Il giudizio in cassazione dopo la legge n. 69 del 2009 (di Alberto Piccinini)

Il giudizio in cassazione dopo la legge n. 69 del 2009 ([1])

Alberto Piccinini

 

Premessa

Alla fine di luglio del 2008, in occasione di un convengo  promosso dall’AGI Friuli Venezia Giulia ([2]), ho provato a formulare un bilancio di due anni di giurisprudenza dopo la riforma processuale introdotta dal Dlgsl. n. 40 del 2006, guadagnando - immeritatamente - la fama di “esperto” nel procedimento del ricorso per cassazione, tanto che sono stato chiamato - sempre dall’AGI - a tenere una relazione a Messina nell’aprile di quest’anno. In questa seconda occasione si era nel pieno dei lavori in corso che hanno portato alle attuali modifiche introdotte  dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, essendo in quel momento appena passato al Senato (DDL. n. 1082)  il Disegno di Legge n. 1441-bis approvato dalla Camera il 2 ottobre 2008 sulla riforma del processo civile, il cui art. 48 aveva subito la sola modifica  - rispetto al testo originario - della soppressione dell’ipotesi di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 360 n. 5 contro la sentenza di appello conforme alla sentenza di primo grado (la cd. “doppia conforme”).

 A distanza di pochi mesi mi trovo a parlare delle stesse cose in uno scenario ancora cambiato, in quanto prima dell’estate erano ancora “in ballo” quattro nuove ipotesi di ammissibilità  (e non, si badi bene, di inammissibilità)del ricorso, con la finalità dichiarata di voler limitare l’accesso alla S.C., anche se nel contempo era già stato  abrogato l’art. 366 bis (che aveva introdotto l’obbligo di formulazione di un quesito di diritto)[3].

 

Non starò a tediarvi sull’assurdità del testo della riforma poi non approvato, se non per dire che anche il testo approvato, lungi dall’essere chiaro e coerente, è solo la prova di un affannoso tentativo di cercare una soluzione ad un problema reale (l’impossibilità della Corte a far fronte all’eccessivo numero dei ricorsi che hanno fatto superare la soglia delle 30.000 sentenze all’anno[4]), tentativo probabilmente ancora sperimentale fino a quando non si arriverà a più radicali e definitivi cambiamenti.

E nello spirito, molto pragmatico, di questo mio intervento non approfondirò, come meriterebbero,  tutti gli aspetti problematici evidenziati dalla tanta ed autorevole dottrina che si è occupata dell’innovazione introdotta, anche perchè – come spesso accade – è stato scritto tutto e il contrario di tutto, e noi poveri manovali del diritto non possiamo che attendere, con le dovute cautele, l’interpretazione che verrà data dalla giurisprudenza.

Mi limiterò quindi a fare un breve cenno ai due nuovi motivi di inammissibilità rimasti all’esito del travagliatissimo iter della riforma del procedimento di cassazione, tanto per cercare di assolvere all’arduo compito di fornire consigli di massima sulla redazione del ricorso.

Ai sensi del (nuovo) art. 360 bis il ricorso è inammissibile:

 

1)    quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte  e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare  mutare l’orientamento della stessa.

A parte l’infelice – ed apparentemente incomprensibile – previsione dell’ipotesi della “conferma”, sembrerebbe scontato affermare che  il limite all’impossibilità di impugnare una sentenza di secondo grado che ha enunciato principi conformi ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale del Supremo Collegio sia dato dalla necessità di fornire “elementi” per mutare tale orientamento. C’è da chiedersi se qualcuno potrebbe pensare che sarebbe stato possibile fare qualcosa di diverso, e sperare nel contempo nell’accoglimento del ricorso. Evidentemente si è solo voluto enfatizzare la (auspicata) funzione uniformatrice e nomofilattica della Corte. 

Il consiglio, quindi, in questo caso, del tutto banale e, è semplicemente questo: così come, a fronte di una questione nuova ovvero di una questione in cui esista un contrasto di giurisprudenziale occorrerà argomentare le ragioni di diritto per convincere la Corte delle proprie tesi, ancor più,  ove la sentenza impugnata sia conforme alla giurisprudenza della Corte,  sarà necessario fornire argomenti ed elementi dotati di forte persuasività, per non incorrere in una pronuncia di inammissibilità (ovvero, come sarebbe più corretto, di manifesta infondatezza).

Ben diverso sarebbe stata la precedente versione del  Disegno di Legge n. 1441-bis approvato dalla Camera il 2 ottobre 2008, per la quale  era ammissibile ricorrere ai giudici delle leggi solo nell’eventualità in cui i giudici della sentenza di merito impugnata si fossero discostati “da precedenti decisioni”  - e quindi anche da una sola -  della Corte.

 

2)      quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

 

L’interpretazione di questo punto 2 ha dato luogo a molti interventi. Essendo pacifico che non si tratta di un nuovo motivo di ricorso di cassazione rispetto a quelli previsti dall’immutato art. 360 c.p.c., si dovrebbe dedurre che la disposizione qualifica tutti i vizi tranne il n. 3 e quindi  il n. 1, il n. 2 il n. 4 e il n. 5.

Anche qui - occorre dirlo? - sarà necessario redigere il ricorso in modo tale da formulare  censure che non appiano “manifestamente infondate” quando il richiamo è ai principi del giusto processo (Art. 111 Cost. primo comma) alla violazione del principio del contraddittorio (Art. 111 Cost. secondo comma) ovvero quando si censuri una carenza assoluta di motivazione (Art. 111 Cost. sesto comma).

Con la vecchia formulazione - che prevedeva  motivi di ammissibilità anziché di inammissibilità - era sorta la preoccupazione  che la riforma  volesse addirittura - senza peraltro affermarlo espressamente - eliminare uno tra i motivi di ricorso in cassazione più utilizzati, vale a dire quello di cui all’art. 360 n. 5 per “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ([5]).

Si era infatti evidenziato che la sentenza dei giudici di merito rischiasse di divenire censurabile solo se priva del tutto di motivazione, mentre perché sussista il vizio di cui si tratta esso deve riguardare un difetto di motivazione su un “fatto decisivo”: interpretazioni restrittive avrebbero quindi potuto far ritenere non ammissibile un ricorso che avesse censurato una sentenza sotto questo profilo, valutando la sentenza stessa di per sé non difforme rispetto all’art. 111 Cost. laddove essa fosse stata provvista comunque di  una motivazione, anche se incompleta. Ma tutto questo sarebbe potuto avvenire, eventualmente, ove le condizioni poste dalla legge fossero state di ammissibilità del ricorso, e non certo viceversa.

 

*

Prima di passare ad esaminare i singoli motivi di ricorso si rende necessario un breve cenno ad un principio – di matrice giurisprudenziale – che ha anch’esso “falcidiato” molti ricorsi in base a criteri, diciamo così, formalistici: il principio di “autosufficienza”.

 

1. Autosufficienza del ricorso

Il ricorso per cassazione deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a consentire l’apprezzamento, da parte dei giudici di legittimità, delle ragioni per cui si censura la sentenza impugnata.

Il controllo della congruità e logicità della motivazione verrà svolto esclusivamente sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso e – soprattutto – delle risultanze processuali e probatorie ivi integralmente trascritte che si assumono ignorate ovvero insufficientemente o illogicamente valutate: prevede infatti l’art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c. (contenuto del ricorso) – introdotto dall’art. 5 del D.lgs. n. 40/06 – che il ricorso deve (tra l’altro) contenere «la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda».

Ugualmente l’art. 369 c.p.c. prevede, tra i documenti da depositare unitamente al ricorso notificato, anche  «gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda».

La novella  riguarda, in particolare, i giuslavoristi anche per il suo collegamento alla censura dei vizi della sentenza impugnata relativi all’interpretazione e all’applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di lavoro di cui al nuovo testo dell’art. 360 comma 1 n. 3 di cui si  parlerà.

Ma, più in generale, impone una completezza dei richiami agli atti della fase di merito, senza però  ricorrere a grossolani collage: è stato infatti anche recentemente dichiarato inammissibile “il ricorso per cassazione che non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale e sia confezionato mediante "spillatura" dell’intero ricorso di primo grado e del testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e non agevolando la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura” ([6]).

 Per quanto riguarda, in particolare, le censure sulla motivazione «circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» (art. 360 n. 5 c.p.c.), è evidente che l’illustrazione delle doglianze dovrà essere correlata dalla chiara indicazione di tale fatto così come risultante dagli atti del giudizio di merito e come emerso nelle risultanze processuali.

Da questi richiami normativi si è dedotto «che il legislatore della riforma (…) ha codificato definitivamente il principio giurisprudenziale di autosufficienza del ricorso» ([7]) allo scopo di «offrire alla Corte, oltre che alla stessa parte resistente, un quadro che sia il più possibile immediato, completo ed autosufficiente delle censure sulle quali dovrà pronunciarsi e di agevolarne il lavoro di reperimento degli atti e documenti sui quali essi si fondano» ([8]).

Concretamente questo significa, per gli avvocati, essere particolarmente diligenti nell’offrire al giudizio della Corte non solo la trascrizione (in certi casi quasi integrale) di atti e verbali d’udienza, ma anche della copia - preferibilmente autentica - dei verbali stessi e dei documenti che facevano parte dei fascicoli dei precedenti gradi del giudizio.

Scrive un esperto avvocato romano: «in questo contesto non è ancora chiaro il modo in cui saranno lette le improcedibilità collegate a quanto previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c. né se vi sarà un rifiuto assoluto della Corte di andare a verificare il contenuto dei fascicoli di merito, spesso voluminosi e disordinati. È tuttavia prudente (per non dire prevedibile) attendersi il peggio e depositare, nei venti giorni dalla notifica, oltre alla sentenza impugnata e alle istanze di trasmissione,tutti gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, in aggiunta a quanto già contenuto nei fascicoli di merito. Con una cura particolare nel recupero tempestivo dei documenti depositati dalla controparte, non acquisiti in copia nel corso del giudizio di merito o, comunque, non disponibili» ([9]).

Circola inoltre la “voce” che dalla Corte di Cassazione da un po’ di tempo a questa parte non richiedano più i fascicoli d’ufficio (la famosa “istanza di trasmissione”) e quindi che i giudici fondino la loro decisione esclusivamente sulla base degli atti e dei  documenti prodotti dalle parti. Pur ritenendo opinabile una reiezione del ricorso fondata, ad esempio,  sulla mancanza di atti del processo che dovrebbero essere rinvenibili nel fascicolo d’ufficio, pur tuttavia si suggerisce di curarne diligentemente il deposito.

 

2. Motivi di ricorso in cassazione: art. 360 c.p.c.

 

2.1 Motivi attinenti alla giurisdizione

Com’è noto vi è questione di giurisdizione – art. 360 n. 1 - sia quando il giudice ordinario abbia deciso (ovvero abbia negato la propria potestà a decidere) su materia del tutto estranea alle sue attribuzioni, sia nel caso in cui manchi nell’ordinamento un’apposita disciplina di tutelabilità in sede giudiziaria, sia nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale ovverocon la pubblica amministrazione, sia, infine, nei rapporti tra la giurisdizione italiana e quella di altri Stati.

La cognizione delle questioni riconducibili a tale motivo è attribuita alle Sezioni Unite per le questioni di giurisdizione nuove, mentre per quelle (identiche) già risolte dalle stesse S.U. è prevista, di norma l’assegnazione alle sezioni semplici.

Ricordiamo che la riforma del 2006 ha previsto che le sezioni semplici debbano uniformarsi alle decisioni relative alle questioni sulle quali si siano pronunciate le Sezioni Unite: ove intendano decidere in modo difforme sono infatti tenute a reinvestirle della questione, con ordinanza motivata (art. 374 c.p.c).

 

2.2. Violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza

Il ricorso per cassazione in materia di competenza (art. 360 n. 2 c.p.c.) è consentito solo se la sentenza impugnata (o altro provvedimento diversamente nominato, ma equiparabile, sul piano dell’efficacia, alla sentenza) ha deciso anche nel merito: in questo caso il regolamento di competenza concorre con l’impugnazione ordinaria. Le pronunce sulla sola competenza sono impugnabili – per violazione delle norme che disciplinano la competenze – esclusivamente con il regolamento necessario di competenza. Ogni altro mezzo di impugnazione verrà dichiarato inammissibile.

 

2.3 Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro

Il motivo di cui al punto 3 dell’art. 360 c.p.c., tradizionalmente tra i più invocati, è stato integrato dalla riforma  del 2006 con l’estensione del controllo di legittimità anche dei contratti e accordi collettivi nazionali di diritto comune. Questo punto specifico, di massimo interesse per i giuslavoristi, verrà trattato in seguito, limitandoci ora ad affrontare gli aspetti processuali comuni ad entrambe le fattispecie, sempre dal punto di vista della loro applicazione pratica.

Il vizio di violazione di legge «investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata» ([10]).

In particolare con questo motivo di ricorso è necessario indicare in cosa consista “l’erronea ricognizione” (individuazione) da parte dei giudici di merito, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge che si assume violata, con conseguente necessità di corretta interpretazione della stessa ([11]).

«Il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 numero 3 cod. proc. civ. deve essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza o dalla dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione» ([12]).

Viene quindi ritenuto indispensabile – a pena di inammissibilità del ricorso – che il ricorso contenga la trascrizione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si pretendono errate, e specifiche censure contro di esse. Si è inoltre affermato che l’atto debba contenere anche la proposizione di una diversa interpretazione delle norme che si assume corretta: solo in tal modo si consentirebbe alla Corte di espletare pienamente la sua funzione nomofilattica.

La falsa applicazione «vive in un’area limitata, che è compatibile con una corretta interpretazione della norma e un’adeguata ricognizione della fattispecie concreta, ma presuppone una errata correlazione tra la norma di diritto (correttamente interpretata) e la fattispecie concreta (correttamente ricostruita)» ([13]).

I motivi di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. sono relativi a vizi di giudizio (errores in iudicando) a differenza dei motivi enucleati ai numeri 1, 2, 4, dello stesso articolo, considerati errores in procedendo in quanto si sostanziano in violazioni della legge processuale e rappresentano dei “difetti di costruzione della sentenza” ([14]). Nella prima ipotesi viene denunciata l’ingiustizia effettiva della sentenza, mentre nella seconda l’ingiustizia che può derivare dalla violazione di una regola di procedimento. Mentre negli errori di giudizio la Corte di Cassazione non può giudicare il fatto, per gli errori di procedimento è giudice anche di fatto, dovendo verificare se l’attività svolta corrisponda a quella prevista dalla norma processuale e quindi in che modo essa sia stata compiuta.

Affronteremo sub. 3.1. le problematiche relative alla inopportunità di formulare un unico motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi di motivazione.

 

2.3.1 Il ricorso in Cassazione per violazione di norme dei contratti o accordi collettivi nazionali ([15])

Una delle novità più interessanti per i giuslavoristi previste dal D.Lgs. n. 40 del 2006, consiste nella riformulazione dell’art. 360 comma 1, n. 3) c.p.c., che attualmente prevede l’impugnabilità delle sentenze con ricorso per cassazione «per violazione o falsa applicazione …dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro», unitamente all’introduzione dell’art. 420-bis c.p.c. (preceduto, per quanto riguarda il solo pubblico impiego, dagli artt. 63 e 64 D.Lgs. n. 165/2001 introdotti già dal D.Lgs. n. 80 del 1998) e, cioè, dello speciale procedimento d’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali, idoneo a provocare, già nel corso del primo grado di giudizio, un pronunciamento della Corte sul punto.

Tali norme processuali hanno la finalità, da un lato, d’estendere la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione (anticipandola nel corso del giudizio di primo grado nel caso degli artt. 420-bis c.p.c. e 64 D.Lgs. n. 165 del 2001) a norme che, sebbene di fonte contrattualistica, sono idonee a regolamentare una serie indefinita di casi concreti[16] e, dall’altro, di scoraggiare la proposizione di questioni c.d. seriali, con effetto deflattivo del contenzioso del lavoro: obiettivi che, come si vedrà, potranno essere concretamente perseguiti solo a precise condizioni, non semplici da realizzare.

La portata innovativa della nuova regola processuale consiste, come è evidente, nell’attribuzione alla Corte di Cassazione del potere di interpretare direttamente le norme contrattual-collettive, affidandole, così, a stretto rigore, un giudizio sul fatto, rappresentato, appunto, dalla clausola negoziale.

Nel vigore della precedente disciplina processuale, costituiva, infatti, principio giurisprudenziale del tutto consolidato quello secondo cui la decisione di merito fondata su di una determinata interpretazione di una norma contrattual-collettiva poteva essere impugnata per cassazione esclusivamente, ai sensi dell’art. 360 n. 3 (violazione/falsa applicazione di legge), c.p.c. per violazione degli artt. 1362 e seguenti del codice civile (norme sull’interpretazione dei contratti), ovvero, ai sensi dell’art. 360 n. 5, c.p.c. per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ([17]), con la necessaria conseguenza che la Corte era vincolata all’iter logico-interpretativo del giudice del merito che non manifestasse vizi di tale sorta cosicché «in ragione del limite del sindacato della Corte di cassazione – cui non è consentita l'interpretazione diretta di disposizioni di natura contrattuale, ancorché interessanti, come quelle collettive, un notevole numero di destinatari – è ‘fisiologico’ che due opposte interpretazioni di giudici di merito di una medesima disposizione collettiva siano entrambe convalidate o censurate dalla S.C., a seconda del superamento o no del controllo (a questa attribuito) limitato alla verifica della correttezza della motivazione e del rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 e ss. c.c.» (6327/96, 11037/06).

Scopo delle norme processuali in commento è esattamente quello di eliminare tale effetto “fisiologico”, affidando al giudice della nomofilachia il compito di dettare il “principio” (art. 384 c.p.c.) cui si dovrà attenere il Giudice del rinvio ovvero in base al quale, in assenza di necessità di istruttoria, verrà decisa la causa: effetto che l’art. 420-bis c.p.c. e l’art. 64 D.Lgs. n. 165 del 2001, da un lato, anticipano, provocando un pronunciamento della Cassazione che si innesta in modo vincolante già nel giudizio di primo grado e, dall’altro, rafforzano, mediante il meccanismo della sospensione facoltativa dei giudizi che vertano sulla medesima questione pregiudiziale.

 

2.3.2 Le prime applicazioni del nuovo art. 360 n. 3 c. p.c.

 

Le prime applicazioni dell’art. 360 n. 3 nella sua nuova formulazione, occasionate prevalentemente (per quanto attiene alle questioni interpretative di contratti collettivi del settore privato) a seguito dell’impugnazione diretta per cassazione di sentenze non definitive pronunciate in primo grado ex art. 420-bis c.p.c., confermano che oggi «la Corte di cassazione non risulta [più] vincolata alla opzione ermeneutica del giudice di merito pur fondata su una motivazione congrua e corretta sul piano logico, potendo la stessa Corte, a seguito di una propria scelta autonoma e sulla base di una complessiva e propria lettura dei contratti collettivi nazionali – ora assimilati ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 alle norme di diritto – pervenire ad una diversa decisione di quella del primo giudice, non solo per quanto attiene alla validità ed efficacia del contratto, ma anche in relazione alla sua interpretazione attraverso una diversa valutazione degli elementi di fatto già vagliati dal giudice di merito» e che tale considerazione «comporta il superamento – in linea con le finalità perseguite dall'art. 420-bis c.p.c. – dell'indirizzo giurisprudenziale, che reputava invece fisiologico che due opposte interpretazioni dei giudici di merito di una stessa clausola contrattuale fossero entrambe convalidate o censurate dalla Corte di Cassazione» (2796/07) ([18]).

Non solo, ma la Corte può o meglio deve, se correttamente interpellata, interpretare direttamente la clausola contrattuale collettiva, senza essere in alcun modo vincolata nemmeno dall’esame delle questioni effettuato nel corso del giudizio dalle parti «potendo liberamente ricercare all’interno del contratto collettivo … ciascuna clausola – anche se non oggetto dell’esame delle parti e del primo giudice – comunque ritenuta utile alla interpretazione» (19695/07, 1578/08), cosicché «la Corte di Cassazione ha il potere di enunciare direttamente il significato del patto collettivo, avendo a riguardo gli stessi poteri del giudice del merito» (Principio affermato da Cass. 22234 del 2007 in fattispecie ex art. 63 D.Lgs. n. 165 del 2001)

 

2.3.3  I criteri d’interpretazione per i contratti collettivi

In risposta ai timori che la nuova norma processuale potesse comportare una piena equiparazione delle norme contrattuali alle norme di legge (in contraddizione con la natura dei contratti collettivi di diritto comune) la giurisprudenza ha – in linea di principio – immediatamente chiarito che gli unici criteri di ermeneutica utilizzabili dal Giudice della nomofilachia sono, ancora una volta, quelli dettati dagli artt. 1362 e seguenti cod. civ, e non già quelli di cui agli artt. 12 e ss. disp. prel. del cod. civ. Principio, del resto, già affermato con riferimento all’art. 63 comma 5 D.Lgs. n. 165 del 2001 da Cass., 5 maggio 2005, n. 9342; Cass., 17 marzo 2005, n. 5892; Cass., 4 marzo 2005, n. 4714; Cass. 3072 del 2005; Cass. 19710 del 2007; Cass. 19695 del 2007; Cass.4008 del 2008.

Deve peraltro rilevarsi come l’applicazione del criterio ermeneutico della ricerca della volontà delle parti al di là del significato letterale del testo quando quest’ultimo sia equivoco o oscuro, trovi nel solo giudizio di merito tutti quegli strumenti istruttori idonei alla sua applicazione (rappresentati, in particolare, dalla possibilità per il Giudice del merito di disporre d’ufficio la richiesta di informazioni ed osservazioni, sia scritte che orali, alleassociazioni sindacali indicate dalle parti – art. 421 comma 2, c.p.c. – e di sentire, su istanza di parte, l’associazione sindacale indicata dalla stessa – art. 425 c.p.c.), strumenti che, invece, sono preclusi alla Corte di Cassazione. Ciò significa che il criterio della ricerca della volontà delle parti potrà essere utilizzato dalla Corte solo nella misura in cui ciò sia permesso dal materiale probatorio già raccolto nella fase del merito, non avendo la Corte, nemmeno in quanto giudice del “fatto-contratto”, alcun autonomo potere istruttorio.

Ed ecco, quindi, un primo limite del giudizio di cassazione relativo all’interpretazione del ccnl: solo astrattamente, infatti, il Giudice della nomofilachia è libero di utilizzare ciascuno dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss cod. civ, essendo più consoni al giudizio di legittimità i criteri di interpretazione “oggettiva” piuttosto che “soggettiva”;  – e, quindi, in primo luogo quello letterale ex art. 1362 e quello criterio “sistematico”, che vuole che le clausole del contratto siano interpretate le une per mezzo delle altre (art. 1363 c.c.[19]).

Deve peraltro rilevarsi come, nell’illustrazione del motivo di ricorso, il ricorrente dovrà pur sempre spiegare compiutamente alla Corte l’erroneità dell’interpretazione di cui alla sentenza impugnata e, quindi, in definitiva, individuare quale dei criteri ermeneutici ex artt. 1362 ss c.c. ritenga sia stato trascurato o erroneamente applicato dalla sentenza impugnata ([20]).

Nel risolvere la questione interpretativa sottopostale, la Corte di Cassazione dovrà, poi, enunciare il principio di diritto in ottemperanza alla prescrizione di cui all’art. 384 c.p.c. «disposizione questa che però, quando il motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, consiste nella violazione o falsa applicazione di norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, va letta in sintonia con la disciplina della contrattazione collettiva di diritto privato avente natura negoziale» (Cass. n. 19695/07) con la conseguenza che la Corte enuncerà il principio direttamente con riferimento alla norma contrattuale e non più con riferimento agli artt. 1362 ss c.c ([21]).

 

2.3.4 Il deposito dei contratti collettivi

Si è già detto, però, come il criterio interpretativo della reale volontà delle parti possa essere utilizzato solo nei limiti in cui le produzioni documentali e l’istruttoria svolta nel grado di merito lo permettano. Per esempio il comportamento precedente/successivo dei contraenti collettivi potrà venire in considerazione solamente se il ccnl precedente/successivo a quello da interpretare sia stato ritualmente acquisito agli atti ([22]) del giudizio di merito; analogamente è a dirsi per il contenuto delle trattative precedenti alla stipula definitiva, all’utilizzo di determinati termini anche in altri ccnl stipulati dalle stesse parti sociali etc.

 Anche il criterio sistematico di interpretazione, però, potrebbe rivelarsi possibile solo a determinate condizioni: la prassi di produrre nel giudizio di primo grado solo alcuni stralci di ccnl, infatti, unitamente al divieto di produzione di nuovi documenti (a seguito della nota SSUU n. 8202/05[23]) potrebbe privare la Corte di Cassazione dell’intero testo del contratto e impedire quindi l’interpretazione delle clausole “le une per mezzo delle altre”. Ancora una volta, quindi, l’obiettivo di estendere la funzione nomofilattica della corte al ccnl parrebbe dipendere completamente dal materiale istruttorio raccolto in primo grado.

In verità le pronunce più recenti sul punto sembrerebbero risolvere questa contraddizione, in quanto l’attuale formulazione dell’art. 369 comma n. 4 c.p.c. impone di depositare unitamente al ricorso per cassazione, a pena d’improcedibilità dello stesso, «i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda».

Ci si è chiesto, in primo luogo, se la norma imponga il deposito dell’intero contratto collettivo ovvero se sia sufficiente il deposito delle sole clausole contrattuali che si ritengono male interpretate o applicate dal Giudice del merito. La Corte in un primo momento ha offerto risposte completamente contraddittorie a tale quesito, affermando la procedibilità del ricorso per cassazione nonostante l’omesso deposito del testo integrale del contratto collettivo, essendo stato ritenuto sufficiente il deposito del «testo delle singole disposizioni contrattuali della cui violazione o falsa applicazione [il ricorrente] si duole» ([24]) e, al contrario, dichiarando l’improcedibilità di analogo ricorso sulla base del seguente, opposto, principio: «ad avviso di questa Corte la norma in esame impone a carico del ricorrente un onere di produzione che ha per oggetto il contratto nel suo testo integrale e non già nella sola parte su cui si è svolto il contraddittorio o che viene invocata nel ricorso per cassazione. » ([25]).

Con la recente interessante sentenza n. 9246/09 la Corte dà atto dei differenti indirizzi giurisprudenziali e conclude sancendo, riassuntivamente, i seguenti principi: a) la Corte non può acquisire nuovi materiali probatori (es: ccnl successivi o precedenti a quello da interpretare) che non siano già stati acquisiti dal giudice di merito; b) in caso di ricorso per cassazione contro la sentenza pronunciata aisensi dell’art. 420 bis cpc il ricorrente da un lato deve a pena di improcedibilità e dall’altro può (se non l’ha fatto prima) produrre il testo integrale del ccnl ([26]): può farlo perché è la stessa norma processuale ad imporlo e al contempo a consentirlo!

*

In ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, poi, le clausole contrattuali che si ritengono violate o erroneamente interpretate debbono essere specificamente trascritte.

Cass. 10374 del 2007 ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione ove le censure alla sentenza di merito erano state proposte «senza neppure trascrivere il testo completo delle disposizioni contrattuali della cui errata interpretazione da parte del giudice di appello esso ricorrente si è lamentato: donde la confermata inammissibilità delle relative censure, anche con riferimento al principio di "autosufficienza del ricorso" che costituisce un canone al quale la giurisprudenza di questa Corte si è sempre attenuta in modo sostanzialmente rigoroso e che il ricorrente non ha nella specie sicuramente osservato».

Al contrario Cass. n. 2602 del 2009 ha dichiarato infondata l’eccezione di inammissibilità per omessa trascrizione delle clausole contrattual-collettive controverse poiché, nel caso di specie “le parti controvertono infatti non sul testo letterale del contratto bensì sulle conseguenze giuridiche di diritto che il giudice di merito ne ha tratto, e su questo punto le censure sono autosufficienti” (così avvicinando sempre più la norma contrattual-collettiva alla norma di diritto).

 

2.3.5   “Giudice del contratto” ma solo sul “materiale” acquisito

Possiamo, quindi, trarre una prima considerazione sull’efficacia delle norme processuali in commento rispetto agli obiettivi che si era prefissato il legislatore del 2006 (e del 1998 quanto al pubblico impiego): la Corte di Cassazione è divenuta sì “giudice del contratto” ma il suo giudizio è limitato al e dal solo “materiale” che siamo stati in grado di fornirle nei gradi precedenti, non essendo stato parimenti esteso alle norme del contratti collettivi nazionali di lavoro il principio iura novit curia valido per le norme di legge ([27]).

L’obiettivo delle norme in commento, allora, sarà perseguito tanto più efficacemente quanto più le parti – ma anche il giudice del merito (che - si ricorda - è titolare anche di poteri istruttori quali quelli di cui agli artt. 421 e 425 c.p.c., pensati ad hoc per consentire di ricercare la volontà delle parti sociali in caso di applicazione di un contratto collettivo non in equivoco alla materia controversa) – saranno stati capaci di “procurare” alla Corte di Cassazione il materiale probatorio sulla base del quale – solo – essa dovrà pronunciare il “principio” di interpretazione del contratto. È infatti evidente che la limitatezza del materiale offerto dalle parti e dal giudice del merito potrebbe pregiudicare la possibilità che il principio enunciato dalla Cassazione abbia caratteristiche di generalità ed astrattezza tali da renderlo idoneo a regolare una serie indefinita di casi concreti.

Sulla base di tale considerazione la Corte, con un’interessante, recente, sentenza, in accoglimento di ricorso proposto (proprio per “violazione e falsa applicazione dell’art. 420-bis c.p.c.”) avverso sentenza non definitiva pronunciata dal Tribunale di Roma ex art. 420-bis c.p.c., ha enunciato, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., il seguente principio di diritto: «la ratio informatrice dello speciale procedimento ex art. 420-bis c.p.c. va individuata nell'esigenza di assicurare l'uniforme applicazione di tali clausole e di prevenire il rischio della polverizzazione dell'interpretazione in materia, e di agevolare nel frattempo – attraverso l'esercizio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione – anche l'attuazione del principio a rilevanza costituzionale della ragionevole durata del processo. Risulta, pertanto, funzionale al perseguimento di tali fini che la sentenza emessa dal Giudice ai sensi della citata norma di rito venga preceduta dall'espletamento di una istruttoria che consenta, da un lato, di valutare la natura della c.d. questione pregiudiziale nei termini di una sua generalizzata portata e di una sua forza estintiva di tutte le ragioni del contendere esistenti in materia, e permetta dall'altro al Giudice di pervenire in base alle acquisite risultanze processuali ad unadecisione che dia una lettura del dato pattizio esaustiva ed univoca, capace cioè di definire in termini chiari e conclusivi anche le problematiche consequenziali alla interpretazione accolta. Ne deriva che la carenza dei presupposti caratterizzanti l'iter procedurale di cui all'art. 420-bis c.p.c., e la mancanza dell'espletamento della necessaria istruttoria da parte del Giudice di merito, non rimediabile in sede di legittimità, comporta l'accoglimento del ricorso per cassazione che sia stato proposto ai sensi del cit. art. 420-bis. c.p.c., comma 3, con la consequenziale cassazione della impugnata sentenza e la remissione degli atti al primo giudice» ([28]).

In assenza di una compiuta istruttoria da parte del giudice del merito, infatti, si correrebbe il rischio di ricadere in quell’effetto “fisiologico” del giudizio di cassazione sull’interpretazione della norma contrattuale che la riforma intendeva eliminare; la Corte, infatti, sarebbe costretta a pronunciare un certo principio di diritto, su di una certa norma contrattuale, basandosi su un materiale probatorio scarno e, in un differente giudizio nel quale, per esempio, il giudice del merito avesse invece risposto positivamente all’istanza di audizione delle OO.SS. (art. 425 c.p.c.), fornendo così alla Corte, nel successivo giudizio di cassazione, informazioni necessarie, per esempio, all’applicazione del criterio ermeneutico della ricerca delle volontà delle parti, potrebbe concludere enunciando, rispetto a quella medesima norma contrattuale collettiva, un principio esattamente opposto.

La sentenza da ultimo ricordata, nel cassare la sentenza non definitiva ex art. 420-bis c.p.c. “per violazione dell’art. 420-bis c.p.c.”, sembra scongiurare questo pericolo (consentendo allo stesso giudice del merito di istruire compiutamente la causa) ma solo, appunto, con riferimento allo speciale procedimento di accertamento preventivo circa la validità, efficacia e interpretazione dei C.c.n.l.. In caso di impugnazione della “ordinaria” sentenza d’appello, invece, non pare sussistere un tale, specifico, correttivo, se non l’attenzione del ricorrente medesimo nel cogliere un eventuale diverso vizio della sentenza di merito e, cioè, quello di carente o omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo (e, quindi, ex art. 360 n. 5 c.p.c.) ([29]).

2.3.6  Il giudizio incidentale ex art. 420 bis c.p.c

Lo speciale procedimento ex artt. 420-bis c.p.c. e 146 disp. att. c.p.c. è azionabile in presenza di questione pregiudiziale sulla validità, efficacia o interpretazione di norme di contratti o accordi collettivi nazionali caratterizzata da:

–        serietà e, cioè, “sempre che il significato della clausola del contratto rimanga oscuro o equivoco”, come tale suscettibile di provocare una pronuncia del giudice della nomofilachia che interessi più casi (Cass. n. 1578 del 2008; Corte Cost. n. 298 del 2007, in Lav. giur., 2008, n. 4, 376 con nota di Graziani ed in Mass. giur. lav., 2007, n. 12, 939 con nota di Vallebona);

–        necessità e, cioè, tale da costituire l’antecedente logico indispensabile per addivenire alla definizione del giudizio di merito (Cass. 1578 del 2008).

La valutazione circa la sussistenza dei presupposti per la pronuncia ex art. 420-bis c.p.c. è rimessa al giudice del merito (Corte Cost. n. 298 del 2007), tant’è che la mancata attivazione della procedura ex art. 420-bis,pur in presenza di questione pregiudiziale rispondente a dette caratteristiche, non è motivo di appello né di ricorso per cassazione (Cass. 3072 del 2005 resa sull’art. 64 D.Lgs. n. 165 del 2001).

È anzi esclusa l’applicabilità dell’art. 420-bis c.p.c. (così come dell’art. 64 D.Lgs. n. 165 del 2001) in grado d’appello ([30]) cosicché il ricorso immediato in cassazione avverso la sentenza irritualmente pronunciata dalla Corte d’Appello ex art. 420-bis c.p.c., in applicazione delle nuove norme di cui agli art. 360 comma 3 e 361 c.p.c., sarà ammissibile solo se proposto avverso sentenza non definitiva che decida anche parzialmente il merito della controversia ([31]).

La questione pregiudiziale deve riguardare «le clausole contrattali sulle quali poggia la causa petendi ed il petitum della domanda attrice non potendo invece investire in via prioritaria ed esclusiva, e senza alcun riferimento alle suddette clausole, disposizioni contrattuali richiamate dal convenuto per eccepire l'infondatezza o la non azionabilità del diritto di controparte»([32])  

La questione pregiudiziale deve riguardare contratti di livello nazionale e - quanto alla procedura ex art. 64 Dlvo 165/01 - di comparto, non già i contratti integrativi:

I contratti integrativi - attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono - non sono sottoscritti dall'Aran ma dalle singole amministrazioni, sicché gli stessi, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione sempre di carattere decentrato rispetto al comparto. Ne consegue che a tali contratti non si applica né la procedura di interpretazione consensuale di cui all'art. 64 del d.lg. n. 165 del 2001 - la quale può essere promossa solo per i contratti di comparto (in quanto è solo per questi che l'Aran svolge attività negoziale) - né la procedura ex art. 420 bis c.p.c., la quale, pur avendo portata generale, riguarda solo i contratti ed accordi collettivi rispetto ai quali il contratto integrativo si pone in posizione di alterità nazionali ([33]).

 

La procedura ex art. 64 D.Lgs. n. 165 del 2001 si differenzia da quella ex art. 420 bis c.p.c., per l’obbligatorio (per il giudice del merito) previo coinvolgimento delle parti sociali (o, meglio dell’Aran e delle OO.SS.  firmatarie del C.c.n.l. di pubblico impiego) e l’automatica sostituzione della clausola oggetto di controversa interpretazione con l’accordo eventualmente raggiunto dalle stesse in termini di accordo di interpretazione autentica ovvero di modifica della norma contrattuale medesima ([34]).

 

2.3.7  Brevi conclusioni

Possiamo concludere, quindi, che gli strumenti offerti dagli artt. 63 e 64 D.Lgs. n. 165 del 2001 e 360 n. 3 c.p.c., 420-bis c.p.c. e 146 disp. att. c.p.c., sono certamente astrattamente idonei a raggiungere l’obbiettivo di uniformare, mediante l’intervento, anticipato o meno, della Corte di Cassazione, l’interpretazione di norme contrattuali che trovano applicazione in un numero indeterminato di casi ed investono profili delicatissimi (basti pensare alle clausole del C.c.n.l. che prevedono gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni); è altrettanto evidente, però, che il raggiungimento in concreto di tale obbiettivo dipende in gran parte dalla “bravura” degli avvocati (e, come si è visto, dei magistrati della fase del merito), rendendo la vita un po’ più difficile ma forse (consoliamoci così) contribuendo a rendere la professione sempre più stimolante.

 

2.4  Nullità della sentenza o del procedimento.

La riforma del 2006 non ha modificato il motivo di cui al n. 4 dell’art. 360, del quale pertanto ci occuperemo succintamente. Solitamente nella pratica giudiziaria i vizi  della sentenza di secondo grado (gli eventuali vizi della sentenza di primo grado sono stati assorbiti in grado di appello) denunciati sono relativi all’omessa pronuncia, ovvero all’ultrapetizione ed extrapetizione: per validamente eccepire il vizio di omessa pronuncia è necessario – in forza del richiamato principio di autosufficienza – che nel ricorso in cassazione sia trascritto lo scritto difensivo (o il verbale di udienza) del precedente grado del giudizio contenente le domande od eccezioni che si assumono ignorate per consentire ai giudici di legittimità di valutarne la ritualità e la tempestività (oltre alla decisività); ugualmente dovrà consentirsi la verifica di come il giudice di merito si sia eventualmente pronunciato oltre i termine della domanda ovvero su questioni estranee al giudizio non rilevabili d’ufficio.

I vizi del procedimento relativi alle prove che ricadono sotto il n. 4 sono tutti quelli che riguardano l’acquisizione delle stesse (allegazione, produzione, deduzione, ammissione, assunzione) oltre quelli sul mancato rispetto di norme previste dalla legge processuale, quali prescrizioni e decadenze (mentre le norme del codice civile in materia di onere della prova riguardano il diritto sostanziale, per cui la loro violazione comporta errores in iudicando e non in procedendo).

Quando vengono dedotti errores in procedendo la Corte di Cassazione «è anche giudice del fatto, ovviamente limitatamente e con specifico riferimento ai fatti relativi agli aspetti processuali prospettati, con la conseguenza che è legittimata a procedere in piena autonomia all’esame degli atti processuali, così conoscendo dei fatti che hanno dato (eventualmente) luogo alle allegate nullità» ([35]).

 

2.5 Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio

I vizi della motivazione - di cui all’art. 360 n. 5 -  costituiscono un’altra censura particolarmente diffusa nei ricorsi ai giudici di legittimità.

La formula contenuta nel codice a seguito della riforma del 1950 era «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettata dalle parti o rilevabile d’ufficio»: la novella, ripristinando sostanzialmente il testo originario del codice del 1940, precisa che i vizi attinenti la motivazione devono investire «un fatto controverso e decisivo per il giudizio».

Per fatto deve intendersi un documento, una circostanza allegata la cui rilevanza risulti decisiva ai fini del decidere: il vizio di motivazione deve essere assolutamente riferibile ad esso, perché nei casi in cui la motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria si riferisce ad una questione (e quindi ad un errore) di diritto, il motivo di cassazione non va ricercato nel n. 5 ma nel n. 3 : «quante volte la parte postula che il punto della decisione è stato deciso in modo erroneo – perché il fatto non è stato ricostruito in modo logico, mentre una volta che lo fosse stato in modo logicamente corretto, avrebbe poi dovuto essere anche diversamente deciso in diritto – il ricorrente, deve prima e separatamente fornire dimostrazione del vizio di motivazione e poi porre il diverso modo d’esser del fatto, da lui postulato, a base del quesito di diritto» esprimendo «la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe, invece, deciso».

Può leggersi in una recente decisione in materia di lavoro: «atteso che, secondo quanto dispone l’art. 360, n. 5 c.p.c. l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assuma omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, il motivo è inammissibile allorquando il ricorrente non indichi le circostanze rilevanti ai fini della decisione, in relazione al giudizio espresso nella sentenza impugnata (nella specie è stato dichiarato inammissibile il motivo di ricorso in cui si denunciava il vizio di motivazione della sentenza impugnata – che aveva respinto la domanda di un lavoratore, volta ad ottenere il risarcimento del danno alla carriera per perdita di “chances”, in ragione della riscontrata carenza di allegazione e prova dei fatti idonei a dimostrare l’effettiva perdita di possibilità di reimpiego lavorativo – limitandosi ad esporre le circostanze relative alla propria vicenda lavorativa)» ([36]).

In termini ancora più restrittivi si sono pronunciate altre  decisioni le quali, in considerazione della circostanza che per questo motivo di ricorso non è prevista la formulazione di un quesito di diritto (né potrebbe esserlo, non implicando la motivazione della sentenza censurata un errore di diritto), hanno interpretato l’obbligo di indicare chiaramente il fatto controverso come onere di elaborazione di uno specifico e chiaro “sunto” del motivo. «Allorché nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366–bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, un’indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (in applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso nel quale la sentenza impugnata veniva censurata per aver integralmente recepito una consulenza tecnica d’ufficio, ma senza indicare in modo chiaro e sintetico le ragioni per cui tale motivazione fosse inidonea a sorreggere la decisione)» ([37]).

E ancora: «nella norma dell’art. 366-bis c.p.c., nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5 del precedente art. 360 (...) deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata » ([38]).

È quindi decisamente opportuno, per i ricorsi che coinvolgono il motivo di cui al numero 5 dell’art. 360, osservare la regola suggerita dalle citate decisioni.

 

3. Formulazione dei motivi: il quesito di diritto

 

Come si è detto la novità più rilevante della riforma del 2006 – che ha mietuto maggiori vittime tra gli avvocati – era stata quella introdotta dall’art. 366-bis c.p.c. secondo cui:

 «nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4) l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5) l’illustrazione di ciascun motivo doveva contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione».       L’inammissibilità del ricorso era  rilevabile d’ufficio.

L’abrogazione dell’art. 366 bis da parte dell’art. 47, primo comma  della legge n. 69/2009 - indice di scarsa coerenza del legislatore rispetto all’innovazione più significativa introdotta appena tra anni fa - è senz’altro  una concessione alle lamentele dell’Avvocatura per le applicazioni eccessivamente rigide della norma abrogata. La mia personale opinione è che, se non vi fosse stato quell’accanimento - da parte dei giudici di legittimità -  nel voler censurare a tutti i costi, talvolta cavillosamente,  le formulazioni dei quesiti, gli stessi avrebbero potuto – e potrebbero ancora – svolgere l’utile funzione di ricondurre le nostre spesso troppo verbose esposizioni ad una sintesi delle ragioni logiche e giuridiche a supporto del singolo motivo di ricorso.  Ma ancor prima di darci la possibilità di affinare la nuova tecnica di redazione, il legislatore ha deciso di cestinare del tutto quell’esperienza triennale, che passerà quindi alla Storia unicamente per il numero di cadaveri di ricorsi lasciati sul campo,  sterminati dalla mitragliatrice carica dei proiettili chiamati “inammissibilità del quesito”.

L’obbligo di formulazione dei quesiti, però, sopravvive per le sentenze – non notificate – pubblicate successivamente all’entrata in vigore della novella[39]: conseguentemente l’obbligo di formulazione del quesito di diritto permarrà fino a quando non sarà scaduto l’ultimo “termine lungo” per l’impugnazione, che resta di un anno, in quanto per espressa previsione dell’art. 50 primo comma della legge n. 69/2009 “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (e quindi anche quelli che fissano in sei mesi il termine lungo per il ricorso in appello e in cassazione: n.d.r.) si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”.

Detto termine sarà quindi quello ultimo del 4 luglio 2010 per le cause di lavoro (per le quali non decorre la sospensione dei termini feriali) e quella del 3 ottobre 2010 (o quella successiva, ove intervenga la sospensione anche per il secondo anno) per le cause civili ordinarie: solo dopo tali date, quindi, potrà  celebrarsi il definitivo funerale del quesito di diritto.

Fino ad allora resta fermo il suggerimento di consultare le sempre aggiornate relazioni periodiche sullo stato della giurisprudenza che l’Ufficio del Massimario e del Ruolo del Supremo Collegio diffonde in rete, oltre ai i modesti consigli che seguono, che riprendono  molte delle sentenze richiamate nella relazione n. 22 del 13 febbraio 2009.

 

3. 1  Caratteristiche del quesito

Il quesito deve innanzi tutto deve essere esplicito: esso infatti «non può essere interpretato nel senso che possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso» ([40]).

Il quesito deve poi avere una portata generale.

«Il quesito (…) deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata»([41]). E’ pertanto «inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge».[42]

Se il quesito deve essere di validità e riferimento per altri casi analoghi, nello stesso tempo, però, non deve essere troppo generico, privo di riferimenti al caso concreto: «ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si concluda con la formulazione di un quesito di diritto in alcun modo riferibile alla fattispecie o che sia comunque assolutamente generico» ([43]).

Il quesito deve quindi essere generale ma specifico, e tale da «porre il giudice di legittimità in condizioni di comprendere – in base alla sola sua lettura – l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una regula iuris» ([44]), che sia «suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione , ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato articolo 366 bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie».[45]

Si profila inammissibile il profilo di ricorso in cassazione nel caso in cui il quesito di diritto si risolva in una enunciazione tautologica, priva di qualunque indicazione della questione di diritto oggetto della controversia ([46]), ovvero in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta o la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice ([47]).

Esso dev’essere poi conferente con il motivo al quale fa riferimento: «il quesito di diritto richiesto dall’art. 366-bis c.p.c. è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non è conferente alla questione che rileva per la decisione della controversia» ([48]): quando infatti il quesito di diritto si esaurisce in una enunciazione di carattere generale ed astratto che, in quanto priva di qualunque indicazione sul tipo di controversia e sulla riconducibilità alla fattispecie, non consente di offrire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, il motivo è da dichiararsi inammissibile, non potendo essere desunto o integrato dal motivo ([49]).

Il quesito di diritto inconferente va assimilato alla mancanza di quesito ([50]) in quanto anche ove, in ipotesi, la risposta al quesito fosse positiva per l’istante, risulterebbe comunque priva di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidonea a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata ([51]). In sintesi: «è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto all’illustrazione dei motivi di impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dover essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico» ([52]).

Si ritengono comunemente inammissibili i quesiti multipli, quelli mediante i quali alla Corte sia richiesto di formulare contemporaneamente più principi di diritto, in quanto «il quesito deve essere formulato in modo tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un o un no» ([53]) e i quesiti plurimi, contenenti ciascuno – e cumulativamente – censure rapportabili alle varie ipotesi dell’art. 360 ([54]).

Con riferimento alla proposizione cumulativa di plurimi motivi che siano formalmente unici ma che si rivelino, in effetti, articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, con una recente decisione il Supremo Collegio ha ritenuto che tale prospettazione si sostanzi nella proposizione cumulativa di più motivi, stabilendo quanto segue: «Affinché non risulti elusa la "ratio" dell'art. 366 bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati».([55])

La tecnica mista di deduzione delle censure è stata oggetto di argomentata critica da parte del Supremo Collegio in quanto «impedisce alla Corte di stabilire, nel vasto contesto argomentativo, quale argomento attenga al vizio della motivazione e quale alla omessa pronuncia. Si vuol dire che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, perché delimitato e vincolato dai motivi del ricorso e da ciò l’esigenza, che attiene alla certezza del diritto, di una deduzione analitica e specifica dei singoli motivi, nel rispetto della tipologia espressamente prevista dalla legge» ([56]).

Viene censurata l’abitudine - consolidata - di denunciare congiuntamente violazione di legge e vizi della motivazione (indicando quasi sistematicamente in rubrica del motivo sia il n. 3 che il n. 5  dell’art. 360) che viola la  regola di chiarezza posta dall’art. 366-bis c.p.c., giacché si affiderebbe «alla Corte di Cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una sua autonoma collocazione» ([57]).

Analogamente non è ammissibile dedurre come error in procedendo il vizio della motivazione su punto decisivo, dal momento che il vizio motivazionale è per sua essenza diverso dal vizio processuale, in quanto – come si è visto – la norma di cui al n. 5 non conferisce alla Corte il potere di esaminare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dai giudici di merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti, mentre l’error in procedendo qualificato “omessa pronuncia”, per la violazione dell’art. 112 c.p.c., esige la specificazione dei motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c. n. 4.

Da ultimo si osserva che, sotto il profilo formale, non viene richiesta una precisa veste grafica né una particolare collocazione topografica del quesito rispetto al testo del motivo, «purché esso sia espressamente riferito al motivo cui accede e che concettualmente conclude» ([58]).

Sinteticamente « Il quesito non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo; non può avere una formulazione generica nel senso di richiedere alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma; non può risolversi in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice (vedi sul punto S.U. n. 11650/2008, n. 28539/2008), ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l'enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata»([59]).

In conclusione il lavoro di formulazione dei quesiti imponeva - ed imporrà ancora per poco - la necessità di passare attraverso diverse strettoie. In alcuni casi, un adeguato uso dello strumento ha contribuito all’enunciazione di importanti principi di diritto anche in materia di diritto del lavoro come i seguenti: «la prestazione di attività lavorativa onerosa, all’interno dei locali dell’azienda, con materiali ed attrezzature proprie della stessa, e con modalità tipologiche proprie di un lavoratore subordinato, in relazione alle caratteristiche delle mansioni svolte (nella specie commesso addetto alla vendita), comporta una presunzione di subordinazione che è onere di controparte vincere. Una volta provata la subordinazione, è onere del datore di lavoro provare i requisiti formali richiesti dalla legge per le tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato» ([60]).

 

4.  Casi in cui il ricorso deve contenere il quesito

La Corte di Cassazione con la sua giurisprudenza ha individuato le ipotesi in cui deve considerarsi operante l’art. 366-bis c.p.c.:

-         ai ricorsi per regolamento per competenza ([61]);

-         all’impugnazione dell’ordinanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ([62]);

-         ai ricorsi per revocazione delle sentenze di Cassazione, laddove deve essere chiaramente indicato il “fatto” oggetto dell’errore revocatorio ([63]) si evidenzia che certi vizi della sentenza, come ad esempio il “travisamento del fatto” sono da considerare motivi di revocazione, e non di cassazione;

-         ai ricorsi in materia elettorale ([64]);

-         alla prospettazione di una questione di costituzionalità ([65]);

-         ai ricorsi nei confronti di sanzioni disciplinari irrogate a magistrati dalla Sezione disciplinare del C.S.M. ([66]) ovvero di sanzioni disciplinari nei confronti di notai ([67]) o per le decisione del C.N.F. ([68]);

-         ai ricorsi proposti nei confronti del decreto previsto dal comma 4 dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117, in materia di responsabilità civile dei magistrati[69];

-          ai ricorsi con i quali vengano impugnate sentenze pronunciate in sede di rinvio disposto dalla stessa Corte di cassazione[70];

-         ai ricorsi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 362 c.p.c. ritenendosi che «il mancato richiamo all’art. 362 c.p.c. [da parte dell’art. 366-bis: n.d.r.] va considerato frutto di un difetto di coordinamento dovuto a mera dimenticanza del legislatore e non di una consapevole differenziazione nella disciplina di fattispecie simili, le quali comportano, entrambe, la medesima richiesta rivolta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di individuare il giudice fornito di giurisdizione sulla controversia in corso» ([71]).

-          

5.  Casi in cui il ricorso non deve contenere il quesito

Si è ritenuta l’inapplicabilità dell’art. 366-bis al ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., in considerazione della sua natura non di mezzo di impugnazione ([72]) e al ricorso per conflitto di giurisdizione di cui all’art. 362 comma 2 c.p.c., anche perché in tale ricorso, che non costituisce mezzo di impugnazione, il quesito risulta già implicitamente formulato ([73]).

Occorre, inoltre, segnalare che, con riferimento specifico al ricorso proposto per violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., relativo alla deduzione di “errores in procedendo”, si è specificato che la formulazione del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. è dovuta solo se la violazione denunziata comporta necessariamente la soluzione di una questione di diritto, poiché, diversamente, ove l’inosservanza delle regole processuali dia luogo ad un mero errore di fatto, alla S.C. si chiede soltanto di riscontrare, attraverso l’esame degli atti di quel processo, la correttezza dell’attività compiuta, con la conseguenza che la formulazione del quesito di diritto non è, in tal caso, neppure configurabile ([74]).

*

Cercando di tirare, per quanto possibile, le fila di quella che è stata la parte più innovativa della riforma (e pericolosa, per gli avvocati) del 2006  e cioè l’obbligo di formulare i quesiti (e di formularli in un determinato modo), verrebbe da condividere i commento un po’ ironico di un Autore che ha prospettato, tra le altre, quest’ipotesi: «ma se l’intento del legislatore del nuovo art. 366-bis non fosse stato quello di aiutare la Corte a lavorare meglio nonostante l’overload, bensì quello di decimare magicamente i ricorsi ammissibili e poi, possibilmente, i ricorsi tout court, tanto valeva prescrivere qualcosa di più difficile del quesito: il ricorso va redatto in pentametri giambici. Il che non aiuta minimamente la Corte a lavorare meglio, ma sicuramente è alla portata di pochissimi avvocati» ([75]).

I commenti di questo tipo sono stati tanti e tali da aver indotto il legislatore ad una clamorosa retromarcia. Ma dal momento che, come si è detto sub. 3, il quesito avrebbe potuto svolgere una utile funzione di sintesi delle questioni di diritto in ballo, richiamiamo anche le osservazioni di un autorevole Autore: «Non è da escludersi che il cassazionista raffinato troverà pur sempre utile concludere il motivo del ricorso con un quesito di diritto, i cui vantaggi esplicativi e sintetici, in molti casi, resteranno evidenti. Si seguiterà insomma a fare scientemente e per piacere (rectius: per rendere il ricorso più icastico e pregevole) ciò che prima si faceva per preoccupante dovere)» ([76]).  

 

6. La Sezione filtro e il vaglio di ammissibilità dei ricorsi

Chi ha praticato la Corte di Cassazione negli ultimi anni è a conoscenza del fatto che un vaglio sull’ammissibilità del ricorso (riferito, in prevalenza, all’ammissibilità dei quesiti) veniva già operato dal Supremo Collegio attraverso la Struttura Centralizzata Esame Preliminare Ricorsi Civili ([77]), che - su impulso del relatore nominato il quale avesse ritenuto che il ricorso non fosse deciso in udienza -  poteva già sollecitare una pronuncia di inammissibilità  con ordinanza in camera di consiglio ([78]).

 Oggi tale prassi viene istituzionalizzata mediante la previsione che tutti i ricorsi (a parte quelli destinati alle Sezioni Unite) siano preventivamente assegnati ad una “apposita sezione” composta da magistrati appartenenti a tutte le sezioni  (nuovo art. 67 bis del r.d. n. 12/1941 che valuti l’ammissibilità degli stessi e/o la loro manifesta infondatezza sia alla luce del nuovo art. 360 bis sia alla luce dei  motivi di cui al (vecchio) art. 360, fermo restando che, per incappare nella sanzione dell’inammissibilità, nessuno dei motivi dovrebbe avere i requisiti giusti (riferendosi le norme di riferimento all’inammissibilità del ricorso, e non del singolo motivo[79]).

Concretamente la nuova sezione, in applicazione dell’art. 380 bis (nuovo testo, che peraltro “ricalca” il vecchio),  dovrà – tramite il relatore designato – verificare se 1) “dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’art. 360” oppure 2) “accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza” ([80]). Ove il relatore ritenga vi siano ragioni per risolvere (negativamente per il ricorrente) la questione in camera di consiglio deposita in cancelleria una relazione con una concisa esposizione delle ragioni che possano giustificare l’ordinanza di inammissibilità ovvero di manifesta infondatezza o fondatezza (art. 380 bis primo comma).

Il Presidente fissa l’adunanza della Corte in camera di consiglio con decreto da comunicare al PM e da notificare ai difensori delle parti (unitamente alla relazione) venti giorni prima della data stabilita, i quali possono depositare conclusioni scritte (il primo)  e memorie (i secondi) fino a cinque giorni prima dell’adunanza e chiedere (solo i secondi) di essere sentiti in quell’occasione (secondo comma).

Salvo il caso che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio  per altre ragioni ([81]) la Corte rinvia la causa alla pubblica udienza ([82]).

 

7. Le spese legali.

La legge del 2009 elimina il comma 4 dell’art. 385 c.p.c. introdotto dalla riforma del 2006, che prevedeva una disposizione “punitiva” finalizzata ad indurre gli avvocati a non proporre ricorsi infondati: era infatti stato previsto che la condanna alle spese potesse arrivare fino aldoppio dei massimi tariffari ove fosse stato ravvisata una colpa grave nella proposizione del ricorso o nel resistere ad esso.

La norma va però coordinata – per la parte che può interessare anche il giudizio in cassazione – anche al nuovo art. 96 c.p.c. al quale è stato aggiunto un terzo comma secondo cui “quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Si tratta di una formulazione che, esentando dalla prova del danno sia per l’an che per la quantificazione  - mediante il rinvio ad una determinazione equitativa -  può finalmente rendere applicativa la disposizione sulla lite temeraria,  che ha finora trovato forti ostacoli sul terreno dell’onere probatorio ([83]).

Il ricorrente il cui ricorso viene dichiarato inammissibile è ora esposto anche al rischio di pagare le spese di lite oltre al danno punitivo di cui al nuovo art. 96, terzo comma: un deterrente indubbiamente forte anche per gli avvocati, esposti ad un’azione di responsabilità da parte dei clienti ove non abbiano rappresentato adeguatamente tutti i rischi in campo e magari siano responsabili della declaratoria di inammissibilità per propri errori.

È questa una ragione ulteriore per indurci ad un approccio rigoroso nella redazione del ricorso per cassazione, non essendo nemmeno sufficiente – come, confesso, non lo è per me – una conoscenza astratta della problematica, ma risultando in molti casi più utile – come, confesso, io stesso faccio sempre – consultare quei colleghi che a Roma se ne occupano con esclusività e presso i quali ci domiciliamo ([84]).


([1]) Relazione al seminario del 11 dicembre 2009 promosso dalla Fondazione Forense di Bologna e dall’AGER, sezione regionale dell’ Emilia Romagna dell’ associazione   Avvocati Giuslavoristi Italiani (AGI).

([2]) L’intervento a quel convegno e quello dell’avv. Elisa Favè sono ripresi in  Il difficile compito dell’avvocato cassazionista del lavoro a due anni dalla riforma, in Lav. Giur., n. 10/2008.

([3])  La norma è stata abrogata dall’art. 47 , primo comma  della legge n. 69/2009.

([4])  Un autore ha ricordato che esattamente 150 anni fa, e cioè nel 1965,  Pisanelli (che sarebbe stato l’autore del codice del 1865) aveva stigmatizzato il fenomeno “de l’ingente numero de’ ricorsi”.

([5]) Dal momento che la volontà di eliminare il vizio di motivazione ogni tanto emerge in alcuni progetti di legge, il timore che ciò possa avvenire in modo “implicito” ha letteralmente turbato il sonno di molti Autori. L’opinione prevalente è però nel senso che una riforma così importante possa e debba avvenire alla luce del sole.

([6]) Cass. 17 luglio 2009 n. 16628.

([7]) G. Canzio, Le due riforme processuali del 2006 a confronto, in G. Ianniruberto e U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, cit., 84.

([8]) Relazione di accompagnamento del D.Lgs. n. 40 del 2006, in Guida al diritto, 2006, n. 8, VII.

([9]) S. Vacirca, Il nuovo giudizio di cassazione: supplenza zero, in Riv. giur. lav., 2008, I, 576.

([10]) A. Carrato, I motivi di ricorso, in in G. Ianniruberto e U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, cit., 226.

([11]) Cfr., tra le tante, Cass., 21 gennaio 2004, n. 15499 e Cass., 26 settembre 2005, n. 18782.

([12]) Cass. n. 22499 del 19 ottobre 2006.

([13]) S. Vacirca, op. cit., 581.

([14]) Cfr. A. Carrato, op. cit., 220.

([15]) Questa parte è ripresa dalla relazione dell’Avv. Elisa Favè al convegno di Verona sul ricorso per cassazione del 30 ottobre 2009  dell’Associazione Giuslavoristi di Verona.

([16]) Corte costituzionale n. 404/08:  È manifestamente infondata la q.l.c. degli art. 18 d.lg. 2 febbraio 2006 n. 40 e 420 bis c.p.c., censurati, in riferimento all'art. 76 cost., in quanto la previsione di un "accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi" - accertamento che il giudice di primo grado deve effettuare con sentenza impugnabile con ricorso in cassazione - esulerebbe dai principi e dai criteri della legge delega 14 maggio 2005 n. 80, perché introduce una sorta di processo incidentale obbligatorio nell'ambito del giudizio di primo grado, senza limitarsi al mero ampliamento delle ipotesi di cui all'art. 360 n. 3, c.p.c. Questione analoga è già stata dichiarata manifestamente infondata sul duplice rilievo che la legge di delegazione, nel prevedere una delega al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione, ha fissato (lett. a) del comma 3 dell'art. 1) i criteri direttivi, indicando, come obiettivo prioritario, la valorizzazione della funzione nomofilattica nel processo di cassazione, e che a tale obiettivo è strettamente funzionale l'introduzione della procedura di interpretazione pregiudiziale delle clausole dei contratti ed accordi collettivi, affidata all'iniziativa del giudice di primo grado ed all'intervento della Corte di cassazione nei termini descritti dall'art. 420 bis c.p.c., e non vengono addotti argomenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli già esaminati (ord. n. 298 del 2007).

([17]) Tra le tante Cass. 14463 del 2007, in Lav. giur., 2006, n. 12, p. 1221 e da ultimo Cass. 282 del 2008, in Lav. giur., 2008, n. 5, 519.

([18]) Cass. 15790/98:  La modifica dell'art. 360 c.p.c., introdotta dall'art. 2 d.lg n. 40/06, che ha esteso la rilevabilità in cassazione alla violazione o falsa applicazione delle norme dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, esclude, comunque, che tale ipotesi possa costituire motivo di ricorso quando si traduce in una mera censura di fatto (nella specie, la Corte ha respinto il ricorso di un Istituto di credito contro un verdetto d’appello che aveva spiegato in maniera ampia ed esaustiva le ragioni per le quali aveva ritenuto che l’attività svolta da un geometra per conto della Banca comportasse - ai sensi dell’art. 83 dell’accordo integrativo aziendale per il settore del credito - l’obbligo dell’azienda di credito di accollarsi le spese per la sua iscrizione all’albo professionale, e per le quali aveva ritenuto di attribuire alla norma contrattuale quella determinata interpretazione).



([19]) Per Cass. n. 21023 del 2007 «assume un rilievo particolare il criterio dettato dall’art. 1363 c.c. dell’interpretazione complessiva delle calusole».

([20])  Recenti pronunce hanno affermato come il giudizio di cassazione si debba svolgere non già sulla interpretazione degli artt. 1362 s.s. c.c. ma direttamente su quella della clausola negoziale come se si trattasse di una norma di legge: la Corte, quindi, resta libera di utilizzare criteri ermeneutici ex artt. 1362 ss cc, differenti sia da quelli utilizzati dal giudice di merito che da quelli indicati dal ricorrente (cfr. Cass. n. 4008 del 2008). Quando sia … denunciata la violazione della norma di un contratto collettivo nazionale la Corte di Cassazione deve autonomamente procedere all'accertamento della portata della norma in questione, non essendo vincolata alla opzione ermeneutica del giudice di merito; indipendentemente dal controllo della motivazione della sentenza impugnata e della corretta applicazione, ai fini di questa decisione, dei canoni ermeneutici legali, può ricercare liberamente all'interno del contratto collettivo ciascuna clausola - anche se non oggetto dell'esame delle parti e del primo giudice - comunque ritenuta utile alla interpretazione. Nell'enunciare in funzione nomofilattica un principio è tenuta ad operare come se l'oggetto del suo esame fosse una norma giuridica e non, invece, un negozio di natura privatistica il cui esame impone, pure in questo caso, accertamenti di carattere fattuale e la praticabilità di una metodica interpretativa incentrata non sull'art. 12 preleggi, ma sui generali criteri codicistici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., applicabili a tutti gli atti espressione dell'autonomia privata (Cass. 25 settembre 2007 n. 19710).

([21]) A conferma di ciò, in applicazione dell’art. 63 co. 5 TU P.I. Cass. 22234/2007, interpellata circa la «violazione degli artt. 39 e 44 CCNL comparto enti pubblici non economici sottoscritto il 14.02.2001» ha accolto il ricorso affermando il seguente principio ex art. 384 c.p.c.: «deve affermarsi che l’art. 39 del contratto collettivo (…) va interpretato nel senso che l’indennità di bilinguismo spetta nella stessa misura e con le stesse modalità previste per il personale della regione Trentino-Alto Adige a decorrere dal 15.2.01, senza che tuttavia l’indennità stessa possa essere considerata parte della retribuzione base». Analogamente Cass. 2796/2008 ha concluso enunciando il seguente principio ex art. 384 c.p.c.: «Il combinato disposto degli artt. 73 e 82 del contratto collettivo di lavoro del 6 febbraio 1998 per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato va interpretato nel senso che l’edr di cui all’accordo collettivo (…) va computato nell’assegno pensionabile di cui all’art. 82 citato».

([22]) Cassazione civile  sez. lav. 6 febbraio 2008  n. 2796: Nella procedura ai sensi dell'art. 420 bis c.p.c. la Corte di cassazione può liberamente ricercare, all'interno del contratto collettivo, qualunque clausola ritenuta utile all'interpretazione, ma non può assumere nuove iniziative istruttorie - attività riservata al giudice del merito - dovendo decidere sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito in primo grado. Ne consegue che i contratti collettivi successivi a quello da interpretare ex art. 420 bis c.p.c. non sono utilizzabili per la determinazione della comune volontà delle parti del precedente contratto ove: a) tale verifica presupponga indagini su circostanze di fatto; b) gli stessi, oltre ad essere estranei anche "ratione temporis" al "thema decidendum", non siano stati oggetto di esame da parte del giudice del merito; c) l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulla portata del più recente contratto non costituisca, nell'ambito del giudizio in corso, un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c.

([23]) Cass., Sez. un., 20 aprile 2005. n. 8202. Il principio è stato ribadito tra le altre da Cass. 14696 del 2007, che ricorda come, peraltro, il rigido regime di preclusioni sia mitigato, nel rito lavoro, dai poteri del giudice di disporre anche d’ufficio mezzi di prova – pur sempre con riferimento a fatti ritualmente allegati dalle parti – se indispensabili ai fini della decisione (art. 437 c.p.c.). con specifico riferimento ai ccnl però si veda Cass. 23745/08 secondo cui “Nel rito del lavoro, i mezzi di prova ed i documenti che, a pena di decadenza, il ricorrente deve, in forza degli art. 414, comma 1, n. 5, e 415, comma 1, c.p.c., indicare nel ricorso e depositare unitamente ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a fondamento della domanda e, tra questi, non è riconducibile il contratto o l'accordo collettivo qualora esso debba costituire un criterio di giudizio. Infatti, anche prima dell'entrata in vigore del d.lg. n. 40 del 2006 che, nel modificare l'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ha posto sullo stesso piano, tra i motivi di ricorso, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, onerando il ricorrente per cassazione di depositare il testo di quest'ultimi (art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., come modificato dal citato d.lg. n. 40), il codice di rito risolveva il problema della conoscibilità della regola di giudizio affidando al giudice, senza preclusioni, il potere di chiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti o accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa (art. 425, comma 4, c.p.c.), i quali, pertanto, seppur non formalmente inseriti fra le norme di diritto, rimanevano, sul piano dell'acquisizione al processo, distinti dai semplici fatti di causa. (Nella specie, la S.C., enunciando il principio anzidetto, ha rigettato il motivo di ricorso con il quale era stata dedotta la violazione degli art. 414 e 415 c.p.c. per avere il giudice di appello fondato la propria decisione su un accordo economico collettivo il cui testo era stato prodotto in primo grado dal ricorrente successivamente al deposito dell'atto introduttivo del giudizio).

([24]) Cass. n. 19695/07; Cass. n. 21080/08.

([25]) Cass. n. 5050/08; Cass. n. 24654/08

([26]) Ed invero, seppure non possono che condividersi le premesse sul presupposto del principio dispositivo, sulla necessità che la Corte giudichi comunque iuxta alligata et probata e sulla non conoscibilità delle fonti collettive private al di fuori delle rituali allegazioni processuali, ritiene il collegio che tali premesse non siano smentite dalla interpretazione che, nel coordinamento tra l'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 420 bis c.p.c., affermi la necessità del deposito dell'intero contratto o accordo collettivo. In tal modo, infatti, è la stessa legge processuale che, per la soluzione della questione in funzione nomofilattica, richiede il detto deposito.(...) Vero è che anche il deposito dell'intero contratto o accordo collettivo può risultare, nel contempo per un verso eccedente e per altro verso carente, ma tale argomento non può essere sufficiente per negare una ragionevole "via di mezzo", che garantisca una adeguata cognizione e soluzione della questione, in funzione dell'evidenziato "obiettivo prioritario". Del resto il perimetro dell'intero contratto risulta senz'altro "ragionevole", alla luce del "rilievo preminente" costantemente attribuito, in tema di interpretazione dei contratti collettivi, al criterio ermeneutico dettato dall'art. 1363 c.c., (v. fra le altre Cass. 21-3-2006 n. 6264, Cass. 8-9-2005 n. 17844, Cass. 9-3-2005 n. 5140, Cass. 22-6-2004 n. 11622, Cass. 3-7-2001 n. 9021).

([27]) Con riferimento ai ccnl per il pubblico impiego però per Cass. S.U. 30.11.2008 n. 26013 è obbligo del giudice impiegare tutti gli strumenti investigativi, di ricognizione delle fonti extradocumentali e di analisi critica immanente, previsti dalla norme civilistiche e processuali, per l'esatta ricostruzione della volontà delle parti.”, mentre per Cass. S.U. 4.11.2009 n. 23329 L’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorché la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole; con il peculiare procedimento formativo e di pubblicità, l’esigenza di certezza e di conoscenza del contratto collettivo di diritto pubblico da parte del giudice già era assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (ai sensi dell'art. 47, comma 8, del decreto legislativo n. 165 del 2001), sicché la previsione introdotta dal decreto legislativo n. 40 del 2006 deve riferirsi ai contratti collettivi di diritto comune.

([28]) Cass. n. 1578 del 2008 che conclude: «Il Tribunale di Roma cui va rimessa la controversia per il suo prosieguo potrà se vorrà, nel rispetto dei principi innanzi enunciati, ripercorrere su nuove basi l'iter procedurale prescritto dall'art. 420 bis c.p.c., per la risoluzione della questione attinente alla interpretazione della clausola controversa». Conforme: Cass. n. 6429 del 2008.

([29]) In questo senso Cass. 14731 del 2006, in Lav. giur., 2007, n. 1, 92, così massimata «nel rito lavoro, ai sensi del disposto degli artt. 421 e 437 c.p.c., l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dar conto; tuttavia, per idoneamente censurare in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sul punto della mancata attivazione di tali poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito».

([30]) Corte Cost. n. 298 del 2007; Cass. n 22874/2008; conformi tra le tante: Cass. n. 19695 del 2007, Cass. n. 5230 del 2007 e n. 3770 del 2007, in Lav. giur., 2007, n. 9, p. 913 con commento di Guarnieri; si veda anche M. Tatarelli, L’art. 420-bis c.p.c. è inapplicabile nel giudizio d’appello, in Lav. giur., 2007, n. 7, 599.

([31]) Si segnala, a questo proposito, l’interessante decisione n. 19695 del 2007 con la quale la Corte, investita del ricorso immediato per cassazione avverso sentenza non definitiva irritualmente pronunciata ex art. 420-bis c.p.c. dalla Corte d’Appello di Roma, ha “trattato” il ricorso come un ordinario ricorso ex art. 360, comma 3, c.p.c. e, rilevando come la Corte d’Appello avesse arbitrariamente frazionato la domanda del ricorrente in due diverse domande e ne avesse, con la sentenza parziale e sulla base di una determinata interpretazione del C.c.n.l. rilevante nel caso di specie, decisa nel merito una, preso atto che nessuna delle parti, però, aveva impugnato tale sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), ha dichiarato ammissibile il ricorso in quanto proposto, appunto, avverso sentenza non definiva che però aveva deciso almeno una delle domande proposte e lo ha accolto enunciando direttamente l’interpretazione da dare alla clausola contrattual-collettiva, con rinvio – non già, come previsto dall’art. 420-bis c.p.c. al medesimo Giudice ma – alla Corte d’Appello in diversa composizione.

([32]) Cass. n. 3098 del 2008.

([33]) Cass. n. 5404 del 2008.Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione avverso la sentenza che aveva applicato la procedura ex art. 420 bis c.p.c. per interpretare l'accordo 13 giugno 2001 stipulato tra le oo.ss. a livello nazionale ed i rappresentati del Ministero del lavoro, avente ad oggetto l'attualizzazione del protocollo di intesa del 31 maggio 2000 in materia di riqualificazione del personale ministeriale, allegato al contratto collettivo integrativo nazionale del Ministero del 25 ottobre 2000.

([34]) Circa la non vincolatività per il Giudice del merito degli accordi collettivi occasionati dalla procedura in discorso che non siano né di interpretazione autentica – sebbene così qualificati dalle parti medesime – né di modifica, e che si limitino ad esprimere il convincimento delle parti sociali circa la validità della clausola contrattual-collettiva si veda Cass. n. 16504/2008.

([35]) A. Carrato, op. cit., 236. V. per la giurisprudenza nota 48.

([36]) Cass., S.U., n. 11652 del 12 maggio 2008.

([37]) Ord, n. 8897 del 7 aprile 2008.

([38]) Ord, n. 16002 del 18 luglio2007. Conformi ord. n. 4309 del 2008; n. 4311 del 2008; n. 4646 del 2008, n. 8897 del 2008; n. 16558 del 2008; n. 16567 del 2008. Cfr. anche Cass., S.U., n. 20603 del 2007; Id. n. 11652 del 2008.

([39]) La legge 18 giugno 2009 n. 69 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 19 giugno 2009 n. 140 S.O. ed è pertanto entrata in vigore il 4 luglio 2009.

([40]) Cass., S.U., n. 7258 del 2007.

([41]) Cass., S.U., n. 3519 del 2008.

([42]) Ord. n. 19768 del 2008; Sent. n. 24339 del 2008; cfr Sent. N.17064 del 2008;

([43]) Cass., S.U., n. 36 del 2007; Idem, n. 8466 del 2008; Cass. S.U., Sent. n. 18759 del 2008. Rispetto ad un quesito di diritto così formulato: “Dica la Suprema Corte se le domande e le eccezioni svolte per la prima volta in appello, e contenenti quindi la prospettazione di nuove circostanze, il mutamento dei fatti costitutivi e/o estintivi del diritto fatto valere nel giudizio di primo grado, e la conseguente introduzione nel processo di un nuovo tema d'indagine comporti l'inammissibilità del gravameCass. S.U. Sent. n. 5624 del 2009 ha ritenuto il motivo “inammissibile, a norma dell'art. 366 bis c.p.c., per la genericità e l'astrattezza del quesito, che non contiene alcun riferimento alla fattispecie concreta, e precisamente ai fatti costitutivi e/o estintivi dedotti in primo grado, nonché alle eccezioni e domande che sarebbero state proposte per la prima volta in appello introducendo nuovi temi d'indagine, risolvendosi nella richiesta alla Corte di una mera affermazione di principio, inidonea, di per sé, a condurre all'accoglimento del motivo”.

([44]) Cass., S.U., ord. n. 2658 del 2008; Idem, sent. n. 3519 del 2008.

([45]) Cass. S.U., Sent. n. 26020 del 2008.

([46]) Cass. Sent. n. 11210 del 2008 ;

([47]) Cass. S.U. Sent. n. 28536 del 2008.

([48]) Cass., S.U., sent. n. 8466 del 2008.

([49]) Cass., S.U., sent. n. 6420 del 2008;

([50]) Cass. S.U., n. 14385 del 2007.

([51]) Cass. S.U., Sent. n. 11650 del 2008;

([52]) Cass. S.U., n. 20360 del 20072007.

([53]) Cass., n. 3896 del 2008; Cass., n. 1906 del 2008.

([54]) Cass.  n. 5471 del 2008.

([55]) Cass., Sent. n. 5624 del 2009.

([56])  Cass., n. 13233 del 22 maggio 2008. V. però, contra, Cass. n. 976 del 18 gennaio 2009.

([57]) Cass., ord. n. 9470 del 2008, con la quale la Sezione Lavoro ha considerato inammissibili tre su quattro motivi «per mancanza dei quesiti di diritto».

([58]) Cass., ord. n. 5073 del 2008.

([59]) Cass., S.U. n. 19404 del 9 settembre 2009.

([60]) Cass., 6 settembre 2007, n. 18692 con la quale Suprema Corte ha cassato la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro del 10 febbraio 2004 n. 187 statuendo, tra l’altro che: “alcune volte la volontà delle parti nulla può contro certe modalità esigite (rectius: “esatte”  Ndr) dal processo tecnologico applicato alla produzione del bene o servizio richiesto: il lavoro di fabbrica è il prototipo del lavoro subordinato, sarebbe vano nominare autonomo il lavoro alla catena di produzione; analogamente l’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprie delle stessa costituisce un forte indizio, che concorre a dar luogo del giudizio di sintesi sulla subordinazione … Sembra opportuno ribadire che nel campo del diritto del lavoro (che comprende, ex art. 35 Cost., qualsiasi tipologia lavorativa), in ragione della disuguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell’immanenza della persona del lavoratore e del contenuto del rapporto e, infine, dell’incidenza che la disciplina di quest’ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi, le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all’autonomia individuale, cosicché il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. E la violazione del modello di contratto e di rapporto imposto all’autonomia individuale dà luogo, di regola, alla conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto (Corte Cost., 21 gennaio 1992, n. 210; Cass., 2 giugno 1999, n. 5411)”.

([61]) Cass. ordd, n. 4064-4065 del 2007; n. 4071 del 2007; n. 6278 del 2007; n. 7402 del 2007; n. 13138 del 2007; n. 15584 del 2007.

([62]) Cass., ordd, n. 15108 del 2007; n. 7537 del 2008; n. 13194 del 2008

([63]) Cass., ordd, n. 4640 del 2007; nn. 5075-5076 del 2008; sent. n. 6638 del 2008.

([64]) Cass. sent. n. 14682 del 2007; Cass., S.U., sent. n. 7258 del 2007.

([65]) Cass., ord, n. 4072 del 2007.

([66]) Cass., S.U., sentenze n. 16615 del 2007 e n. 20603 del 2007.

([67]) Cass., ord, n. 10160 del 2008.

([68]) Cass., ord, n. 2272 del 2008.

([69]) sentenza n. 19717/2008

([70]) Cass. ord. n. 22301/2008;

([71]) Cass., S.U., sent. n. 7258 del 2007; conformi n. 2658 del 2008 e n. 3519 del 2008; ord. n. 19348 del 2008; 27.347 del 2008; n. 28054 del 2008 e 12.645 del 2008.

([72]) Cass., S.U, ord, n. 22059 del 2007, n. 5924 del 2008, n. 3144 del 2008, n. 3171 del 2008.

([73]) Cass., ordd, nn. 2280-2281 del 2008; Cass., S.U., sent. n. 10466 del 2008.

([74]) Cass., .sent. n. 16941 del 2008. V. però Cass. ord.. n. 4329 del 23 febbraio 2009, che in parziale dissonanza, ha precisato che il motivo che denunci la violazione dell’art. 112 c.p.c. deve concludersi in ogni caso con la formulazione del quesito di diritto.

([75]) A. Briguglio, La Cassazione e i quesiti, in Giust. civ. 2007, I, 12.

([76]) A. Briguglio,  Ecco il “filtro”! (l’ultima riforma del giudizio di cassazione) – Scritti in onore di Modestino Acone. nota .5 p. 6.

([77]) Istituita dalla legge n. 89/2001.

([78]) L’art. 380-bis c.p.c. prevedeva già, nel testo riformato nel 2006 (ed ora nuovamente modificato dalla legge n. 69/2009),  che quando il relatore ritenga che vada adottato il rito camerale depositi una relazione con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi per cui ritiene che il ricorso possa essere deciso con ordinanza in camera di consiglio; in questa ipotesi, almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza il decreto e la relazione sono comunicati al PM e notificati agli avvocati, per consentire loro di presentare, rispettivamente, conclusioni scritte e memorie (cinque giorni prima) e chiedere di essere sentiti.

Va considerato, inoltre, che fino alla riforma del 2006 non era previsto il contraddittorio delle parti per le questioni rilevate d’ufficio  e poste a base della decisione: per ovviare a ciò è stato inserito il terzo comma dell’art. 384 per cui la Corte, quando ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, “riserva la decisone, assegnando con ordinanza al pubblico ministero  e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.

   Questa doverosa disposizione, di fondamentale importanza in un contesto di allarme sociale rispetto al moltiplicarsi delle inammissibilità rilevabili anche d’ufficio, non viene però - nella prassi  - ritenuta applicabile quando, ad esempio, sia il pubblico ministero a sollevare per la prima volta nella discussione in pubblica udienza una questione di inammissibilità: la Corte infatti ritiene non potersi parlare, in questo caso, di questione rilevata d’ufficio e riserva la decisione senza concedere termine ai difensori per replicare. 

([79] ) Cfr. A. Briguglio, op. ult. cit.. p.5.

([80]) Sono i numeri 1 e 5 del nuovo art. 375 c.p.c., richiamati dal nuovo art. 376 c.p.c. a loro volta richiamati dal nuovo art. 380 c.p.c.: la riscrittura dei citati articoli  si è resa necessaria dall’introduzione dell’art. 360 bis c.p.c., dall’abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c. e dalla sostituzione della Struttura da parte della nuova “apposita Sezione”, ma il meccanismo processuale resta identico a quello “vecchio” (di tre anni...)  richiamato alla nota 72.

([81])  Quelle previste dai numeri 2 e 3 dell’art. 375 c.p.c. : integrazione del contraddittorio; necessità che sia disposta o rinnovata la notificazione a norma dell’art. 332 c.p.c.; pronuncia di estinzione del processo in caso diverso dalla rinuncia.

([82]) La norma non è esemplare per chiarezza. La definisce “un  autentico pataracchio” F. Carpi, Il tormentato filtro al ricorso in cassazione, p. 5, che non si esime dal censurare anche un mancato uso del congiuntivo (“non ricorrano” anzichè “non ricorrono”) all’ultimo comma.

([83]) Ciò non ha però impedito che con sentenza del 27 febbraio 2009 n. 4829 del S.C. sia stata inflitta alla parte soccombente la condanna per responsabilità aggravata per aver omesso negligentemente la formulazione dei quesiti di diritto sostanzialmente riproponendo le questioni di merito e reiterando censure del tutto generiche.

([84]) Non dimentichiamo che gli avvocati cassazionisti in Francia sono un centinaio, mentre noi siamo circa 40.000. Nel momento in cui decidiamo di cimentarci in un’attività professionale che impone parametri di impostazione e di pensiero completamente diversi da quelli che quotidianamente utilizziamo nei giudizi di merito, un po’ di umiltà non guasta.