La riforma Brunetta: luci e ombre (di Alessandro Bellavista)

La riforma Brunetta: luci e ombre 

Sommario: Premessa.- 2. La valutazione e la trasparenza.- 3. Il rapporto tra le fonti.- 4. La disciplina della contrattazione collettiva.- 5. L’autonomia della dirigenza.- 6. I rapporti di lavoro.

 

 1. Il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, “attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”, comporta una profonda modifica dell’assetto dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico. La riforma ha l’ambizione di porsi come normativa di carattere generale per tutte le amministrazioni pubbliche. Tuttavia, l’intervento del legislatore statale deve fare i conti con le sfere di autonomia riconosciute, specie sul piano costituzionale, alle amministrazioni non statali e in particolare agli enti territoriali. Pertanto, un aspetto particolarmente delicato è quello di capire l’effettivo ambito di applicazione delle singole disposizioni del decreto. In particolare, notevole attenzione va posta sulla questione della compatibilità con il nuovo titolo V della Costituzione della scelta della legge delega e del decreto delegato di distinguere tra le materie regolate quelle oggetto della potestà legislativa esclusiva dello Stato, quelle disciplinate sulla base di intese tra Stato e Regioni, e quelle su cui la potestà legislativa dello Stato è concorrente con la legislazione regionale.Comunque sia, il problema dell’ambito di applicazione delle disposizioni del decreto va affrontato caso per caso quando si esaminano i suoi singoli spezzoni.  La riforma presenta luci ed ombre. E’ evidente che un giudizio completo sarà possibile solo quando tutto il progettato complesso sistema sarà pienamente funzionante. Fin d’ora è però possibile un rapido esame delle principali innovazioni, tenendo conto delle caratteristiche dei problemi che il legislatore ha cercato di affrontare e di risolvere.Il decreto incide su varie aree normative. La prima è quella della valutazione indipendente e della trasparenza totale. La seconda è il rapporto tra le fonti del lavoro pubblico. La terza è la disciplina della contrattazione collettiva. La quarta è la dirigenza pubblica. La quinta è la disciplina del rapporto individuale di lavoro.  

2. Quanto alla prima area, va detto che il decreto tenta di rompere l’autoreferenzialità delle amministrazioni pubbliche circa la valutazione delle proprie strutture, sotto il profilo dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità dei servizi offerti, e della valutazione del proprio personale. La tecnica adottata è quella di imporre (soprattutto alle amministrazioni dello Stato, ma in sostanza a tutte le altre) l’adozione di un modello organizzativo che ponga al primo posto la preventiva fissazione degli obiettivi amministrativi e che preveda un sistema di monitoraggio continuo sul livello di raggiungimento degli stessi.I perni di questo sistema sono costituiti dalla nuova “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche” e da una rivisitazione degli organi interni di valutazione in modo tale da cercare di renderli più indipendenti di quanto siano finora. Estremamente importante è la valorizzazione di forme di controllo esterno sull’operato delle amministrazioni pubbliche realizzata tramite l’attivazione di meccanismi di voice a disposizione dei cittadini/utenti. E’ così acquisita la consapevolezza che anche la migliore struttura di controllo interno in fin dei conti non riesce adeguatamente a farsi portatore delle istanze della collettività di riferimento del servizio. Pertanto, questa deve essere in grado di disporre di strumenti autonomi tali da stimolare la sensibilità  della pubblica amministrazione agli orientamenti della domanda e al livello di soddisfazione dei cittadini/utenti.Sotto questo profilo, è importante la creazione di un’azione giudiziaria per accertare la violazione degli interessi dei cittadini-utenti. L’aspetto significativo è dato dalla legittimazione attiva concessa non solo ad ogni interessato ma anche a soggetti collettivi. Però, il difetto è che l’azione ha più che altro un valore simbolico: non può sfociare nel risarcimento del danno, ma nel mero accertamento dell’inefficienza. Forse è troppo poco, anche se non va trascurata, nell’odierna realtà mediatica, la notevole capacità dissuasiva che avrebbe per i vertici politici delle pubbliche amministrazioni, il timore di una cattiva pubblicità, con tutto quello che ne potrebbe conseguire in sede di verifica elettorale.Precondizione di un controllo diffuso e dal basso è la completa trasparenza delle amministrazione pubbliche. Ciò è quanto il decreto tenta di realizzare. Si tratta di vedere se le pubbliche amministrazioni daranno un’applicazione piena o al ribasso a tutte le prescrizioni del decreto al riguardo. 

3. In relazione al rapporto tra le fonti, va detto che sia la legge delega sia il decreto mettono sostanzialmente sotto tutela la contrattazione collettiva e avviano una profonda rilegificazione del rapporto di lavoro pubblico. Infatti, già la legge delega ha cambiato la struttura del meccanismo che consentiva la deroga da parte del contratto collettivo successivo delle disposizioni di legge precedenti che dettavano regolazioni riservate ai lavoratori pubblici. Ora la deroga è consentita solo se la legge lo consente espressamente. Inoltre, il decreto legislativo assoggetta alla esclusiva regolazione legislativa tutta una serie di materie relative al rapporto di lavoro e quindi naturalmente di competenza della contrattazione collettiva. In questo modo si esprime una sorta di fiducia nella legge e di completa sfiducia nelle capacità della contrattazione collettiva di garantire gli interessi pubblici coinvolti. Che poi la legge sia impermeabile alle pressioni degli interessi di parte è però sconfessato dalla storia della regolazione del lavoro pubblico in Italia.  

4. Così, la disciplina della contrattazione collettiva si allontana sempre di più dal modello del settore privato. Tuttavia, questo è uno dei punti della nuova riforma che desta maggiori perplessità. In effetti, il legislatore non interviene sugli aspetti problematici del rapporto politica-amministrazione, cercando di allentare la presa della politica sull’amministrazione. Infatti, è opinione comune che le cause del cattivo funzionamento del metodo contrattuale nelle pubbliche amministrazioni vanno ricercate principalmente nella mancanza nel datore di lavoro pubblico di una effettiva posizione di contrasto di interessi con la controparte sindacale. In realtà, il datore di lavoro pubblico tende ad assumere un atteggiamento collusivo con i sindacati e i lavoratori. Ciò dipende dalla circostanza che la guida effettiva delle pubbliche amministrazioni è in mano agli organi politici che hanno il potere di scegliere i dirigenti da preporre agli uffici. E i dirigenti, a causa della debolezza del loro statuto, sono privi di una concreta autonomia operativa. Sicché, gli organi politici, nel governo delle pubbliche amministrazioni, mirano soprattutto alla realizzazione dei loro interessi elettorali e di pace sociale, trascurando quello della collettività all’imparzialità e al buon andamento dell’amministrazione.Il sistema contrattuale risulta oggi centralizzato e il Governo, in vario modo, svolge il ruolo di dominus in tutti i comparti di contrattazione. Il che determinerà la concentrazione dello scambio politico nelle sedi governative, trascurando le esigenze di differenziazione che provengono dal variegato mondo delle pubbliche amministrazioni.La contrattazione collettiva nazionale può muoversi solo nello spazio consentito dalla disciplina legale, per giunta correndo il rischio di perdere ogni possibilità innovativa, dovendo solo riempire le caselle già predefinite dal legislatore. Il novellato comma 1 dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 afferma così che “nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”.L’annunciata ridefinizione dell’Aran si arresta a qualche lieve modifica della sua composizione, senza alcuna reale valorizzazione delle sue potenzialità di porsi come resistente barriera tecnica alle sollecitazioni politiche che dominano la negoziazione nel settore pubblico. I comitati di settore vengono di fatto ridotti a gruppi di pressione che, senza alcuna vera forma di responsabilità, potranno continuare a flirtare con le organizzazioni sindacali scaricando sul Governo i risultati negativi (per i lavoratori) della contrattazione collettiva e viceversa assumendo i relativi meriti per quelli positivi. Il momento contrattuale più importante resta immune dall’intervento legislativo. Infatti, è noto che la definizione delle risorse finanziarie per l’apertura della stagione negoziale è solo in apparenza di esclusiva competenza del Governo, mentre invece da sempre a tale riguardo si svolge una vera e propria contrattazione che culmina con un accordo sottoscritto in pompa magna dai leaders governativi e sindacali.Il ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva emerge nettamente se si tiene conto che il decreto contiene due innovazioni rivoluzionarie. In base alla prima, è ora possibile che, una volta approvata la legge finanziaria e trascorsi sessanta giorni senza che siano rinnovati i contratti collettivi nazionali, i comitati di settore possono unilateralmente dare il via libera all’erogazione  degli incrementi previsti per il trattamento stipendiale. Ancora più rilevante è la seconda: secondo cui qualora non si raggiunga l’accordo per la stipulazione del contratto collettivo integrativo, l’amministrazione interessata può provvedere, anche qui  unilateralmente, su tutte le materie oggetto del mancato accordo. Di fatto le due previsioni aumentano enormemente il potere delle pubbliche amministrazioni e rendono inutile la mediazione sindacale. Con ciò è profondamente alterato il sistema della contrattazione collettiva nel settore pubblico che da sempre s’è fondato sul principio della contrattualizzazione (che ha ispirato tutte le riforme del lavoro pubblico a partire dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso) per il quale, appunto, ogni previsione retributiva deve trovare la propria fonte nel contratto collettivo.Peraltro, la contrattazione integrativa è sottoposta al doppio cappio dei limiti legislativi e della contrattazione nazionale. Invero, la riforma cerca di valorizzare la funzione della contrattazione integrativa quale strumento di innovazione e di miglioramento dell’efficienza e della qualità dei servizi. Però, se tale risultato è stato finora raggiunto in minima parte, dipende soprattutto dal fatto che la logica di gestione di gran parte delle amministrazioni pubbliche s’è dimostrata subalterna alle esigenze elettorali e clientelari dei vertici politici delle medesime amministrazioni. Come s’è già accennato, il datore di lavoro pubblico, per quanto privatizzato, ha assunto modalità di comportamento molto lontane dalle dinamiche prevalenti nel settore privato. E questo è stato causato (non da una genetica colpa della contrattazione integrativa, bensì) dalla debolezza della dirigenza nei confronti del potere politico al vertice delle amministrazioni. In sostanza, è mancato, e manca tuttora, nelle pubbliche amministrazioni un datore di lavoro serio.Il decreto persegue la strada del rafforzamento del datore di lavoro pubblico esaltandone i poteri di decisione unilaterale. La valorizzazione del potere unilaterale delle pubbliche amministrazioni, però, corre il rischio di produrre un effetto diverso da quello voluto. Infatti, in un contesto in cui gli organi politici orientano la gestione in funzione delle loro esigenze elettorali e la dirigenza non è in grado di sganciarsi da tale condizionamento, il metodo della regolazione unilaterale può contribuire ad esaltare il circuito vizioso dello scambio politico e della cura degli interessi corporativi.  

5. Sicché, da tempo gli osservatori più attenti reclamavano l’introduzioni di opportune modifiche della normativa vigente volte a rafforzare l’autonomia della dirigenza pubblica (che è in primis autonomia nei confronti del potere politico e, in seconda battuta, rispetto alle organizzazioni sindacali) e, parallelamente, ad aumentare la responsabilità dei vertici politici in relazione ai risultati prodotti dalle relative amministrazioni.La riforma però non innova più di tanto il sistema delle responsabilità dei vertici politici, restando di fatto affidata al circuito del consenso elettorale. Una volta disegnato un percorso diretto a creare un apparato in grado di misurare e comparare le varie amministrazioni pubbliche sotto il profilo dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità dei servizi offerti, sarebbe ben possibile prevedere l’adozione di sanzioni hard (come il commissariamento o lo scioglimento degli organi di governo) nel caso in cui l’amministrazione interessata non riesca a raggiungere, in un determinato tempo, un livello di valutazione sufficiente nella graduatoria di riferimento. Invece, tutte le sanzioni, proprio nelle ipotesi di inefficienza, sono stabilite a carico dei dirigenti e degli altri lavoratori. Insomma, è un po’ paradossale che gli organi politici che scelgono dirigenti incapaci (ma a cui spettano i poteri di gestione concreta) non debbano temere alcunché se non un eventuale giudizio sfavorevole da parte degli elettori, quando e come quest’ultimi saranno chiamati alle urne. Tuttavia, almeno in parte il decreto rafforza l’autonomia della dirigenza nei confronti del potere politico. V’è ora un obbligo di trasparenza e pubblicità della procedura di conferimento degli incarichi dirigenziali. Da ciò consegue la possibilità per i dirigenti interessati di avanzare le proprie candidature. Si abbozza un sistema paraconcorsuale, poiché è sancito che l’amministrazione deve valutare le “disponibilità dei dirigenti interessati”. A ciò si accompagna il perfezionamento dei criteri che dovrebbero guidare il conferimento degli incarichi; il che apre lo spazio per l’intervento del giudice chiamato in causa da un dirigente a suo dire pretermesso. La revoca ante tempus dell’incarico è strettamente legata alle ipotesi oggettive di responsabilità dirigenziale. E’ un po’ più tutelata (rispetto alla situazione precedente) la posizione del dirigente nel delicato momento della cessazione dell’incarico: qui, se non v’è valutazione negativa, la mancata conferma dell’incarico è condizionata ad una “idonea e motivata comunicazione” e all’offerta di un nuovo incarico. E’ evidente però che la soluzione preferibile, in assenza di valutazione negativa, sarebbe stata quella di garantire il diritto alla conferma dell’incarico scaduto. Peraltro, sembra che, ancora oggi, il dirigente resti senza effettive garanzie nell’ipotesi della riorganizzazione che comporti la trasformazione o la scomparsa dell’ufficio ricoperto.E’ aumentato da tre a cinque anni il periodo di copertura di incarichi di funzione dirigenziale di livello generale che consente al dirigente il transito dalla seconda alla prima fascia. E il primo incarico di direzione di uffici dirigenziali generali ad un dirigente della seconda fascia deve avere la durata di tre anni. Così, v’è un relativo presidio dell’imparzialità, perché il dirigente di seconda fascia, per raggiungere il tetto temporale prestabilito, è tenuto ad ottenere due incarichi e quindi probabilmente da titolari del potere d’investitura di differente colore politico. E’ stato introdotto un canale di accesso diretto alla prima fascia tramite concorso, destinato sia ai dirigenti di seconda fascia sia ad esterni muniti di titoli adeguati. E’ stata posta qualche piccola (seppure ancora insufficiente) restrizione alla possibilità di conferire incarichi dirigenziali a soggetti non appartenenti ai ruoli della dirigenza. 

6. Le innovazioni concernenti i rapporti di lavoro sono senza dubbio rilevanti. Esse in sintesi adottano la cosiddetta tecnica “del bastone e della carota”. Quanto alla carota, la “valorizzazione del merito” è uno degli obiettivi fondamentali della riforma: e su questo non si può non concordare. Sicché, l’attribuzione dei premi monetari e i percorsi di carriera dovranno essere guidati dal criterio fondamentale della selettività. Ciò persegue lo scopo di evitare il deleterio fenomeno dell’erogazione “a pioggia” del salario accessorio e delle “promozioni di massa”. Ma non è detto che la logica della selettività necessaria consenta sempre, di per sé, in assenza di una vera e diffusa cultura meritocratica, di premiare i migliori e di escludere i peggiori. Anzi, v’è il rischio che le pagelle prefigurate dal legislatore stimolino forme di aggiramento del dettato normativo e prassi burocratiche gattopardesche. Circa il bastone, il decreto continua lungo il percorso avviato anche da altri legislatori volto a creare le condizioni affinché le pubbliche amministrazioni esercitino effettivamente i propri poteri disciplinari. Sono noti, infatti, vari casi in cui, anche di fronte a fatti gravissimi, le pubbliche amministrazioni o non hanno sanzionato il comportamento del proprio dipendente o hanno fatto di tutto per congelare il relativo procedimento disciplinare. Il tentativo di rompere la logica del “quieto vivere” è avviato, in prima battuta, responsabilizzando direttamente il dirigente: egli è tenuto a vigilare sull’operato dei dipendenti del proprio ufficio, a pena di incorrere in un’apposita ipotesi di responsabilità dirigenziale, ed è reso direttamente titolare di una frazione del potere disciplinare per lo svolgimento del relativo procedimento e l’irrogazione di tutte le sanzioni inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni. Il dirigente è altresì indotto ad avviare “senza indugio” il procedimento disciplinare, perché altrimenti corre il rischio di subire lui stesso analoga procedura. Inoltre, il decreto stabilisce tutta una serie di ipotesi per cui devono essere applicate la sanzione disciplinare del licenziamento oppure altre misure disciplinari e penali. La riforma poi disegna un rigido sistema di controllo sulle assenze, diretto a limitare quelle ingiustificate e a dissuadere le prassi illegittime.Lo spazio della contrattazione collettiva nella materia disciplinare e dei controlli sulle assenze è notevolmente circoscritto, proprio perché il decreto detta al riguardo una regolazione esaustiva e qualifica le sue disposizioni come “norme imperative”.