La Controriforma del lavoro (di Alberto Piccinini e Carla Ponterio)

La controriforma del lavoro di Alberto Piccinini e Carla Ponterio    

    

 1. Una controriforma incompiuta / 2. Il tentativo di conciliazione / 3. L’arbitrato / 4. La certificazione / 5. I limiti ai poteri del giudice / 6. Un nuovo sistema di decadenze. 

 

 1. Una controriforma incompiuta 

Curiosa sorte, quella del disegno di legge cd. “collegato lavoro” (non ancora approvato alla data di pubblicazione di questo articolo ma ormai praticamente definito nei suoi contenuti[1]): destinato – nonostante un lungo e travagliato iter parlamentare[2] – a passare inosservato[3] grazie all'inserimento di pochi articoli in materia di lavoro in un contesto normativo complesso, è improvvisamente finito nel marzo 2010, nell’imminenza della sua (prima) approvazione da parte del Parlamento, al centro dell’attenzione dei media, che avevano “scoperto” uno dei possibili effetti della nuova legge: la sostanziale elusione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.Argomento caldo che aveva subito conquistato le prime pagine dei giornali, divenuto prontamente una delle parole d’ordine dello sciopero generale già indetto dalla CGIL per il 12 marzo 2010, tanto da indurre le associazione datoriali e la maggior parte delle altre organizzazioni sindacali[4] –  ancor prima della promulgazione della legge – a sottoscrivere un impegno che iniziava a ridimensionarne la portata.È stata, quella, la prima “correzione” di una legge che nel lungo corso della sua approvazione ha subìto, in alcune parti, modifiche significative rispetto agli intenti iniziali di chi l’aveva elaborata, mentre altre parti sono rimaste sostanzialmente invariate, con tutta la loro potenziale pericolosità.Con la dichiarata finalità di voler ridurre un contenzioso giudiziario caratterizzato da processi eccessivamente lunghi, il disegno di legge si propone(va) di intervenire in tre momenti:a) all’inizio del rapporto, attraverso un potenziamento dell’istituto della certificazione del contratto individuale di lavoro, fino ad ora utilizzato solo per escludere la sussistenza della subordinazione. Secondo il nuovo testo dell’art. 75 del decreto legislativo n. 276/2003[5] “le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro” inserirvi clausole (ad esempio particolari “tipizzazioni di giusta causa o giustificato motivo” di licenziamento) per interpretare le quali “il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti”[6];b) nel corso o alla cessazione del rapporto, al momento in cui sorge il contenzioso, sottraendolo al giudice grazie alla possibilità di “dirottarlo” sui binari dell’arbitrato, persino con facoltà di decideresecondo equità[7]. Per rendere effettivo il ricorso alla giustizia privata un ruolo chiave viene attribuito alla clausola compromissoria[8], che vincola chi la sottoscrive a rinunciare al giudice per qualunque questione dovesse sorgere in futuro;c) davanti allo stesso giudice del lavoro. Ove non abbia esito positivo il fuoco di sbarramento costituito dal disincentivo a contrastare un contratto certificato e comunque dalla prevista devoluzione del conflitto in arbitri, e il lavoratore arrivi a depositare un ricorso in tribunale, la legge interviene anche sui poteri del giudice, cercando di limitarli.In questo contesto è intervenuto il messaggio del Presidente della Repubblica[9] che - dopo aver prudentemente atteso l’esito delle elezioni regionali - in data 31 marzo 2010 ha rinviato alle Camere il testo della legge sollevando argomentati e motivati dubbi di legittimità costituzionale[10]. Se nei due anni precedenti l’intervento del Presidente il dibattito dei giuristi sul disegno di legge era stato praticamente inesistente, nei mesi successivi sono proliferati articoli, convegni e iniziative, con puntuali critiche al testo approvato[11] che hanno in parte inciso sulle modifiche apportate in sede di riesame.Questo il risultato finale per quanto riguarda gli istituti sui quali la legge, una volta approvata, interverrà.  

2. Il tentativo di conciliazione 

La materia non ha subito modifiche dopo il rinvio alle Camere ed è quindi rimasta regolamentata dal testo originario. Il nuovo testo dell’art. 410 c.p.c. (così come modificato dall’art. 30 del disegno di legge) disciplina in modo meticoloso il contenuto della richiesta del tentativo di conciliazione, rendendolo sostanzialmente un quasi-ricorso (basti dire che è necessaria, tra l’altro, “l’esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa”) ma nello stesso tempo trasforma il tentativo da obbligatorio in facoltativo[12], senza peraltro prevedere oneri o sanzioni di sorta per il datore di lavoro che decida di non aderire al tentativo di conciliazione. Nella prassi è molto frequente – accade all’incirca nel 50% dei casi –  che il datore di lavoro convocato in Direzione provinciale del lavoro non compaia, sebbene allo stato possa partecipare al tentativo di conciliazione senza necessità di essere assistito da un avvocato e senza rischio di compromettersi, potendo limitarsi a sottoscrivere un verbale di mancato accordo.Secondo il disegno di legge, per accettare il tentativo di conciliazione il datore di lavoro dovrebbe depositare entro venti giorni dal ricevimento di copia della richiesta “una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale”. Non è dato comprendere perché mai il datore dovrebbe, senza esservi costretto, cercare e trovare un avvocato disposto a predisporre una difesa tecnica  (comprensiva di eventuale domanda riconvenzionale!) in così breve tempo, ben potendo le medesime difese essere sviluppate, con tutta calma, nel corso di un giudizio (in cui, invece, una negligenza difensiva comprometterebbe l’esito della causa)[13].Ma c’è di più: l’alta probabilità (si potrebbe dire la quasi certezza) che il datore di lavoro ignori l’eventuale richiesta del lavoratore non impedisce un ulteriore pregiudizio per quest’ultimo, quantomeno in materia di impugnazione di licenziamento. L’art. 32 del disegno di legge, infatti, nel prevedere un termine di nove mesi per il ricorso al giudice dalla data di impugnazione extra-giudiziale del licenziamento[14], riduce tale termine – “qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati” – a soli sessanta giorni “dal rifiuto o dal mancato accordo”. È questa ulteriore disposizione che renderà il tentativo di conciliazione un meccanismo inappetibile per entrambe le parti, sancendone quindi il suo prevedibile inutilizzo, salva l’ipotesi di impugnazione di un contratto certificato, per la quale il tentativo di conciliazione presso la stessa commissione  di conciliazione che ha adottato l’atto certificato resta obbligatorio.  

3. L’arbitrato 

L’investimento sulla giustizia privata è uno dei “cavalli di battaglia” della (contro)riforma per ridurre il carico di lavoro dei tribunali. Per puntare su questa carta era però necessario superare la storica diffidenza dimostrata dalle parti per l’arbitrato, persino per controversie di valore elevato: basti dire che da quando la Corte di cassazione ha precisato che nel procedimento arbitrale in materia di licenziamento, previsto dai contratti collettivi dei dirigenti, deve ritenersi automaticamente inserita nella clausola compromissoria la facoltà di ricorrere al giudice ordinario (e gli stessi CCNL hanno poi espressamente fatto salva “la facoltà di adire l’autorità giudiziaria”),pochissimi dirigenti hanno scelto di ricorrere agli arbitri. Si trattava, allora, di realizzare una sostanziale coazione del lavoratore a favore dell’arbitrato facendo in modo, tuttavia, che la scelta apparisse formalmente volontaria. Lo strumento individuato è stato quello della clausola compromissoria inserita nel contratto di assunzione certificato (previa previsione e regolamentazione da parte di accordi interconfederali o contratti collettivi) per vincolare il dipendente alla “scelta” arbitrale in occasione di un eventuale futuro contenzioso[15]. Con facoltà per gli arbitri – se autorizzati dalle parti – a decidere secondo equità, e quindi senza essere vincolati alle norme di legge o di contratto collettivo[16].Nella versione originaria del disegno di legge, non era prevista l’assistenza del lavoratore da parte di un professionista o di un sindacalista e il lodo non era impugnabile se non per invalidità o violazione della convenzione arbitrale, eccesso di mandato, nomina degli arbitri in difformità della convenzione, incapacità legale degli arbitri, violazione del principio del contraddittorio (art. 808 ter comma 2 c.p.c). L’arbitrato “irrituale” è infatti considerato un “lodo contrattuale”, come un accordo di natura transattiva sottoscritto direttamente dalle parti, e con questa argomentazione si giustificava la non impugnabilità per violazione delle regole di diritto e collettive relative al merito della controversia[17].  Le numerose e qualificate critiche a una simile impostazione[18] hanno comportato che la Camera in quinta lettura abbia approvato alcune modifiche, poi integrate e ulteriormente modificate dal Senato in sesta lettura. Questo il risultato finale:a) “la clausola compromissoria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi”;b) “la clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro”[19];c) in caso di mancata previsione delle clausole compromissorie da parte della contrattazione collettiva entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge non interviene più, automaticamente, un decreto ministeriale, ma “il Ministero del lavoro e delle politiche sociali convoca le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative al fine di promuovere l’accordo” e solo in caso di mancata stipulazione nei sei mesi successivi “individua in via sperimentale, fatta salva la possibilità di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi”, le modalità di attuazione e piena operatività delle disposizioni previste;   d) “davanti alla commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante dell’organizzazione sindacale o professionale a cui abbiano conferito mandato”;e) la richiesta agli arbitri di decidere secondo equità deve prevedere un richiamo al rispetto, oltre che dei princìpi generali dell’ordinamento, “dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”;f) è specificato che “sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale  irrituale, ai sensi dell’art. 808-ter, decide in unico grado il tribunale, in funzione del giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato”.La novità più significativa introdotta dalla Camera in quinta lettura era stata la previsione che “le commissioni di certificazione accertano la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversieinsorte (e non, quindi, quelle che dovessero insorgere; n.d.r.)  in relazione al rapporto di lavoro”[20]. Peraltro al Senato in sesta lettura la maggioranza ha voluto ripristinare il vecchio testo, con un settimo passaggio alla Camera per vincolare le parti anche sui contenziosi futuri. È questo, a parere di chi scrive, l’aspetto più ipocrita e arrogante della legge, che la dice lunga su quanto si voglia salvaguardare la effettiva volontà di scelta del lavoratore. In realtà si dimostra una pervicace volontà di vincolarlo a una (potenzialmente) falsa decisione, precludendo ogni verifica della sua vera volontà di rivolgersi o meno al giudice, con buona pace dei principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 25. E su questa delicatissima questione non può certo dirsi che si sia ascoltato il messaggio del Presidente laddove, nell’evidenziare in numerosi passaggi lo squilibrio dei rapporti di forza tra i due soggetti del contratto di lavoro, si era soffermato sulla necessità di tutela del “contraente debole”, proprio con particolare riguardo alla “effettiva volontarietà” nella scelta della procedura arbitrale da parte del lavoratore, in alternativa allo strumento di tutela giudiziale.Qualche cosa, comunque, è cambiato dopo il nuovo passaggio alle Camere. Tra le novità più rilevanti ci sono certamente quella relativa all’impossibilità di stipulare la clausola compromissoria all’inizio del rapporto, prima, cioè, del superamento della prova, e quella sull’impossibilità, per legge, che detta clausola riguardi la risoluzione del rapporto, e quindi anche l’art. 18 della legge n. 300/70. Ma a ben vedere si tratta di modifiche di poco conto, considerando che il “contraente debole” che il messaggio del Presidente avrebbe voluto tutelare non è meno debole una volta superato il periodo di prova, specie in tutte quelle realtà, che sono la maggioranza dei luoghi di lavoro, con meno di 16 dipendenti e nelle quali non trova applicazione l’articolo 18. Possono quindi tranquillizzarsi i giuristi filo-governativi scesi in campo per contrastare le molteplici iniziative critiche[21]: le integrazioni sono di facciata e non hanno mutato nella sostanza un progetto che ambirebbe a sottrarre al giudice del lavoro gran parte del contenzioso.Questo significa che l’arbitrato finalmente decollerà?Occorre distinguere tra i tre diversi tipi di arbitrato previsti dalla legge, fermo restando che se la clausola compromissoria avrà lo sviluppo auspicato di “incastrare” il lavoratore contro la sua volontà, salvi i rilievi di costituzionalità sollevati dal Presidente della Repubblica e tutt’ora validi, la risposta potrebbe essere pericolosamente affermativa.A) È improbabile che possa decollare la procedura arbitrale inserita nel procedimento di conciliazione[22], per le ragioni già esposte a proposito di questo istituto.B) È altrettanto improbabile che, ove venisse effettivamente garantita - come i sostenitori dell’arbitrato continuano ad affermare - l’effettiva volontà di scelta del lavoratore, possa funzionare il cd. “arbitrato classico”[23], oltre che per le minori garanzie che la giustizia privata fornisce rispetto a quella pubblica per l’acquisizione delle prove e per la qualità tecnica della decisione (salvo quanto si dirà in seguito), per due semplici ragioni:a) la prima riguarda i costi dell’arbitrato. Secondo l’ultimo comma dell’art. 31 “dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Va allora considerato che, oltre ai due avvocati (i cui onorari sono liquidati dal giudice con sentenza e dagli arbitri con il lodo, applicando i medesimi articoli del codice di procedura: art. 91 primo comma e 92),  è previsto il compenso del presidente del collegio (che entrambe le parti devono versare “con assegni circolari almeno cinque giorni prima dell’udienza”) e il compenso di ciascun arbitro di parte. V’è quindi un costo aggiuntivo rispetto al percorso giudiziario: se esso sarà poco elevato non incentiverà professionisti qualificati a candidarsi come arbitri, mentre in caso contrario disincentiverà gli utenti, timorosi di eccessivi esborsi, specie se il valore della controversia non è alto;b) la seconda è che, per quanto si sia cercato di coartare il lavoratore, il meccanismo è imperfetto  nel passaggio della scelta del presidente in caso di mancato accordo sul suo nominativo: è infatti previsto che la nomina da parte del presidente del locale tribunale possa avvenire solo su richiesta della “parte che ha presentato il ricorso”. Se, quindi - in ipotesi in cui non sia stata sottoscritta una clausola compromissoria -  l’arbitro nominato dal lavoratore (che è generalmente colui che rivendica un diritto e quindi propone l’azione) non è soddisfatto del nominativo proposto dall’altro arbitro, potrà limitarsi a non richiedere la nomina da parte del tribunale per far saltare l’arbitrato.C) Resta un’incognita lo sviluppo che potrà avere l’arbitrato “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative[24]”: la sua sorte dipenderà dalle scelte che faranno le organizzazioni sindacali, avendo le  parti sociali dodici mesi di tempo dall’entrata in vigore della legge per disciplinare la materia. È possibile costituire camere arbitrali stabili presso le commissioni di certificazione, presso gli enti bilaterali. È anche prevista l’eventualità che i contratti collettivi finanzino con un fondo “il rimborso al lavoratore delle spese per il compenso del presidente del collegio e del proprio arbitro di parte”. Se le organizzazioni sindacali non si presteranno al gioco di quanti vorrebbero imporre al lavoratore l’arbitrato anche contro la sua volontà (prova ne sia l’accanimento con cui si è voluto sopprimere, nel passaggio al Senato  in sesta lettura, “l’emendamento Damiano”) si può anche convenire che per certe materie, forse, la competenza tecnica di giudici e avvocati potrebbe passare in secondo piano[25]. Nessuna sostanziale modifica, infine, è intervenuta sull’impugnabilità del lodo, rimasta limitata ai motivi di cui all’art. 808 ter c.p.c., senza possibilità di riesame del merito della questione.  

4. La certificazione 

Le sedi presso cui è possibile la certificazione dei contratti sono numerose[26]. Ma se fino ad ora esse hanno avuto una scarsa funzione (limitandosi a poter accertare la natura subordinata o meno di un contratto, e potendo sempre il giudice ignorare il contratto certificato in ipotesi di successiva attuazione difforme dello stesso[27]) questa poco controllata proliferazione delle sedi, unita da un lato all’allargamento delle materie di possibile certificazione e dall’altro ai (pretesi) limitati poteri del giudice in materia, costituisce una miscela veramente esplosiva. Al dichiarato  “fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro”, è stata estesa la possibilità di certificare contratti di qualunque tipo che facciano riferimento a prestazioni lavorative: secondo  il quarto comma dell’art. 30, infatti, “le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia stata dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro secondo la procedura volontaria stabilita nel presente titolo”. Ma, invero, è proprio sulla reale “volontarietà” di tale procedura che permangono i maggiori dubbi, in considerazione del più volte rimarcato squilibrio di potere tra le parti che sottoscrivono un contratto di lavoro. La certificazione – nella sostanza – si propone alla stessa stregua di una conciliazione solenne qual è quella sottoscritta davanti al giudice, alla Direzione provinciale del lavoro o in sede sindacale. È un’anticipazione di quella, o meglio la sua negazione, nel senso che tende ad evitare il conflitto stesso che potrebbe portare a un giudizio (o a una transazione) risolvendolo anticipatamente: resta da vedere con quale livello di volontà e consapevolezza del lavoratore.L’istituto della certificazione è rimasto immutato dopo il messaggio del Presidente della Repubblica per quanto, a ben vedere, proprio nei suoi confronti era perfettamente calzante l’osservazione sull’attuazione di una “incisiva modifica della disciplina sostanziale del rapporto di lavoro”  basata su “istituti processuali piuttosto e prima che su quelli sostanziali”. Si è detto, infatti, che il contratto individuale certificato potrebbe astrattamente contenere clausole peggiorative rispetto alla contrattazione collettiva (ad esempio in materia di orario di lavoro, part-time, ferie, permessi, durata del patto di prova, eccetera). Poiché il nuovo testo normativo non interviene sulle fonti, apparentemente restano ferme le disposizioni di cui all’art. 2077 cod. civ. (e, per quanto riguarda la materia dei licenziamenti, di cui all’art. 12 della legge n. 604/66) che garantiscono la salvezza della clausole collettive di miglior favore rispetto a quelle individuali. Ma l’insidia è altrove, e in particolare nella norma relativa ai poteri del giudice. Grazie all’ampliamento del contenuto della certificazione, le parti possono non limitarsi a qualificare il tipo di contratto, potendo anche dettarne la disciplina attraverso una previsione delle singole clausole. Ebbene, il secondo comma dell’art. 30 stabilisce che “nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle singole clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione”.La modifica introdotta dal disegno di legge attraverso il (preteso) divieto per l’autorità giudiziaria di espletare fino in fondo i propri poteri anche nell’interpretazione delle singole clausole contrattuali non trova il limite che, di fatto, ha reso innocua la certificazione del presunti contratti autonomi o a progetto: in quel caso era sufficiente riscontrare una “difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione” attraverso quell’accertamento sulla effettiva sostanza del rapporto che costituisce l’essenza del diritto del lavoro. Il giudice sarebbe ora “vincolato” all’interpretazione che le parti hanno dato delle singole clausole e la sua possibilità di intervento sarebbe limitata all’accertamento di fatto sulla concreta subordinazione e/o autonomia del rapporto[28].Il nodo del problema è qui: si certifica il contratto di lavoro, quando in realtà si vorrebbe certificare il rapporto di lavoro. Ma mentre nel primo caso si fa una valutazione di scienza, nel secondo si certifica un fatto.Un’ultima considerazione va svolta relativamente alla certificazione dei contratti di appalto. Ipotizziamo che si voglia certificare un contratto di appalto che nasconda, nella sostanza, una somministrazione illecita. Le due parti (i due imprenditori), avranno tutto l’interesse a non mostrare alla Commissione di Certificazione la vera natura del contratto dissimulato. Ma non è previsto che soggetti apparentemente terzi (quali i lavoratori o l’INPS) possano o debbano intervenire nella stipula di un contratto che si vorrebbe “inattaccabile”, che fa stato nei confronti di terzi. Nessuna reale garanzia rispetto a possibili abusi viene quindi data dalla “valutazione delle parti” che può benissimo non corrispondere alla realtà di fatto, ma sulla quale si vorrebbe impedire il controllo giudiziale, dopo che è già stato impedito il controllo da parte degli organi ispettivi del ministero[29].   

5. I limiti ai poteri del giudice 

Per l’ipotesi in cui i vari meccanismi di certificazione, conciliazione e arbitrato non consentissero di evitare il ricorso giurisdizionale, il disegno di legge si premura di intervenire a limitare i poteri del giudice.L’art. 30 prevede che, in tutti i casi in cui le disposizioni di legge nelle materie lavoristiche contengano clausole generali, il controllo giudiziale sia limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non possa essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.La norma è di difficile lettura. Anzitutto per il linguaggio adoperato, non proprio coerente rispetto ai canoni di redazione delle leggi, come nella parte in cui, nella originaria versione, imponeva al giudice, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, di “tener conto (…) delle fondamentali regole del vivere civile e dell’oggettivo interesse dell’organizzazione”. Inoltre, per la difficoltà di cogliere l’assetto dei diritti cui tale disposizione mira. Dai lavori parlamentari si ricava che scopo del disegno di legge è quello di impedire che attraverso le norme generali possa realizzarsi un controllo dei giudici sulle scelte datoriali e di evitare, inoltre, l’incertezza delle norme che deriverebbe dalle diverse possibili interpretazioni giurisprudenziali. Esigenze avvertite anche da una parte della dottrina, che ha visto nel disegno di legge una buona svolta per il diritto del lavoro poiché “sono proprio le norme a precetto generico a veicolare quella esiziale incertezza inevitabilmente derivante dall’apprezzamento discrezionale del singolo magistrato”[30]. Nella relazione sul disegno di legge l’on. Cazzola ha spiegato che: “il passaggio da disposizioni formaliste e rigide a norme con finalità antifraudolenta (…) richiede che il controllo del giudice non si estenda alla valutazione della opportunità delle scelte datoriali. Ove ciò avvenisse sarebbe violato il principio di libertà di iniziativa economica e la norma diverrebbe fonte di incertezza, in quanto suscettibile di valutazioni sul merito della scelta imprenditoriale, valutazioni soggettive in quanto tali[31].Le affermazioni dell’on. Cazzola poggiano su un duplice equivoco e rivelano una certa confusione. Il primo equivoco è generato dalla finalità, attribuita all’art. 30 comma 1, di impedire che attraverso le norme generali la valutazione dei giudici possa investire la bontà e l’opportunità delle scelte datoriali. Il secondo equivoco riguarda la pretesa di tenere rigorosamente separati, nell’attuale assetto normativo e in presenza di clausole generali, i presupposti di legittimità e le valutazioni datoriali, quasi si trattasse di settori incomunicabili, l’uno riservato al potere giurisdizionale l’altro al potere esclusivo del datore di lavoro.Sulla materia delle norme elastiche o clausole generali occorrono alcune  precisazioni ed un maggiore approfondimento.Le norme elastiche, come quelle in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, contratto a termine ecc., sono norme attraverso cui il legislatore delega al giudice una scelta assiologia in quanto il loro contenuto elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa[32]. Il giudice, interpretando e applicando una norma elastica, “compie un’attività di integrazione giuridica, e non meramente fattuale, della norma (…) in quanto dà concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla a un determinato contesto storico-sociale”[33]. Il giudizio valutativo, e quindi di  integrazione giuridica, del giudice di merito, che è suscettibile di sindacato dinanzi alla Corte di cassazione sotto il profilo della falsa applicazione di legge, “deve (…) conformarsi, oltre che ai principi dell’ordinamento (…) anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, e in materia di rapporti di lavoro, la cd. civiltà del lavoro”[34]. In presenza di norme elastiche o clausole generali, il giudice svolge una funzione integrativa delle regole giuridiche, contribuendo a definirne il contenuto ed i limiti.Di conseguenza, affermare, come fa l’art. 30, che in presenza di clausole generali – per esempio, giusta causa o giustificato motivo di licenziamento – il giudice debba limitarsi ad accertare il presupposto di legittimità senza sindacare le scelte datoriali è una contraddizione in termini perché presupposti di legittimità del recesso sono la giusta causa o il giustificato motivo, parametri generali il cui contenuto deve essere appunto riempito attraverso l’attività di integrazione giuridica demandata al giudice di merito.È evidente allora come il problema, dal punto di vista del ruolo della giurisdizione, non sia il sindacato di merito sulle scelte datoriali bensì l’individuazione dei presupposti di legittimità.Ad esempio, a seconda che nel giudizio valutativo si consideri la riorganizzazione imprenditoriale finalizzata al mero risparmio di costi o all’incremento di profitto conforme o meno ai principi dell’ordinamento e agli standards di civiltà del lavoro, risulteranno integrati o non integrati i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Le divergenze giurisprudenziali, difatti, si sono create proprio sul diverso contenuto dei presupposti di legittimità[35] e in nessuna pronuncia si dubita della insindacabilità del merito delle scelte imprenditoriali, nel convincimento che comunque tale insindacabilità non sia “di ostacolo alla verifica in concreto da parte del giudice della effettività della scelta operata dall’imprenditore, della non pretestuosità della stessa e della non mera strumentalità della medesima soltanto ad un incremento di profitto”[36].Interpretato alla luce dei principi generali dell’ordinamento, proprio quelli ripetutamente richiamati dal disegno di legge, l’art. 30 comma 1 appare norma assolutamente inutile, incapace di produrre qualsiasi effetto giuridico, di incidere sulle opzioni interpretative esistenti e di ridurre ad unità le differenti voci giurisprudenziali.Gli obiettivi enunciati dal relatore al disegno di legge potrebbero realizzarsi solo se si leggesse l’art. 30 come volto a precludere al giudice qualsiasi sindacato, non solo sulla bontà e opportunità delle scelte datoriali, ma anche sulla conformità delle stesse ai principi dell’ordinamento e agli standards di civiltà del lavoro, cioè quel sindacato strettamente funzionale alla individuazione dei presupposti di legittimità. Si dovrebbe, in altre parole, ritagliare per il giudice una interpretazione meramente formalistica, volta a prendere atto delle scelte datoriali, espressione della libertà di iniziativa economica, ed incasellarle, cioè semplicemente sussumerle tal quali, previa solo una valutazione di veridicità e non pretestuosità, nelle nozioni di giusta causa, giustificato motivo, ragioni produttive, ragioni organizzative ecc..  Non è da escludere, secondo alcuni commentatori, “che lo scopo vero di coloro che hanno voluto introdurre la previsione sia quello di eliminare la giustificazione dell’atto datoriale richiesta dalla legge, trasformandola da giustificazione oggettiva, esterna al soggetto agente, in giustificazione soggettiva, interna al suo volere, così da ricondurre l’atto in realtà a provvedimento arbitrario ad nutum”[37]. Ma una simile interpretazione dell’art. 30 non sarebbe compatibile con i principi generali dell’ordinamento, non potendosi degradare le ragioni richieste per il licenziamento per motivi economici, per la legittima apposizione del termine, per il trasferimento, a mere preferenze soggettive dell’imprenditore, con conseguente svuotamento della disciplina limitativa della libertà di recesso, del carattere di eccezione del contratto a termine, del complessivo sistema di tutela del lavoro intriso di norme inderogabili.Opportunamente l’art. 30 è stato definito una norma manifesto, una norma probabilmente priva di impatto pratico ma attraverso cui il legislatore  ha cercato di enunciare e di imporre un diverso ordine di valori, di sovvertire, secondo una metodica spesso utilizzata dall’attuale maggioranza parlamentare, le priorità consolidate e gli equilibri esistenti, ispirati ai principi costituzionali. Non può essere privo di significato il fatto che, nella sua relazione, l’on. Cazzola abbia richiamato la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 comma 1 della Costituzione e omesso qualsiasi riferimento ai limiti che il comma 2 pone a quella libertà, in nome della utilità sociale, della sicurezza, libertà e dignità umana.Vi è poi un’ulteriore anomalia che risalta dall’esame dell’art. 30 comma 1 e riguarda la tecnica adoperata.Nonostante la contrarietà manifestata per norme e clausole generali, suscettibili di differenti interpretazioni e quindi fonte di incertezza del diritto, il legislatore finisce per introdurre, non si sa con quanta consapevolezza, un’altra norma generale con cui stabilisce che il sindacato del giudice sulle norme generali debba limitarsi alla verifica dei presupposti di legittimità senza estendersi al sindacato di merito sulle valutazioni datoriali. Non può tacersi come tale previsione rischi di creare un contenzioso in qualche modo anomalo, incentrato non sull’esistenza dei presupposti di legittimità del recesso o di altri provvedimenti datoriali, bensì sui limiti di esercizio della giurisdizione, cioè sul rispetto da parte del giudice del confine rappresentato dal divieto di sindacato di merito sulle scelte del datore di lavoro.Il comma 3 dell’art. 30 impone al giudice di tener conto, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo inserite nei contratti collettivi, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ed anche nei contratti individuali certificati.Mentre la prima parte della disposizione esprime un’opzione assolutamente pacifica, che deve ritenersi tuttora soggetta al limite imposto dall’art. 12 legge n. 604/1966, la seconda parte introduce una indubbia innovazione. Lavoratore e datore di lavoro potranno individuare di comune accordo ipotesi di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, non è specificato se solo in melius rispetto alle previsioni dei contratti collettivi. Tale accordo potrà intervenire all’atto di stipulazione del contratto, momento in cui massima è la debolezza del lavoratore, come sottolineato a chiare lettere anche dal Presidente della Repubblica nel messaggio ex art. 74 della Costituzione, con l’unica garanzia rappresentata dall’assistenza e consulenza delle commissioni di certificazione, garanzia, si legge sempre nel citato messaggio, “che (…) non appare sufficiente perché tali organi, anche a prescindere dalle incertezze sull’ambito dei relativi poteri, che scontano più generali difficoltà di –acclimatamento- dell’istituto, non potrebbero che prendere atto della volontà dichiarata dal lavoratore, una volta che sia stata confermata in una fase che è pur sempre costitutiva del rapporto e nella quale permane pertanto un’ovvia condizione di debolezza”. Resta inoltre il dubbio di come la previsione, nel contratto individuale, di fattispecie risolutive possa conciliarsi con i principi di inderogabilità propri del diritto del lavoro e, in particolare, con la oggettività dei motivi di licenziamento, materia non nella disponibilità delle parti.L’incapacità di questo legislatore di tener conto anche delle esigenze di tutela del lavoratore è probabilmente alla base del riferimento al solo licenziamento e non alle dimissioni, che pure potrebbero avvenire per una giusta causa concordata.  

6. Un nuovo sistema di decadenze 

L’art. 32 introduce una serie di radicali innovazioni di diritto sostanziale, e ciò a dispetto del titolo del disegno di legge che contiene un riferimento solo alle controversie di lavoro, quindi agli aspetti processuali.Anche su tale disposizione è utile richiamare le parole del relatore on. Cazzola, riferite alla originaria versione: “per quanto riguarda la norma sulle decadenze, lo stesso progetto di legge elaborato dalla Commissione Foglia e anche il disegno di legge proposto la scorsa legislatura dai senatori dell'allora maggioranza Salvi e Treu prevedevano una disposizione del tutto analoga a quella introdotta dal disegno di legge n. 1441-quater. La norma, in realtà, dilata il termine di decadenza per la impugnazione del licenziamento, dagli attuali 60 giorni a 120 giorni. Al contempo, tuttavia, stabilisce che essa debba essere fatta con atto giudiziale. Il che vuol dire che il lavoratore non può tenere in sospeso il datore di lavoro per un tempo illimitato. Chi lamenta la illegittimità del comportamento datoriale (non solo in caso di licenziamento, ma anche in caso di apposizione del termine, di trasferimento, di recesso nelle collaborazioni a progetto) deve decidersi: o propone la causa entro 120 giorni, oppure non la propone più”.È vero, sia il progetto Salvi-Treu che il progetto Foglia prevedevano un termine di decadenza per il ricorso giudiziale in caso di licenziamento ma, oltre a questo, anche una corsia preferenziale per la rapida trattazione e soluzione delle relative controversie, con una fase di cognizione sommaria. Ma il disegno di legge 1441 quater ha estrapolato dai precedenti progetti solo l’introduzione del termine di decadenza, senza preoccuparsi di intervenire sui tempi del processo.La finalità è esplicitata dal relatore: non si vuole tenere in sospeso il datore di lavoro per troppo tempo e ciò basta, evidentemente, a giustificare la compressione dei termini a disposizione del lavoratore. Questi, in caso di licenziamento, avrà almeno due termini da rispettare: 60 giorni, a pena di decadenza, per l’impugnativa in via stragiudiziale, ed i successivi nove mesi[38], a pena di inefficacia, per il deposito del ricorso (termini che diventano tre in caso di richiesta di conciliazione ed arbitrato non accolta).È stabilito che il doppio termine, ora dettato dall’art. 6 commi 1 e 2 legge n. 604/1966 opportunamente modificato, si applichi in tutti i casi di invalidità e inefficacia del licenziamento, quindi, ad esempio, al licenziamento nullo per causa di matrimonio, perché intimato in violazione delle norme a tutela della maternità o discriminatorio.La lettera dell’art. 32 porterebbe a ritenere incluso nella nuova disciplina anche il licenziamento orale ma non si comprende come, riguardo ad esso, in mancanza di una comunicazione scritta, possa decorrere il termine di decadenza per l’impugnativa stragiudiziale (divenuto, nella sesta lettura al Senato, di tre mesi).Nei commi 3 e seguenti l’art. 32 estende il sistema di decadenze a una serie assai variegata di ipotesi, senza peraltro modificare la disciplina dettata dai vari testi normativi. Più esattamente, si prevede che il regime di cui all’art. 6 commi 1 e 2 legge n. 604/1966, come modificato, si applichi ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro o alla legittimità del termine apposto al contratto, quindi a tutti casi in cui il rapporto sia formalmente etichettato come autonomo, di appalto o subappalto, parasubordinato, a progetto o a termine, oppure si tratti di lavoro nero, con conseguente qualificazione come licenziamento dell’atto che pone fine ai rapporti medesimi.Con riferimento al lavoro parasubordinato, il disegno di legge sembra attuare un processo inverso a quello che, a partire dagli anni Settanta, aveva portato all’estensione ai lavoratori parasubordinati di alcune garanzie, prima procedimentali e poi sostanziali, previste per il lavoro subordinato.Il sistema delle decadenze dovrà inoltre applicarsi al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, al trasferimento del lavoratore, all’azione di nullità del termine, alla cessione del contratto di lavoro e all’ipotesi di somministrazione irregolare, anche se non è chiaramente individuabile nelle varie fattispecie il dies a quo ai fin del decorso del termine.Difficile non cogliere le difficoltà che una simile disciplina crea per la concreta tutela dei diritti dei lavoratori.È noto come il ricorso illegittimo a forme di lavoro atipico sia caratterizzato dalla proroga o reiterazione dei contratti, al fine di soddisfare esigenze aziendali che sovente hanno carattere stabile e permanente. L’introduzione generalizzata di termini di decadenza e inefficacia per qualsiasi atto di recesso o di cessazione del rapporto mette il lavoratore in una delicata condizione, nell’alternativa cioè di rinunciare all’impugnativa nella speranza di un rinnovo del contratto o di agire in giudizio rinunciando alla prospettiva di poter continuare a lavorare. Nello stesso tempo, mette in mano a datori di lavori e committenti strumenti subdoli, potendo essi giocare su facili promesse di rinnovo dei contratti al fine di far decorrere inutilmente il termine a disposizione del lavoratore.La disciplina dell’art. 32, in contrasto con un orientamento giurisprudenziale ampiamente consolidato, fa decorrere il termine di decadenza in costanza di rapporto di lavoro, anche laddove, come in ipotesi di illegittimo ricorso a forme atipiche, difetti la garanzia della stabilità reale, esponendosi a vizi di illegittimità per violazione dell’art. 24 della Costituzione. Non solo, essa si presenta anche come norma assolutamente iniqua, contraria quindi all’art. 3 della Costituzione, laddove introduce solo per i lavoratori  termini di decadenza non previsti nella stessa misura per nessuna altra ipotesi di impugnazione di contratti invalidi[39]. Il disegno di legge non rinuncia a soccorrere in particolare i datori di lavoro che abbiano abusato dei contratti a termine, aggiungendo al sistema di decadenze ulteriori e più vantaggiose previsioni. Anzitutto, l’art. 32 comma 4 dispone che le decadenze trovino applicazione anche ai contratti a termine in corso di esecuzione o già conclusi alla data di entrata in vigore della legge, con decorrenza nel primo caso dalla scadenza del termine e nel secondo dalla medesima data di entrata in vigore della legge. Di specifico rilievo negativo, come è stato sottolineato, appare quest’ultima disposizione (art. 32, comma 4, lett. b) con cui “si vorrebbe fare una ablazione generalizzata dei diritti di centinaia di migliaia (e forse di milioni) di lavoratori nel ridottissimo termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge stessa. In un colpo solo i lavoratori precari italiani perderebbero ogni (…) possibilità di agire giudizialmente, e ciò, fra l’altro, senza alcuna informazione di massa”[40]. Insomma, una specie di sanatoria che, decorsi sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, farebbe tirare un sospiro di sollievo a tanti datori di lavoro grazie alla definitiva compressione dei diritti dei lavoratori per scadenza dei termini.Il disegno di legge riprova a inserire un’altra norma, sempre a favore dei datori di lavoro, analoga a quella di cui all’art. 21 del decreto legge n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, che aveva introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l’art. 4 bis, norma poi dichiarata incostituzionale con sentenza Corte cost. n. 314/2009. L’art. 32 comma 5 prevede, per i casi di illegittima apposizione del termine, e in contrasto con un’interpretazione giurisprudenziale unanime e consolidata, una forfettizzazione del risarcimento dei danni in misura pari a una indennità compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Anche in tal caso, non può non rilevarsi l’assoluta iniquità della norma che riconosce al lavoratore non un integrale risarcimento ma solo un indennizzo forfettizzato, secondo criteri mutuati dal licenziamento in tutela obbligatoria, a prescindere dalle dimensioni della società datoriale, e pure partendo dal presupposto della acclarata illegittimità della condotta datoriale.Le finalità dell’art. 32 si leggono chiaramente tra le righe delle disposizioni: arginare le conseguenze negative della condotta datoriale illegittima nell’interesse del medesimo datore di lavoro e a scapito delle tutele del lavoratore, ridimensionate senza alcuna giustificazione.Così il fattore tempo, da un lato viene compresso a danno del lavoratore a cui si impongono termini di decadenza e inefficacia per l’impugnativa di ogni forma di recesso e di cessazione del rapporto di lavoro, dall’altro viene compresso a favore del datore di lavoro, limitandosi il risarcimento dal medesimo dovuto in caso di illegittima apposizione del termine in modo che la durata del processo non vada a scapito del datore che ha torto.Lo stravolgimento dei principi basilari del processo e il contrasto con gli articoli 3, 4, 24, 36 della Costituzione è fin troppo palese così come appare fortemente dubbia la compatibilità della disciplina sul contratto a termine con la direttiva 99/70/CE.Ma la preoccupazione di proteggere i datori di lavoro non ha avuto freni, traducendosi in una specie di accanimento punitivo nei confronti dei lavoratori.Espressione di questo atteggiamento sono gli articoli 32 comma 6 e 50 del disegno di legge. L’art. 32 comma 6 dimezza il risarcimento, già forfettizzato, spettante al lavoratore illegittimamente assunto a termine, “in presenza di contratti ovvero accordi collettivi (…) che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie”. Il risarcimento già forfettizzato viene ulteriormente ridotto ove sia stata offerta ai lavoratori, dopo lo sfruttamento con illegittimi contratti a termine, la possibilità di essere inseriti in una graduatoria in vista di una assunzione anche a tempo indeterminato.Ed è sempre la generosa offerta di assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, fatta dal datore entro il 30 agosto 2008 e anche dopo l’entrata in vigore della legge, che nell’art. 50 giustifica, in ipotesi di accertata illegittimità del contratto a progetto, di forfettizzare il risarcimento del danno spettante al lavoratore.Muovendosi in un’ottica esclusivamente imprenditoriale, di smaccato favore per le esigenze aziendali, il disegno di legge prova a concedere ai datori di lavori agevolazioni, sanatorie ed ausili di vario genere, creando fortissime tensioni con i principi generali dell’ordinamento e trascurando i diritti dei lavoratori, l’inderogabilità delle relative norme, la dignità stessa del lavoro.Non solo, da alcuni articoli del disegno di legge traspare un netto sfavore nei confronti dei lavoratori, quasi un fastidio per la rete di tutela esistente e per la pretesa degli stessi di avvalersene. Esattamente il contrario di quello che il relatore on. Cazzola aveva sostenuto: “le scelte compiute sono espressione della volontà del Governo e della maggioranza di meglio tutelare i diritti dei lavoratori, per nulla garantiti dalla attuale situazione della giustizia del lavoro”.  


[1] Esigenze di stampa impongono la pubblicazione del presente articolo nel “passaggio” dal Senato (in sesta lettura) alla Camera (in settima lettura). Ci scusiamo pertanto di eventuali imprecisioni dovute a ulteriori modifiche del testo. 

[2] Come evidenziato nel messaggio del Presidente della Repubblica del 31.3.2010 “il testo, che all’origine constava di 9 articoli e 39 commi e già interveniva in settori diversi, si è trasformato in una legge molto complessa, composta da 50 articoli e 140 commi riferiti alle materie più disparate”.

[3] Nonostante l’apparente disinteresse dell’opinione pubblica sino alla vigilia della sua prima approvazione da parte del Parlamento (3 marzo 2010), alcuni tra gli “addetti ai lavori” avevano avuto occasione di allarmarsi per tempo: in particolare l’associazione Avvocati Giuslavoristi Italiani AGI sin dal dicembre 2008 aveva chiesto ed ottenuto un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato per esternare perplessità in merito a numerosi punti del disegno di legge; nel dicembre 2009 aveva scritto ai deputati suggerendo specifiche modifiche; il 18 gennaio 2010 aveva organizzato un convegno presso il CNEL nel quale si erano espresse le critiche di autorevoli giuristi .

[4] Con accordo dell’11 marzo 2010 alcune organizzazioni sindacali dei lavoratori (Cgil esclusa) e dei datori di lavoro si erano impegnate a definire con accordi interconfederali l’esclusione della materia della risoluzione del rapporto dalle clausole compromissorie.

[5] Così come modificato dall’art. 30 comma 4 del disegno di legge.

[6] Art. 30 commi 2 e 3.

[7] Tale disposizione, nel testo originario, era destinata a divenire pienamente operativa con decreto del Ministero del lavoro dopo 12 mesi dalla promulgazione della legge nell’ipotesi in cui in questo arco di tempo non fossero intervenuti accordi interconfederali o contratti collettivi a pattuire le clausole compromissorie.

[8] Tale disposizione, nel testo originario, era destinata a divenire pienamente operativa con decreto del Ministero del lavoro dopo 12 mesi dalla promulgazione della legge nell’ipotesi in cui in questo arco di tempo non fossero intervenuti accordi interconfederali o contratti collettivi a pattuire le clausole compromissorie.

[9] Vedi nota 2.

[10] Ci piace credere che abbiano influito, sulle decisioni presidenziali, le voci che - in quelle settimane di attesa della promulgazione - hanno cercato di risvegliare l’opposizione politica dal torpore che l’aveva caratterizzata fino a quel momento; tra esse, in particolare, l’inserzione a pagamento uscita su un’intera pagina de L’Unità proprio il 30 marzo 2010 a cura dell’Associazione per i diritti sociali e di cittadinanza (affiliata al CRS) dal titolo I profili di illegittimità costituzionale della recente riforma della giustizia del lavoro a firma del Presidente Sergio Mattone.

[11] Tra queste merita di essere segnalato l’appello di giuristi (tra i primi firmatari Luigi Montuschi, Valerio  Onida, Carlo Smuraglia, Sergio Mattone,  Andrea Proto Pisani, Stefano Merlini, Luciano Gallino, Piergiovanni Alleva) pubblicato a pagamento (con “autotassazione”) su un’intera pagina de Il Sole 24 Ore del 25 aprile 2010 con circa 350 firme di docenti universitari, avvocati e presidenti emeriti della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.

[12] Tra l’altro in “controtendenza” rispetto al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 all’orientamento legislativo finalizzato a potenziare gli istituti della conciliazione e della mediazione in tutte le altre materie del diritto civile.

[13] La Commissione Foglia nelle precedenti legislature aveva elaborato meccanismi di tentativo di conciliazione endo-processuali nei quali la parte convenuta era sì tenuta, come anche previsto dalla nuova legge, a esporre le proprie ragioni in fatto e diritto, ma dopo il deposito del ricorso, anticipando quindi una costituzione in giudizio comunque necessaria. In quel contesto che la sede conciliativa avrebbe potuto essere effettivamente l’ultima spiaggia per consentire ad entrambe le parti di verificare, dopo aver mostrato le rispettive “carte”, l’esistenza di effettivi margini transattivi, in difetto dei quali il giudizio poteva avere seguito.

[14] Nella seduta dell’8 giugno 2010 delle Commissioni Prima e Undicesima riunite del Senato è stato approvato dalla maggioranza un emendamento che modifica in nove mesi il termine inizialmente fissato in 180 giorni.

[15] Sul punto il Messaggio del Presidente aveva  censurato la soluzione che una "clausola compromissoria" possa essere sottoscritta all'atto dell'assunzione, e, dunque, nel momento di massima debolezza contrattuale  del lavoratore e sudditanza psicologica verso il datore di lavoro, anche tenuto conto della prospettata incapacità degli organi di certificazione di proteggere il lavoratore nelle manifestazioni di volontà contrattuale soprattutto in quel particolare momento.  

[16] Sempre il Messaggio del Presidente aveva evidenziato il grave pericolo che l’arbitrato secondo equità,  decidendo in deroga alle disposizioni di legge, potesse incidere sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, non potendo “costituire garanzia sufficiente il generico richiamo al rispetto dei principi generali dell’ordinamento, che non appare come tale idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti”.

[17] Cfr. A. Vallebona: Una buona svolta del diritto del lavoro, in www.adapt.it. L’Autore, tra i più calorosi ed autorevoli sostenitori della nuova legge ed in particolare della soluzione arbitrale, afferma: “Un lodo arbitrale impugnabile innanzi al giudice per violazione delle disposizioni legali e collettive relative al merito della controversia non serve a nulla, perché è sempre il giudice ad avere l’ultima parola”.

[18] Prima tra tutti quella contenuta nel Messaggio del Presidente della Repubblica e riportata sub b). Ma si veda anche la Nota inviata dall’AGI alla Commissione Lavoro della Camera con cui si auspicavano soluzioni che “comportino il divieto di inserire clausole compromissorie nel contratto di assunzione, anche se certificato, consentendo il ricorso all’arbitrato solo per accordo intervenuto nel momento in cui sia sorto il conflitto”.

[19] È stato sul punto recepito il Messaggio del Presidente che, pur apprezzando l’impegno delle parti sociali ad escludere l’inserimento nella clausola compromissoria delle controversie relative allarisoluzione del rapporto di lavoro, aveva evidenziato che solo il legislatore “può e deve stabilire quali siano i diritti del lavoratore da tutelare con norme imperative di legge e quali normative invece demandare alla contrattazione collettiva”.

[20] La sostituzione dell’espressione “che dovessero insorgere” con quella “insorte” è merito dell’unico emendamento inserito su impulso della minoranza (il cd. emendamento “Damiano”), passato alla Camera per un solo voto grazie all’assenza di numerosi deputati della maggioranza (e nonostante l’assenza anche di un nutrito numero di deputati della minoranza).

[21] Per contrastare l’appello di giuristi di cui alla nota n. 11 è stato proposto un contro-appello “a favore dell’arbitrato nelle controversie di lavoro” con primo firmatario Michele Tiraboschi, che ha visto l’adesione di circa 300 tra docenti, avvocati, laureandi, consulenti del lavoro, praticanti consulenti del lavoro, sindacalisti, giornalisti, ispettori del lavoro e funzionari statali.

[22] Disciplinata dal comma 5 dell’art. 31, che sostituisce l’art. 412 c.p.c.

[23] Disciplinato dal comma 7 dell’art. 31, che sostituisce l’art. 412-quater c.p.c.

[24] Disciplinato dal comma 6 dell’art. 31, che sostituisce l’art. 412-ter  c.p.c.

[25] Si pensi solo alle tante controversie relative a rivendicazioni di un certo inquadramento professionale,  nelle quali l’accertamento è più di fatto che di diritto. Esso però presuppone poteri istruttori che solo il Giudice può pienamente esercitare.

[26] Enti bilaterali; Direzioni provinciali del lavoro; Province; Università pubbliche e private (Fondazioni comprese); Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.

[27] Il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale è talmente forte che, secondo la Corte costituzionale, neppure il legislatore può violarlo (v. per tutte Corte Cost. 31 marzo 1994 n. 115).

[28] Si noti che la (pretesa) limitazione dei poteri del Giudice fa seguito ad una effettiva e già attuata limitazione dei poteri di indagine da parte degli organi amministrativi: con una Direttiva del Ministero del lavoro del 18 settembre 2008, i Servizi Ispettivi delle Direzioni Provinciali del lavoro sono stati invitati ad effettuare accertamenti solo su contratti di lavoro non certificati.

[29] Vedi nota precedente.

[30] A. Vallebona, op. cit., p. 3.

[31] Relazione alla Camera dei Deputati del deputato Giuliano Cazzola sul disegno di legge 1441-quater-A.

[32] E. Fabiani, Sindacato della Corte di Cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento, Foro It., 1999, I, 1893.

[33] Cass., 434/99; cfr. anche Cass., 10514/98.

[34] Cass., 434/99, cit..

[35] Secondo Cass., 10672/07, “ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell’effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti all’attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni e ristrutturazioni, quali ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio di costi o all’incremento di profitti, quale che ne sia l’entità”. Secondo Cass., 7750/03, “nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento di profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi”.

[36] Cfr. Cass., 21282/06.

[37] P. Alleva, Le riforme della giustizia del lavoro nel progetto governativo, www.cgil.it. 

[38] V. nota 14

[39] Cfr. P. Alleva - G. Vaccari, Legge Sacconi, un fascio di incostituzionalità, Il Manifesto, 25 marzo 2010.

[40] S. Centofanti, Le nuove norme, non promulgate, di limitazione della tutela giurisdizionale dei lavoratori, Il lavoro nella giurisprudenza, 4/2010, p. 341.