoro degli addetti ai servizi di portineria degli stabili di proprietà dell’INAIL integra un rapporto di pubblico impiego «in considerazione della qualità del datore di ente pubblico non economico, nonché dell’inserimento di quel personale nell’ambito dell’organizzazione pubblicistica dell’Istituto medesimo, il quale provvede direttamente alla gestione del proprio patrimonio immobiliare, senza ricorrere ad autonome strutture di tipo imprenditoriale»[10].

A conferma di tale orientamento si era già schierata una pronuncia delle Sezioni Unite che aveva affermato la giurisdizione del giudice amministrativo fondando il ragionamento sulla natura meramente regolamentare del D.P.R. n. 411 del 1976, e ritenendo che l’art. 51 dello stesso andasse interpretato nel senso che esso «esclude l’applicabilità della disciplina sostanziale del decreto a quei rapporti già regolati da contratti collettivi di diritto comune, per la loro natura obiettivamente privata, e tali da non poter essere ricondotti, non alla generale nozione di pubblico impiego, bensì agli specifici rapporti di impiego pubblico di cui alla legge n. 70 del 20 marzo 1975»[11].

L’orientamento costante seguito dai giudici di legittimità è stato univocamente quello di considerare i rapporti in questione come dei rapporti di pubblico impiego a tutti gli effetti, e l’esclusione posta dal d.p.r. n. 411/1976 come relativa alla sola disciplina dello svolgimento del rapporto di lavoro.

Più in generale, va ricordato che nelle controversie di lavoro nei confronti dello Stato e degli Enti pubblici non economici, per la qualificazione pubblicistica del rapporto di lavoro, la giurisprudenza ha sempre ritenuto determinante l’inserimento del prestatore in posizione di subordinazione e con carattere di continuità nell’ambito dell’organizzazione dell’ente, senza che rilevi né l’assoggettamento del rapporto alla disciplina sostanziale dettata da un contratto collettivo di diritto privato, né l’apposizione di termini di durata alla prestazione lavorativa[12]. E’ stato altresì precisato che il rapporto di lavoro può essere considerato di impiego privato solo qualora il lavoratore risulti inserito in una organizzazione separata e autonoma dalla struttura pubblica dell’ente, gestita con criteri di imprenditorialità e senza alcuna correlazione con i fini istituzionali dell’Ente; oppure quando la qualificazione privatistica del rapporto sia espressamente prevista dalla legge[13].

Ciò significa che per aggirare il divieto di conversione ex art. 36, d.lgs. n. 165/2001, non è sufficiente invocare l’applicazione del contratto collettivo, ma a giustificare la decisione della Corte in questo caso dovrebbe essere richiamata una norma ad hoc che qualifichi rapporti in questione come di impiego privato.

La disciplina applicabile, infatti, andrebbe ricostruita con riferimento ad elementi differenti e, in primo luogo, soffermandosi sulla natura giuridica dell’ente datore di lavoro: l’INAIL, infatti, in quanto ente pubblico non economico, è immediatamente destinatario della disciplina di cui al d.lgs. n. 165/2001 e non v’è ragione affinché possa legittimamente sottrarsi ad essa[14]; inoltre, quando la giurisprudenza si è occupata in passato di chiarire il senso della deroga stabilita dall’art. 51 del d.p.r. n. 411 del 1976 ha precisato che i rapporti di lavoro a cui si applicano contratti collettivi di diritto privato, non sono sottratti alla generale nozione di pubblico impiego, ma solo agli specifici rapporti di impiego pubblico di cui alla l. n. 70 del 1975[15]. Da questi elementi sembra pertanto coerente affermare la piena operatività dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, ai rapporti in questione.

Sul punto però, come visto, la Corte giunge a un risultato opposto, ignorando un altro dato. L’intervenuta privatizzazione del pubblico impiego ha sì condotto a una generale uniformità tra i due settori con una progressiva omologazione, ma ha sempre mantenuto, in coerenza con i principi costituzionali e con la peculiare natura del datore di lavoro pubblico, delle differenze strutturali che non possono in alcun modo essere derogate, se non a costo di palesare ingiustificate discrasie di sistema[16]. Malgrado, infatti, la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee, in ragione delle esigenze di perseguimento degli interessi generali[17].

Se in questa sede deve darsi per noto il dibattito scientifico sui profili sanzionatori del contratto a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato[18], ciò che invece si vuole mettere a fuoco è se a questa pronuncia della Corte corrisponda un revirement giurisprudenziale, con il quale sia stata aperta una breccia nell’assetto rigoroso finora costantemente affermato o se si tratterà, al contrario, di un isolato caso circoscritto al particolare quadro di interessi emergente dal caso concreto.

 

3. – La vicenda da cui trae origine la sentenza riguarda una categoria di lavoratori con ridotta qualificazione professionale. Secondo l’art. 35, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 165/2001, le assunzioni nella P.A. avvengono, oltre che tramite procedure selettive (lett. a), anche mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e i profili per i quali sia richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo[19]. Ed è questo l’unico caso in cui la legge consente di predisporre modalità di reclutamento tra gli iscritti nelle liste di collocamento, al di fuori di una procedura selettiva volta all’accertamento della professionalità richiesta.

Per i giudici del Supremo Collegio, la circostanza per cui l’instaurazione dei rapporti di lavoro dedotti in giudizio rientrasse in questa seconda ipotesi, è stata risolutiva al fine di applicare la sanzione ordinaria della conversione ai contratti a tempo determinato anche nel P.I.

In proposito il ragionamento seguito dalla Corte è stato essenziale e forse un po’ troppo sintetico, rinviando alle argomentazioni sostenute dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 89 del 2003, secondo cui la ratio dell’inoperatività della conversione nel pubblico impiego privatizzato andrebbe riferita a un’esigenza di salvaguardia del principio del concorso nell’accesso al pubblico impiego[20].

Si potrebbe allora sostenere che, con riferimento a tutte le forme di lavoro flessibile per posizioni professionali con qualifiche elementari (per le quali il legislatore sceglie di escludere a priori la necessità del reclutamento mediante procedure selettive), verrebbe meno la ‹‹non omogeneità›› del lavoro pubblico rispetto a quello privato. E ciò proprio perché in queste ipotesi cadrebbe il principio del concorso come elemento fondante il ‹‹profilo genetico del rapporto››. Pertanto, poiché la sanzione della conversione è legata a filo doppio alla necessità di una procedura selettiva, ben si potrebbe in tali ipotesi ammettere la compatibilità di una sanzione ‹‹tale da consentire assunzioni senza concorso››, qual è quella tipica della disciplina privatistica[21].

Una simile conclusione sembra il naturale sbocco dell’avviato processo di uniformazione tra pubblico e privato, anche e soprattutto con riferimento alle forme di lavoro flessibile, divenute ormai un ordinario strumento di acquisizione e di utilizzazione della forza lavoro da parte della p.a.

In particolare, nella ricostruzione della Corte, sembra definitivamente archiviata l’antica dicotomia esistente tra rapporti di impiego di ruolo e non di ruolo, per cedere il passo ad un nuovo binomio i cui elementi sarebbero ‹‹assunzioni tramite procedure selettive/avviamento degli iscritti alle liste di collocamento››[22].

Solo in questa seconda ipotesi, ben vero, tra rapporto di lavoro flessibile e rapporto di lavoro a tempo indeterminato non esisterebbe alcuna discrasia rispetto al settore privato perché, oltre alla coincidenza del momento genetico (per cui è escluso il concorso), non vi sarebbe alcuna conseguenza differente sul piano sanzionatorio.

Le ricadute saranno diverse in caso di assunzione a tempo determinato per posizioni professionali per cui è richiesto l’espletamento di procedure concorsuali o selettive; in questo caso continuerebbe a permanere la differenza originaria, in ragione della necessità che, a fronte di qualsiasi forma contrattuale adoperata, dovrebbe garantirsi l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, individuando a tal fine nello strumento concorsuale l’unico canale di accesso per la selezione del personale più meritevole e più capace[23].

Rimangono, però, dei limiti argomentativi nell’iter seguito dalla Corte.

In particolare, la Corte non spiega come possa giustificarsi un’omologazione di disciplina tra figure professionali di basso livello e come invece ciò venga negato per le posizioni più elevate per cui il legislatore sceglie, in ossequio all’art. 97 Cost., il principio della selettività. Sotto il profilo contrattuale genetico, infatti, non v’è alcuna differenza strutturale tra questi tipi di rapporto, perché, a prescindere dalle tipologie di reclutamento previste dall’art. 35 d.lgs. n. 165/2001, il rapporto di lavoro assume sempre gli elementi essenziali di un rapporto di lavoro subordinato[24].

Peraltro, se è vero che una delle argomentazioni addotte per negare la sanzione della conversione nel pubblico impiego va rintracciata nella necessità di indire una procedura selettiva[25], non si può parimenti trascurare come la vera ratio sottesa alla mancata omologazione tra contratto a termine nel pubblico impiego e nell’impiego privato sia stata ravvisata nell’esigenza concreta di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica[26]. Inoltre, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, le ragioni che limitano la tutela al solo ambito risarcitorio rispondono anche a criteri di ragionevolezza e sono ispirate alla tutela dei superiori interessi di carattere generale[27]. La stessa ammissibilità delle forme di lavoro flessibile nel P.I., ritenute strumentali ad assicurare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa, deve trovare giustificazione nelle esigenze di cui all’art. 97 Cost., e in particolare nell’interesse pubblico alla creazione di nuovi e aggiuntivi profili professionali[28].

Da qui allora, e non dalla necessità del rispetto del principio del concorso, discenderebbe quell’incomunicabilità propria dell’area pubblicistica tra i diversi tipi di contratto di lavoro non convertibili l’uno nell’altro, nonostante il diverso evolversi in concreto del rapporto di lavoro[29].

Anche su quest’argomentazione il ragionamento seguito dal Supremo collegio con la sentenza in commento vacilla e non spiega come arginare il pericolo che si possano convertire alcuni rapporti di lavoro senza tenere conto della rigida programmazione del fabbisogno del personale con le dotazioni organiche e delle esigenze di contenimento della spesa pubblica, con il rischio di assumere un numero di persone maggiore di quanto possano consentire gli stanziamenti in bilancio[30].

Ancora un altro spunto di riflessione deve essere affrontato, prendendo in considerazione il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato sotto una duplice prospettiva[31].

La prima riguarda gli iscritti alle liste di avviamento che abbiano scelto di non iscriversi per posizioni avventizie, ignorando la possibilità di una conversione del rapporto e la chance di essere definitivamente stabilizzati, e hanno rifiutato quindi a priori un’occupazione di lavoro perché precaria.

La seconda questione riguarderebbe quei lavoratori, assunti a tempo determinato, che abbiano svolto una procedura selettiva[32], e per i quali sarebbe stato pertanto garantito il principio di imparzialità e l’accertamento oggettivo della professionalità richiesta nel momento genetico del rapporto e che, nonostante ciò, in caso di violazione delle condizioni di cui al d.lgs. n. 368/2001, non accederebbero alle stesse garanzie di natura reale dei dipendenti protagonisti della vicenda giudiziaria in commento.

Quest’ultimo tema, infatti, non è mai stato affrontato dal giudice costituzionale e rimane tutt’oggi un problema aperto che, alla luce del principio di diritto emergente dalla sentenza n. 9555 del 2010, acquista senz’altro una diversa rilevanza. Prospettiva questa, che a breve potrebbe condurre gli interpreti e gli operatori del diritto a negare la piena giustificazione al divieto di conversione nel pubblico impiego[33].

E ciò, non in ultimo, perché l’ansia stabilizzatrice del legislatore, seppure sospinto da dichiarate finalità di lotta alla precarizzazione, ha finito per introdurre nel sistema un risultato pratico analogo a quello precluso dall’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001[34].

 

4. - Va segnalato un recente orientamento dei giudici di merito che, cogliendo l’opportunità dell’appiglio interpretativo offerto dalla nota giurisprudenza comunitaria sulla legittimità del sistema sanzionatorio nel pubblico impiego, ritiene adeguata la sanzione della conversione del rapporto di lavoro anche nel pubblico impiego[35], secondo i principi dell’ordinamento ‹‹comunitario ed europeo››[36].

Questa tesi minoritaria, infatti, ritiene che la mancata estensione al settore del lavoro pubblico della conversione legale non possa trovare giustificazione nell’art. 97 Cost., perlomeno in tutti quei casi in cui le assunzioni a termine siano effettuate nel rispetto delle procedure di reclutamento di cui all’art. 35, d.lgs. n. 165/2001, così come richiesto dall’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, modificato dalla l. n. 133/2008[37].

In particolare, secondo i giudici, avrebbe valore risolutivo la necessità di garantire il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato, principio questo che sarebbe violato proprio dalla differente misura di ristoro tra il settore pubblico e quello privato, nel caso di successione illegittima di contratti a termine[38].

Sul punto si segnala la sentenza del Tribunale di Livorno, inoltre, l’attuale sistema risarcitorio nel pubblico impiego non è in grado di approntare una tutela equivalente che riesca a compensare il lavoratore della mancata conversione. A conferma di questa opinione, infatti, il giudice ricorda come per la quantificazione del risarcimento siano state adottate in giurisprudenza le più varie soluzioni, senza che si sia raggiunta ad oggi una posizione univoca[39].

In questa prospettiva, peraltro, a nulla vale il possibile rinvio al criterio risarcitorio previsto dall’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010, perché ‹‹secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e comunitariamente adeguata, in linea con il principio di effettività e di adeguatezza delle sanzioni, con il principio di parità di trattamento e con la clausola di non regresso delle tutele››, l’indennità in questione ‹‹può ritenersi essere aggiuntiva rispetto alle tradizionali tutele (incidendo solo sulla limitazione del danno risarcibile), dovendo escludersi per converso che essa possa essere sostitutiva della conversione del rapporto (…)››[40].

Pertanto, tale eventuale e alternativo parametro per quantificare il danno non è adoperabile in sostituzione della conversione, come d’altronde sono inapplicabili le molteplici e diverse soluzioni adottate dai vari tribunali ‹‹perché nessuna di esse ha valore o giustificazione logica maggiore di un’altra››[41].

In considerazione di ciò, e data l’impossibilità di trovare un’opzione interpretativa che garantisca la conformità al diritto comunitario, quest’orientamento propone la disapplicazione dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, e dell’art. art. 32, commi 5-7, l. n. 183/2010[42].

La tecnica della disapplicazione della norma è una diretta conseguenza dell’esercizio del potere di controllo dei giudici sulla conformità della normativa interna con quella comunitaria[43]. Ed è proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia ad affermare il dovere del giudice nazionale di esercitare un controllo diffuso della normativa nazionale. Il giudice, infatti, nel caso in cui riscontri delle difformità rispetto al diritto comunitario, dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna, e ciò a prescindere dall’esercizio della facoltà di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione di tale principio (art. 267, secondo comma, TFUE)[44].

In altri termini, l’applicazione dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, alle ipotesi di lavoro flessibile per cui siano state effettuate le procedure di reclutamento indicate dall’art. 35, d.lgs. n. 165/2001, diventa incompatibile con i principi comunitari per l’impossibilità di garantire l’effettiva adeguatezza della sanzione[45].

 

5. - In realtà, tra la sentenza della Suprema Corte n. 9555/2010 e le pronunce di merito appena accennate, tutte apparentemente orientate a sostegno della scelta di applicare lo schema della conversione del contratto anche ai rapporti di impiego pubblico, non è possibile individuare una comunanza di argomentazioni teorico-giuridiche che rivelino un orientamento univoco sul punto.

E ciò è innegabile, perché solo nel secondo caso il decisum si fonda sulla disapplicazione dell’art. 36, d.lgs. n. 165 del 2001, mentre, nel caso della questione affrontata dai giudici del Supremo collegio, la soluzione adottata è prevedibile che rimarrà un unicum per le peculiarità della vicenda concreta[46].

Eppure, tenendo ben presenti le differenze esistenti tra gli orientamenti prospettati, comincia a tracciarsi una progressiva tendenza a riconoscere l’ammissibilità anche per il settore pubblico della conversione del contratto, che fino a un biennio fa sarebbe stata inconcepibile. Tendenza che, sovvertendo apertamente (e sembra quasi provocatoriamente), gli orientamenti consolidati in dottrina e in giurisprudenza, si impone all’attenzione della politica del diritto alla stregua di un elemento sintomatico di una patologia.

E, infatti, se l’argomentazione del controllo della spesa pubblica e della programmazione del fabbisogno del personale è decisiva al fine di escludere la legittimità della conversione dei rapporti precari nel pubblico impiego[47], è anche vero che l’attuale perdurante varietà delle tecniche di quantificazione del danno, elaborate ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, non garantisce l’effettività dello strumento sanzionatorio, e non dissuade il datore di lavoro pubblico dal reiterare comportamenti che ledono e offendono la dignità dei lavoratori e il loro diritto ad una certezza dei rapporti giuridici[48].

L’unico dato sicuro rimane la piena operatività dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui sancisce il divieto di costituzione di rapporti a tempo indeterminato a fronte di contratti a termine contrari a norme imperative.

Sull’entità del risarcimento e sulle tecniche di quantificazione del danno, resta aperto tra i tribunali di merito il torneo tra chi possa escogitare la soluzione “più adeguata” ai principi di diritto comunitario e di diritto interno[49].

La Cassazione stessa, infatti, ha apertamente negato la legittimità degli orientamenti minoritari, ma non ha ancora selezionato un criterio di merito che funga da parametro per individuare un’unica tecnica di quantificazione del danno[50].

Sarebbe, pertanto, auspicabile una soluzione giurisprudenziale in tal senso che scrivesse la parola ‹‹fine›› alla complessa e intricata vicenda.

Invero, rimettere la questione nelle mani dell’attuale legislatore, potrebbe equivalere a garantire la certezza del diritto, ma con il rischio di perdere definitivamente l’effettività dello strumento sanzionatorio nel caso in cui la soluzione risarcitoria prospettata con il diritto positivo fosse irrimediabilmente irrisoria.

In questo caso, infatti, a nulla potrebbe più valere ‹‹l’audacia›› di certi giudici e vano sarebbe ogni tentativo di disapplicazione della norma.


[1] Da ultimo cfr. Trib. Trani, 18 luglio 2011, n. 4430, in www.dirittoscolastico.it; Trib. Siena, 27 settembre 2010, in www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com; Trib. Livorno, 26 novembre 2010, in www.adapt.it.

[2] Cass., 22 aprile 2010, n. 9555, in Lav. giur., 2010, 11, p. 1107, con nota di De Michele.

[3] In generale, sulla privatizzazione del pubblico impiego v. Liso, La privatizzazione dei rapporti di lavoro, in Carinci F. - D’Antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Dal D.lgs. n. 29 del 1993ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998, Milano, 2000, I, p. 177. Cassese, Il sofisma della privatizzazione del pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 1993, p. 287, secondo cui non si tratterebbe di una vera privatizzazione ma dell’utilizzo di alcuni strumenti privatistici a fini di efficienza per il pubblico impiego.

[4] Cass., SS. UU., 23 giugno 1989, n. 3000, in Mass. giur. it., 1989, riconosce la qualità di ente pubblico non economico del datore di lavoro e ritiene che la disposizione dell’art. 51 del d.p.r. n. 411 del 1976 vada interpretata nel senso che essa esclude l’applicabilità della disciplina sostanziale dello stesso decreto a quei rapporti già regolati da contratti collettivi di diritto comune per la loro natura obiettivamente privata, e tali da non poter essere ricondotti, non alla generale nozione di pubblico impiego, bensì agli specifici rapporti di impiego pubblico di cui alla l. n. 70 del 20 marzo 1975.

[5] Per le questioni inerenti alla giurisdizione cfr. ex plurimis Cass., SS.UU., 28 novembre 1990, n. 11459, in Mass. giur. it., 1990, secondo cui il rapporto di lavoro degli addetti ai servizi di portineria degli stabili dell’INAIL ha natura pubblicistica e come tale è devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; sul termine di prescrizione dei diritti dei lavoratori v. Cass. 3 agosto 1990, n. 7774, in Mass. giur. it., 1990, che ritiene il rapporto tra l’INAIL e i portieri addetti alla vigilanza e custodia degli edifici sottratto all’operatività della legge sul parastato (l. n. 70 del 1975), in quanto tale rapporto sia disciplinato nel suo contenuto da un contratto collettivo di natura privatistica.

[6] Cass., SS. UU., 23 giugno 1989, n. 3000, cit.; Cass., SS.UU., 28 novembre 1990, n. 11459, cit.; Cass. 3 agosto 1990, n. 7774, cit.

[7] Delfino, Commento all’art. 36, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, in Corpaci - Rusciano - Zoppoli (a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Le nuove leggi civili commentate, 1999, II, p. 1269 ss.; Garilli, Flessibili e precarinelle pubbliche amministrazioni, in Bellavista - Garilli - Marinelli (a cura di), Il lavoro a termine dopo la legge 6 agosto 2008, n. 133, Torino, 2009, p. 111 ss.; Roccella, Spunti sulla disciplina del lavoro temporaneo nel pubblico impiego, in Riv. crit. dir. lav., 1989, I, 404; Fiorillo, Il reclutamento del personale pubblico: forme contrattuali stabili e flessibili, in F. Carinci - D’Antona (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2000, p. 1086 ss.

[8] Corte cost. 27 marzo 2003, n. 89, in Foro it., 2003, I, c. 2258; in dottrina v. Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 89/2003 della Corte costituzionale, in Lav. pubbl. amm., 2003, p. 489 ss.

[9] Cass. 3 agosto 1990, n. 7774, cit.

[10] Cass., SS. UU., 28 novembre 1990, n. 11459, cit.

[11] Cass. SS. UU., 23 giugno 1989, n. 3000, cit.

[12] In questo senso, ex plurimis, v. Cass., SS. UU., 4 dicembre 1991, n. 13033, in Mass. giur. it., 1991; Cass., SS. UU., 28 febbraio 1992, n. 2434 in Mass. giur. it., 1992.

[13] Cass., SS. UU., 15 giugno 1994, n. 5792 in Mass. giur. it., 1994; Cass., SS. UU., 20 marzo 1991, n. 2990, in Giust. civ., 1991, I, p. 2039, che ha disposto la giurisdizione del giudice ordinario per i lettori di lingua straniera in quanto il relativo rapporto è dichiarato per legge di diritto privato.

[14] L’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), infatti, è storicamente un ente pubblico non economico erogatore di servizi a carattere nazionale con personalità giuridica e autonomia di gestione; la gestione degli immobili, infatti, è realizzata dall’Istituto direttamente con la propria organizzazione e non con autonome strutture di tipo imprenditoriale, così che i dipendenti sono inseriti nell’organizzazione medesima, in tal senso cfr. Cass., SS. UU., 28 novembre 1990, n. 11459, cit. Si veda anche Cass. 8 luglio 2004, n. 12654, in Mass. giur. it., 2004, secondo cui ‹‹in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di pubbliche amministrazioni con inserimento nell’organizzazione pubblicistica dell’Ente, trovano applicazione le discipline specifiche che escludono la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche per i rapporti di lavoro privato, avendo riguardo l’art. 97 Cost. non alla natura giuridica del rapporto, ma a quella dei soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga diversamente per casi particolari, alla regola generale così individuata (…)››. In senso analogo anche Cass. 18 marzo 2004, n. 5517, in Giust. civ., 2005, I, p. 789 ss., con nota di Valente, Una conferma del divieto generale di stabilizzazione del rapporto a termine nel settore pubblico.

[15] Cfr. Cass., SS. UU., 23 giugno 1989, n. 3000, cit., che con tale motivazione ha affermato la devoluzione dei rapporti di lavoro dei dipendenti dell’Inail addetti ai servizi di portineria dei suoi stabili al giudice amministrativo.

[16] Garilli, La privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili rimedi, in Riv. giur. lav., 2007, I, p. 301 ss.; F. Carinci, La c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 1993, I, p. 8 ss.; Mezzacapo, Il contratto a termine nel lavoro pubblico: specialità, peculiarità, ambiguità, in Giur. it., 2004, p. 19; Battisti, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni, in Perone (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Torino, p. 255.

[17] Secondo Di Giacomo Russo, Il principio del pubblico concorso nella giurisprudenza costituzionale, in Ris. um., 2011, 2, p. 116, ‹‹la pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre, anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato, una connotazione peculiare, essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa››.

[18] Garilli, Flessibili e precari nelle pubbliche amministrazioni, cit., p. 111 ss.; Valente, Contratto a termine e lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Dir. lav., 2003, 5, p. 865 ss.; Roccella, Spunti sulla disciplina del lavoro temporaneo nel pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 1989, I, p. 402 ss.; De Margheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 23, 2000, p. 121 ss.; Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella “modernizzazione” del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 52, 2007; Menghini, Il contratto a tempo determinato, in F. Carinci, L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, p. 557 ss.

[19] D’Onghia, L’accesso al lavoro pubblico: procedure di reclutamento e costituzione del rapporto, in Carabelli - M.T. Carinci (a cura di), Il lavoro pubblico in Italia, Bari, 2010, p. 156; Fiorillo, Il reclutamento del personale pubblico: forme contrattuali stabili e flessibili, cit., p. 1086 ss.

[20] Corte Cost. 27 marzo 2003, n. 89, in Foro it., 2003, I, c. 2258, secondo cui il diverso regime sanzionatorio sarebbe giustificato dalla necessità del rispetto del principio di una selezione meritocratica. Sul punto v. le osservazioni critiche di Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione, cit., p. 494 ss. Secondo Fenoglio, Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego: luci ed ombre della recente riforma legislativa, in Lav. dir., 2, 2009, p. 292, «proprio la necessità di procedere all’obbligatorio esperimento di procedure concorsuali confermerebbe la non omogeneità fra il settore privato e quello pubblico, escludendo così ogni possibile violazione del principio di uguaglianza».

[21] Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione, cit., p. 493.

[22] Sul punto, in senso critico, v. De Margheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, cit., p. 123, secondo cui il concetto stesso di ruolo organico e la relativa distinzione tra impieghi di ruolo e non di ruolo ‹‹non sembrano al momento superabili in considerazione della fondamentale funzione che il ruolo organico adempie, consistente nel determinare l’effettivo fabbisogno delle pubbliche amministrazioni (…)››; v. anche Iacono, Impiego pubblico non di ruolo e rapporto di lavoro di fatto, in Lav. Dir., 1993, p. 311 ss.; Mari, Contratto a tempo determinato e rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Giorn. dir. amm., 1998, 1, p. 93 ss.

[23] Corte cost. 27 marzo 2003, n. 89, cit.; nonché, ex plurimis, Corte cost. 9 novembre 2006, n. 363, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, p. 269 ss., con nota di Z. Grandi, Il concorso pubblico quale strumento ordinario di accesso alle pubbliche amministrazioni, tra regola costituzionale e prassi; in senso critico cfr. F. Carinci, Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, in Lav. pubbl. amm., 2002, I, p. 201. Da ultimo v. Di Giacomo Russo, Il principio del pubblico concorso nella giurisprudenza costituzionale, cit., p. 99 ss., con riferimento alla sentenza della Corte Cost. 11 febbraio 2011, n. 42.

[24] Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione, cit., p. 494 s.; per le critiche all’individuazione del concorso quale discrimen tra lavoro pubblico e privato anche dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 80 del 199, cfr. Greco, La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego supera il vaglio di costituzionalità, in Lav. pubbl. amm., 2003, II, p. 358 s.

[25] Per l’opinione contraria, e cioè per la condivisibile tesi secondo cui ‹‹la necessità di rispettare l’articolo 97 della Costituzione non può dunque essere invocata per giustificare la mancata estensione al settore pubblico della conversione legale››, v. Fenoglio, Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego: luci ed ombre della recente riforma legislativa, cit., p. 296.

[26] De margheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 23, p. 133; Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione, cit., p. 498, il quale in proposito richiama come ‹‹essenziale e, al contempo, emblematico il significato normativo dell’art. 2 della legge delega n. 421/1992 (…)››; Greco, La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego supera il vaglio di costituzionalità, cit., p. 359; Mezzacapo, Profili problematici della flessibilità nel lavoro pubblico: il contratto a tempo determinato, in Lav. pubbl. amm., 3-4, 2003, p. 514.

[27] Dalla generale applicabilità del principio costituzionale di buon andamento ai rapporti di pubblico impiego discende che ogni eventuale espansione dell’organico pubblico deve dipendere dalla preventiva e condizionante valutazione delle oggettive necessità di personale per l’esercizio di pubbliche funzioni, Corte cost. 24 giugno1997, n. 191, in Giur. cost., 1997, p. 1870; Corte cost. 4 marzo 1997, n. 59, in Riv. crit. dir. lav., 1997, p. 488; Corte cost. 29 maggio 1997, n. 153, in Foro it., 1997, I, p. 3508. Secondo Cass. 3 giugno 2004, n. 10605, in Giust. civ., 2003, I, p. 3194, il fine della previsione è anche quello di garantire il risanamento della finanza locale.

[28] Corte cost. 25 luglio 1996, n. 313, in Riv. giur. lav., 1996, II, p. 369.

[29] P. Chieco, I contratti ‹‹flessibili›› della P.A. e l’inapplicabilità della sanzione ‹‹ordinaria›› della conversione, cit., p. 499.

[30] Mezzacapo, Profili problematici della flessibilità nel lavoro pubblico: il contratto a tempo determinato, in Lav. pubbl. amm., 2003, p. 514; Salomone, Contratto a termine e lavoro pubblico, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Milano, 2002, p. 275. Sul punto v. anche Greco, La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego supera il vaglio di costituzionalità, cit., p. 360 e De margheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, cit., p. 131.

[31] Clausola 4.1 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1970/99/CE; art. 6, d.lgs. n. 368/2001.

[32] Cfr. Cass. SS.UU., 15 gennaio 2010, n. 529, in Foro it., 2010, 6, 1, c. 817, secondo cui la selezione per soli titoli non rappresenta di per sé una modalità estranea alla nozione di concorso. In dottrina v. Ales, Contratti di lavoro e pubbliche amministrazioni, Torino, 2007, p. 82, secondo cui il comma 3 dell’art. 97 Cost. richiede soltanto che ‹‹la procedura sia svolta con le regole e la strumentazione idonea a consentire all’amministrazione di individuare il soggetto ideale››.

[33] In questo senso cfr. Fenoglio, Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego: luci ed ombre della recente riforma legislativa, cit., p. 297 s., secondo la quale l’estensione dell’apparato sanzionatorio della conversione al pubblico impiego sarebbe da accogliere ‹‹anche alla luce di considerazioni di carattere più prettamente economico (…)››; sostiene il ‹‹venir meno della diversità (specialità)›› dell’assunzione a termine preceduta da procedura selettiva Preteroti, Il contratto a termine nel settore pubblico tra novità legislative, primi riscontri giurisprudenziali e nuovi riscontri, in Lav. pubbl. amm., 2009, p. 1106.

[34] Si veda la complessa vicenda delle sanatorie del personale avventizio che negli anni hanno aggirato l’obbligo di assunzione in ruolo tramite concorso pubblico, su cui cfr. Garilli, La privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili rimedi, cit., p. 2; Papa, I contratti a termine nel pubblico impiego, in Dir. rel ind., 2009, p. 112 s.; Fenoglio, Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego: luci ed ombre della recente riforma legislativa, cit., p. 283 ss.; in giurisprudenza v. Corte cost. 13 novembre 2009, n. 293, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, p. 89 ss., con nota di Borrelli, La legittimità delle deroghe alla regola del concorso pubblico nelle procedure di stabilizzazione operate dalle Regioni; nonché da ultimo Corte cost. 29 aprile 2010, n. 149, Corte cost. 29 aprile 2010, n. 150, Corte cost. 4 giugno 2010, n. 195, tutte in Mass. giur. lav., 2011, p. 411 ss., con nota di Pozzaglia, Sulla centralità della regola del concorso nella pubblica amministrazione, con cui si nega la legittimità costituzionale di alcune leggi regionali che prevedevano la diretta immissione in ruolo e l’automatica progressione verticale di determinate categorie di lavoratori in deroga al pubblico concorso; e anche Corte cost. 4 aprile 2011, n. 127, a quanto consta inedita. Anche se, secondo una circolare del dipartimento della funzione pubblica(circ. Presid. Consiglio - Dipartim. Funz. pubbl. n. 5/2008), le disposizioni in materia di stabilizzazione ‹‹definiscono una procedura speciale di reclutamento che deroga rispetto alle modalità ordinarie del concorso pubblico (…)››.

[35] Corte Giust. 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu Sardino; Corte Giust. 7 settembre 2006, causa C-180/04, Vassallo; Corte giust. 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler, tutte in Riv. giur. lav., 2006, II, p. 614 ss., con nota di Gabriele, Il meccanismo sanzionatorio per l’illegittima successione di contratti a termine alle dipendenze della P.A. al vaglio della Corte di Giustizia; nonché Menghini, Il lavoro a termine nelle P.A. dopo le recenti innovazioni legislative e le sentenze della Corte di Giustizia del 2006, in Lav. pubbl. amm., 2006, p. 1105; Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. Un tassello nella modernizzazione del diritto del lavoro, in AA. VV., Diritto e libertà. Studi in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, p. 1620 ss. Secondo la Corte l’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, appare prima facie compatibile con la direttiva, ma in effetti affida al giudice dell’ordinamento interno il compito di verificare i requisiti di adeguatezza della sanzione.

[36] Trib. Siena 27 settembre 2010, cit., nonché il commento di Tatarelli, Il contratto della supplente diventa a tempo pieno se viene assunta più volte per esigenze permanenti, in Guida dir., 2010, 49-50, p. 45 ss.; Trib. Livorno 26 novembre 2010, cit.; per alcune valutazioni critiche su questa giurisprudenza v. Fiorillo, La stabilizzazione dei precari della scuola pubblica ad opera del giudice del lavoro: una soluzione che non convince, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, p. 555. Contra, ex plurimis, v. Corte d’appello di Genova 9 gennaio 2009, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, p. 133 ss., con nota di Garattoni, La violazione della disciplina sul contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni: la tutela effettiva, adeguata e dissuasiva; Corte d’appello di Brescia, 8 luglio 2010, n. 370, in Dir. rel. ind., 2011, 2, p. 470 ss.; Trib. Treviso 20 luglio 2010, in Lav. giur., 2011, p. 389 ss.; nonché Cass. 15 giugno 2010, n. 14350, in Lav. pubbl. amm., 2010, II, p. 708.

[37] In questo senso già era intervenuto l’art. 4 della l. n. 80 del 2006 introducendo il comma 4-bis all’art. 35 d.lgs. n. 165 del 2001, su cui cfr. Garilli, Flessibili e precari nelle pubbliche amministrazioni, cit., p. 122 s.; Mainardi, Piccolo requiem per la flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. A proposito della l. 9 marzo 2006, n. 80, in Lav. pubbl. amm., 2006, p. 12 ss.

[38] V. Corte giust. 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler, cit.; Corte giust. 23 aprile 2009, causa C-378-380/2007, Angelidaki e altri, secondo cui ‹‹spetta tuttavia al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’applicazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno ne fanno uno strumento adeguato a prevenire, e se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi››. Per i primi riscontri di tale orientamento nella giurisprudenza di merito v. Trib. Pisa 13 luglio 2010, in Riv. crit. dir. lav., 2011, 1, p.

[39] Per una rassegna delle varie posizioni v. Occhipinti, Il tormentato iter normativo del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, in Riv. crit. dir. lav., 2011, 1, p. 22 ss.

[40] Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte di Cassazione del 12 gennaio 2011, Relazione tematica n. 2; sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 32, commi 5, 6 e7, l. n. 183/2010, v. Menghini, I commi 5-7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010: problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, in Arg. dir. lav., 2011, p. 336 ss.; e anche De Matteis, Le ordinanze di rimessione sulla nullità del termine, in Riv. giur. lav., 2011, I, p. 97 ss.

[41] Trib. Livorno, 26 novembre 2010, cit., ha ritenuto che ‹‹quanto alla somma del risarcimento sono state adottate in giurisprudenza le più varie soluzioni, fino alla attuale legiferazione sul punto con il recente collegato lavoro›› e che ‹‹tale differenza di soluzioni pare voler eludere, per le più varie motivazioni, l’unica logica conclusione in termini di effettività e dissuasività della sanzione, ovvero la ricostruzione della carriera in termini retributivi e contributivi››.

[42] Tosi, Il contratto di lavoro a tempo determinato nel Collegato lavoro alla legge finanziaria, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, p. 473; Giubboni, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 115, 2011, p. 15 ss.

[43] Inoltre la disapplicazione è ritenuta un’extrema ratio, perché prima di disporla il giudice deve procedere ad un tentativo di interpretazione conforme, su cui v. Luminoso, Fonti comunitarie, fonti internazionali, fonti nazionali e regole di interpretazione, in Contratto e Impresa/Europa, 2009, 2, p. 659.

[44] Corte Giust. UE 19 gennaio 2010, C-555/07, Kücükdeveci c. Swedex, in Lav. giur., 2010, 11, p. 1079 ss., con commento di Cosio, La sentenza Kucukdeveci: le nuove frontiere del diritto dell’Unione Europea sul potere di disapplicazione del giudice nazionale; Corte Giust. 10 marzo 2011, C-109/09, Kumpman, in Notiz. riv. giur. lav., 2, 2011, p. 23, secondo cui ‹‹nell’applicare il diritto interno i giudici nazionali sono tenuti a interpretarlo, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi, pertanto, all’art. 288, terzo comma, TfUe››.

[45] Il concetto di adeguatezza della sanzione va valutato nel senso ‹‹di carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo››: v. par. 36, Corte di giustizia 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler, cit.; in dottrina v. le sempre attuali osservazioni di Roccella, Sanzioni e rimedi nel diritto del lavoro comunitario, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, p. 74.

[46] Condivide le argomentazioni sostenute dalla Corte di Cassazione n. 9555/2010 ed esclude che possa essere letta come una ‹‹svolta straordinaria››, Fiorillo, La stabilizzazione dei precari della scuola pubblica ad opera del giudice del lavoro: una soluzione che non convince, cit., p. 560; contra v. De Michele, L’insostenibile leggerezza della conversione del contratto a termine nel lavoro pubblico, in Lav. giur., 11, 2010, p. 1107 ss.

[47] V. sul punto le approfondite e condivisibili argomentazioni di Fiorillo, La stabilizzazione dei precari della scuola pubblica ad opera del giudice del lavoro: una soluzione che non convince, cit., p. 573 s.

[48] Sia consentito il rinvio alle osservazioni già svolte in Gabriele, Profili sanzionatori per l’utilizzo abusivo dei contratti a termine nel pubblico impiego privatizzato, in Bellavista - Garilli - Marinelli (a cura di), Il lavoro a termine dopo la legge 6 agosto 2008, n. 133, cit., p. 145 ss.; nonché più di recente cfr. Occhipinti, Il tormentato iter normativo del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, cit., p. 27 s.

[49] Da ultimo in giurisprudenza, v. Trib. Torino, 31 agosto 2011, n. 2210, in www.dirittoscolastico.it, secondo cui ‹‹la formulazione letterale del citato art. 36 d.lgs. 368/2001 è tale da non offrire una siffatta efficacia dissuasiva››.

[50] Cass. 15 giugno 2010, n. 14350, cit.