La figura del datore di lavoro pubblico (di Alessandro Bellavista)

La figura del datore di lavoro pubblico  

1. Premessa. Il problema dell’individuazione del datore di lavoro pubblico. 2. La “ricerca di un padrone serio”. 3. Politica e amministrazione. Il ruolo della dirigenza.  4. La sovranità dei cittadini. 5. La pluralità dei modelli dirigenziali. 6. La struttura del rapporto di lavoro dirigenziale. 7. Le prospettive di riforma. 8. Dirigenza professionale e fiduciaria. Il nodo degli incarichi. 9. L’accesso alla dirigenza e la scelta dei soggetti da preporre agli uffici. 10. La dirigenza esterna. 11. La durata degli incarichi. 12. La valutazione della dirigenza e dei servizi. 13. La responsabilità dirigenziale e la tutela del dirigente. 14. Il licenziamento del dirigente. 15. I “nuovi” compiti del dirigente. 16. Segue: i “nuovi” poteri. 17. La contrattazione collettiva nazionale. 18. La legge finanziaria per il 2009. 19. La riforma della contrattazione collettiva nazionale. 20. La contrattazione integrativa. 21. Verso la riforma della contrattazione integrativa. 

1. Una delle chiavi di lettura del deciso processo di trasformazione delle pubbliche amministrazioni italiane, avviato con le riforme degli anni novanta del secolo scorso, è il passaggio, almeno in via tendenziale, dal modello d’organizzazione di tipo burocratico a quello di tipo aziendale, e cioè d’impresa, allo scopo di realizzare una maggiore efficienza dell’amministrazione[1]. Ciò implica la finalizzazione dell’azione amministrativa ad obiettivi e risultati e comporta un radicale mutamento delle forme e delle modalità di gestione degli apparati, in quanto proprio “la finalizzazione ad obiettivi e risultati – piuttosto che la mera uniformazione a regole di decisione e a procedure precostituite – accentua il rilievo del principio di responsabilità rispetto al principio di legalità”[2].Nel nuovo quadro normativo, una delle disposizioni cardine della disciplina del lavoro pubblico è costituita dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, secondo cui “nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. Inoltre, il comma 2 dell’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001 afferma che “ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo”. E che “essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”. Di fronte all’inequivocabile chiarezza di tali affermazioni, v’è da chiedersi se la realtà effettuale corrisponda al modello giuridico-formale. A ben vedere, infatti, è possibile affermare che una delle caratteristiche determinanti della riforma, fin dal suo decollo con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, è stata il tentativo di realizzare l’autonomia della dirigenza, che è “configurata come corpo che realizza la combinazione fra risorse organizzative ed umane  tramite la sua duplice capacità, pubblicistica e privatistica, sì da assumere le sembianze di un Giano bifronte, amministratore pubblico e datore di lavoro privato”[3]. A tal punto che si parla di “una fictio iuris ... necessaria perché senza la figura di un datore di lavoro ‘pubblico’ non era possibile impostare neppure concettualmente la privatizzazione; ma proprio perché finzione giuridica, essa restava tutta affidata alla disciplina legislativa costruita per darle quella realtà di cui la figura del datore di lavoro privato non aveva certo bisogno”. E ciò “doveva inevitabilmente comportare una debolezza intrinseca tale da rendere notevole la distanza fra copione e recitazione, anche quando quest’ultima fosse offerta al meglio”. Questo perché “è l’imprenditore, individuale o collettivo, il tipico datore privato, che risponde al mercato, per quanto possa essere significativo il ruolo del management, mentre qui il dirigente/datore di lavoro risponde non ad un mercato che è inesistente, ma ad un vertice politico istituzionale, che pur dovrebbe essere posto in grado di servirsene onde assolvere il mandato ricevuto per elezione o per nomina sicché, da un lato, come datore deve essere autonomo, dall’altro, come funzionario deve essere soggetto al vertice”[4]. Pertanto, il tema della figura del datore di lavoro, nel settore pubblico, riguarda, in via principale, il fondamentale problema della costruzione giuridica del soggetto che svolga effettivamente funzioni assimilabili a quelle del datore di lavoro privato[5]. Ma ancora più importante, oltre all’identificazione del titolare formale e sostanziale delle tipiche prerogative del datore di lavoro all’interno delle pubbliche amministrazioni[6], non è solo l’accertamento di una mera similitudine di posizioni e poteri; bensì anche la verifica, sulla base della “lezione dei fatti”[7], se il datore di lavoro pubblico assuma le stesse o analoghe modalità di comportamento e forme di responsabilità del datore di lavoro privato[8]. Il dibattito al riguardo è stato rinvigorito dalla recente attenzione che hanno dedicato i mass media alle questioni del lavoro pubblico e dell’efficienza dei servizi pubblici – forse con un eccesso di concentrazione sul problema dei “fannulloni”[9] che ovviamente non è la causa ma l’effetto di un noto stato di cose, frutto soprattutto di comportamenti distorsivi di un’amministrazione senza testa[10] - e anche dalla crisi finanziaria che ha spinto il legislatore a varare misure di contenimento e di razionalizzazione della spesa relativa al personale e alle amministrazioni pubbliche. Nella scorsa legislatura tali temi sono stati specificamente affrontati nel Memorandum d’intesa su lavoro pubblico e riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, “Per una nuova qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche”, sottoscritto (in via definitiva il 6 aprile 2007) tra le autorità di governo centrale e periferiche con le organizzazioni sindacali, nonché da progetti di legge d’iniziativa parlamentare elaborati da gruppi di studiosi[11]. Da ultimo, con inusitata celerità, è stato approvato, con diverse modifiche rispetto al testo originario, il disegno di legge di iniziativa governativa n. 847, contenente la “delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti”, e che è confluito nella legge 4 marzo 2009, n. 15. Il disegno di legge di iniziativa governativa[12] è stato discusso, nelle sedi parlamentari, fronteggiando il punto di vista dell’opposizione che aveva presentato il disegno di legge n. 746, i cui primi firmatari sono stati Ichino e Treu. Nel corso di questa relazione, verranno anche analizzati i punti della legge delega più strettamente inerenti al tema. Tuttavia, va messo in luce come la delega sia talmente ampia da consentire un’intera riscrittura della disciplina vigente del lavoro pubblico, nella direzione anche contraria a quella perseguita dalle riforme degli anni novanta: e cioè, verso una forte rilegificazione dei modelli di azione degli attori che si muovono in tale ambito e quindi della diminuzione degli spazi lasciati alla loro autonoma determinazione[13]. La fondatezza di questa aspettativa nei confronti della virtù taumaturgica dell’intervento legislativo andrebbe però misurata sulla base degli insegnamenti provenienti proprio dalla storia delle mancate o inattuate riforme amministrative italiane e, in particolare, del lavoro pubblico[14]. Comunque, per inquadrare al meglio il tema in esame, si tratta di fare qualche passo indietro e rievocare il contesto in cui esso va collocato. In questa prospettiva, va accolto il suggerimento, “di fronte al lavoro pubblico, di non osservarne i tratti in una visione, diciamo così, statica: nella quale cioè il giurista, fermandosi alle regole formali, si ‘limita’ (e le virgolette sono d’obbligo) a verificare lo stato della legislazione, che disciplina il fenomeno oggetto di indagine…; per la verità, ugualmente sterile sarebbe adottare il punto di vista opposto: se, cioè, ci si fermasse alle prassi dei diversi contesti amministrativi, quasi a considerarle l’inevitabile degenerazione applicativa di un modello legale, in sé perfettamente armonico ed efficiente”. Insomma, “il rapporto tra le ‘regole’ giuridiche e i ‘fatti’ sociali, che le medesime regole intendono disciplinare, è, spesso, circolare: le regole vanno poste, interpretate e, se occorre, modificate, tenendo conto della realtà; ma le prassi reali, a loro volta, vanno valutate (e, a seconda dei casi, incoraggiate o fermate), senza mai perdere di vista le norme, correttamente interpretate nella loro ratio”[15]. Così, è opportuna “l’adozione di un approccio realistico, che superi un atteggiamento di ‘deferenza’ e ‘obbedienza’ rispetto alle regole poste dal legislatore, e si ponga il problema della loro ‘efficienza’, guardando non solo alla interpretazione delle disposizioni normative ed alla loro ricostruzione in ordini concettuali, ma anche alla loro ‘funzionalità’, e al loro livello di attuazione, alle loro conseguenze”[16]. 

2. Una delle idee fondamentali che hanno ispirato la riforma del lavoro pubblico, scattata con prepotenza all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, è stata quella della “ricerca di un padrone serio”[17]. Più precisamente, la costruzione di una tale figura costituiva una precondizione per raggiungere l’obiettivo di rendere più efficienti le pubbliche amministrazioni, sub specie della loro funzionalizzazione ai bisogni del cittadino, e di avviare la trasformazione delle forme organizzative dal modello burocratico al modello d’impresa. Ciò perché il sistema precedente aveva messo il luce, in primo luogo, una forte ingerenza degli organi politici nella gestione delle pubbliche amministrazioni[18]. Infatti, nonostante le formali dichiarazioni di principio e i timidi tentativi di riforma, avviati fin dal 1972, ma travolti nella loro pratica applicazione, gli organi politici mantenevano e comunque esercitavano i poteri di amministrazione concreta e la dirigenza pubblica si presentava come un pallido simulacro dell’omologa figura presente nel settore privato: essa era quasi priva di effettivi poteri e spesso accettava di buon grado di essere esautorata da quelli di cui disponeva da parte degli organi politici, limitandosi ad eseguirne puntualmente gli ordini e le indicazioni. Si realizzava così quello che è stato chiamato lo “scambio di  potere contro sicurezza”[19]: nel quale la dirigenza amministrativa di fatto rinunciava ad esercitare i poteri ad essa formalmente conferiti, a favore dei vertici politici che continuavano a svolgere compiti di amministrazione concreta, in cambio della esenzione da ogni responsabilità per l’attività gestionale e della sicurezza per quanto riguardasse la propria carriera e il relativo status.  Sicché, gli organi politici tendevano fisiologicamente ad instaurare relazioni basate su logiche elettorali e clientelari, con le organizzazioni sindacali e il personale; ed esercitavano i poteri di gestione  come strumenti di mera acquisizione e conservazione del consenso, in un contesto del tutto al di fuori del mercato e delle sue regole. Inoltre, ma si trattava dell’altra faccia della stessa medaglia, il sistema delle relazioni sindacali era dominato da ramificate forme di cogestione (tra amministrazione e sindacati), riconosciute espressamente dalla normativa oppure affermate sul piano della prassi, che si diffondevano nelle aree dell’organizzazione del lavoro e della stessa organizzazione amministrativa[20]. La politicizzazione delle logiche di comportamento della parte datoriale rendeva impossibile l’esistenza di un contrasto d’interessi tra amministrazioni e dipendenti e perciò poneva il mondo del lavoro pubblico ben lontano dalle dinamiche tipiche del sistema di relazioni industriali del settore privato[21]. Di conseguenza, l’impiego pubblico godeva di una sorta di “rendita differenziale” rispetto al lavoro privato, pregiudicando il perseguimento dell’efficienza dei servizi pubblici e la soddisfazione degli interessi dell’utenza; impedendo quindi, di fatto, la realizzazione dei fini istituzionali delle organizzazioni pubbliche[22].Nella visione dei riformatori, la privatizzazione dei rapporti di lavoro rappresenta una delle condizioni per migliorare il funzionamento della macchina amministrativa, nella consapevolezza che “in realtà il problema del pubblico impiego è soltanto in parte un problema di adeguamento del quadro normativo; assai più importanti sono i profili gestionali e applicativi”. E cioè: “nell’impiego pubblico è necessario inventarsi un ‘padrone’ che controlli, assumendo in prima persona la responsabilità delle scelte”. Così, “in definitiva, ogni ricostruzione tecnico-giuridica di un diritto ‘comune’ del lavoro è destinata ad essere una ricostruzione di belle parole, se non si scioglie il nodo della dirigenza pubblica”[23]. Proprio in base alla considerazione che “la mutazione morfologica della dirigenza” rappresenta la “premessa indispensabile perché la riforma del pubblico impiego possa realmente produrre il cambiamento auspicato”[24], già fin dalla prima versione del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, l’obiettivo è quello di predisporre un meccanismo normativo che modifichi la figura del dirigente pubblico e che permetta di individuare in esso l’effettivo omologo del dirigente del settore privato - di cui una nota caratteristica è quella di esercitare le prerogative del datore di lavoro e di agire come vera e propria controparte rispetto al resto dei dipendenti - e quindi di attribuirgli concreti poteri di organizzazione e di gestione dei rapporti di lavoro, bilanciati da un regime della responsabilità ancorato all’andamento e ai risultati della propria opera. Ecco perché si sottolinea che la riforma cerca di “rafforzare sostanzialmente i poteri della dirigenza” e di “promuovere un suo interesse autonomo al buon andamento dell’amministrazione al riparo sia da indebite interferenze del potere politico sia dal paralizzante regime cogestionale che caratterizzava le relazioni sindacali sotto la legge quadro”[25]. Come si vede, la riforma, per creare una vera figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni s’è dovuta muovere, principalmente, lungo due direzioni: la prima, costruire un apparato regolativo che garantisse effettivamente l’autonomia della dirigenza; la seconda, delineare, in via normativa, un quadro di relazioni sindacali in cui, soprattutto in capo alla parte pubblica, potessero svilupparsi logiche di comportamento simili alle dinamiche prevalenti nel settore privato. 

3.La costruzione di una vera figura datoriale, all’interno delle pubbliche amministrazioni, ha determinato la necessità di prendere posizione sull’assetto delle relazioni tra politica e amministrazione che “costituiscono, in tutte le democrazie liberali, un punto emblematico di tensione”[26]. Il legislatore della riforma adotta un determinato modello, tra i vari pur possibili, in tema di rapporto tra politica e amministrazione conciliando le ambivalenti indicazioni che provengono dagli artt. 95, 97 e 98 Cost.[27]. Tale modello, che rovescia quello precedente, è basato sul principio della distinzione tra le attribuzioni degli organi politici e quelle dei dirigenti. Il principio ha portata generale in quanto, non solo è affermato nelle leggi delega che aprono rispettivamente la prima e la seconda privatizzazione, ma è altresì contenuto nell’art. 4 del titolo I del d.lgs. n. 165/2001, dedicato ai “principi generali”. Bene infatti s’è detto che esso costituisce il “principio dei principi della cosiddetta privatizzazione”[28]. Nel nuovo assetto, la politica continua a governare le amministrazioni pubbliche non più direttamente, bensì mediante il governo degli uomini: alla politica restano solo il potere di scegliere gli alti burocrati e il compito di indirizzo e di controllo dei risultati dell’attività di amministrazione concreta che invece spetta esclusivamente a questi ultimi. Così, proprio perché tutta l’attività di amministrazione concreta compete solo ai dirigenti, essi godono in quest’ambito di piena autonomia gestionale alla quale è connessa una specifica responsabilità per il mancato raggiungimento dei risultati. Si dice infatti che il rapporto tra politica e amministrazione si è trasformato, passando da uno schema basato sulla gerarchia – e pertanto sull’indistinzione delle competenze tutte imputabili all’organo politico – ad uno fondato sulla direzione e quindi sulla distinzione funzionale delle competenze tra le due figure[29]. Di conseguenza, i dirigenti nell’ambito delle rispettive competenze hanno piena autonomia gestionale[30].In estrema sintesi, il legislatore della riforma tenta di creare un processo circolare ovvero “un circuito virtuoso tra autonomia e responsabilità”[31] costituito da tre fasi. Nella prima, gli organi politici stabiliscono gli indirizzi e gli obiettivi dell’azione amministrativa; nella seconda, i dirigenti agiscono con completa autonomia per la realizzazione degli obiettivi prefissati; nella terza, gli organi politici controllano se l’attività dei dirigenti ha raggiunto gli scopi anzidetti. La verifica incide sull’erogazione della componente retributiva ancorata al risultato, fino all’estromissione del dirigente incapace[32]. Il rapporto di lavoro del dirigente pubblico è costruito in modo da mimare quello del dirigente del settore privato: nella convinzione che, immettendo alcune dosi di instabilità, il dirigente pubblico si senta stimolato ad assumersi le sue responsabilità e ad agire con spirito manageriale. Ciò è realizzato non solo con la (privatizzazione e la) contrattualizzazione del rapporto (prima dei dirigenti di base e poi anche dell'alta dirigenza) come avviene per gli altri dipendenti. Infatti, la contrattualizzazione del rapporto rappresenta lo strumento che permette (per la dirigenza di ruolo) di realizzare il principio della temporaneità degli incarichi dirigenziali: e cioè di scindere il contratto di lavoro a tempo indeterminato (rapporto di servizio) dal conferimento dell’incarico di funzioni dirigenziali a tempo determinato (rapporto di ufficio). Proprio la durata limitata dell’incarico (e quindi la mancanza di una stabilità del medesimo come in passato) dovrebbe spingere il dirigente a raggiungere gli obiettivi prefissati, allo scopo di essere confermato nel medesimo o di essere assegnato a compiti più prestigiosi[33]. D’altra parte, nel modello così congegnato, la temporaneità degli incarichi è una garanzia sia per il Governo “che può giudicare i dirigenti dai risultati, distribuire le responsabilità, in funzione delle capacità e, ovviamente, pagare meglio chi ottiene i migliori risultati”; sia per i dirigenti “che, una volta accettati gli obiettivi e ottenute le risorse, hanno un’autonomia gestionale garantita per tutta la durata dell’incarico, dato che quest’ultimo può essere revocato prima della scadenza solo per comprovata inefficienza”[34]. Così, la riforma predispone un modello regolativo “in grado di identificare con certezza chi” sia “nelle pubbliche amministrazioni, il datore di lavoro”; dando luogo alla creazione di “una figura datoriale peculiare, i cui poteri non nascono dall’essere a capo di un’impresa che opera nel mercato, ma da un contratto, regolamentato per via legale e contrattuale, che produce un effetto di immedesimazione fra il dirigente e il datore di lavoro”[35]. Restano però profili di collegamento tra le sfere della politica e dell’amministrazione. In primo luogo, come s’è già detto, la prima ha il compito di indirizzare (in modo più pregnante rispetto al sistema precedente) e di controllare l’attività di amministrazione concreta che viene svolta in autonomia dalla dirigenza. In secondo luogo, la distinzione funzionale tra politica e amministrazione viene compensata, sul piano strutturale, dall’influenza che mantiene la politica in ordine alla scelta e alla nomina degli alti dirigenti[36]. Anzi, si può dire che in passato agli organi politici (che mantenevano di diritto e di fatto i poteri di amministrazione concreta) “erano posti, in materia di scelta dei dirigenti e di attribuzione degli incarichi dirigenziali, limiti abbastanza forti attraverso le garanzie di status assicurate ai dirigenti”; mentre oggi, proprio perché è stato adottato un modello del tutto rovesciato rispetto al precedente, il legislatore ha “notevolmente incrementato i poteri discrezionali degli stessi organi politici in materia di nomine e incarichi dirigenziali”[37]. A tal punto da ritenere che, proprio sul piano strutturale, tra le due categorie di soggetti esiste un rapporto di contiguità e un legame lato sensu di tipo fiduciario[38]. L’affidamento degli incarichi ai dirigenti di livello inferiore rispetto a quelli apicali riproduce il circuito tra vertici politici e dirigenti apicali: infatti quest’ultimi assegnano gli incarichi cosiddetti di dirigenza di base. In questo modo, grazie alla catena tra i meccanismi di preposizione alle funzioni dirigenziali, gli organi politici mantengono un forte potere di influenza sulla nomina di tutti i dirigenti.Pertanto, la disciplina delle nomine dei dirigenti e degli incarichi dirigenziali assume particolare importanza, perché il modo in cui essa è costruita influenza (e può anche comprometterla) l’effettività della distinzione funzionale tra politica e amministrazione e quindi di fatto l’autonomia decisionale della dirigenza pubblica[39]. Infatti, l’applicazione concreta del sistema forgiato nella “seconda privatizzazione” ha subito messo in luce alcuni difetti della disciplina, forse trascurati dai riformatori, tali da indebolire la posizione del dirigente e quindi da permettere di aggirare il principio di distinzione tra politica e amministrazione[40]. Per non dire di quanto si è verificato a seguito della legge 15 luglio 2002, n. 145 che, per giunta, era costruita allo specifico scopo di permettere una riconquista dell’amministrazione da parte della politica[41]. D’altronde, già in forza delle indicazioni provenienti dalla Costituzione, non risulta possibile escludere un collegamento tra i poli della politica e dell’amministrazione. La politica riceve, tramite i meccanismi elettorali, una legittimazione democratica e ha il compito, emergente dal principio costituzionale di responsabilità politica di cui all’art. 95 Cost., di trasmettere tale legittimazione all’intera amministrazione, rispondendone davanti al corpo elettorale. L’amministrazione deve essere, in forza dell’art. 97 Cost., imparziale nella cura degli interessi pubblici nonché mirare al buon andamento della gestione; e perciò, in base all’art. 98 Cost., al servizio esclusivo della Nazione. E questo vale soprattutto per l’alta burocrazia (e cioè i titolari degli incarichi più elevati) che esprime il vertice della pubblica amministrazione e ne influenza l’opera[42]. Il rapporto concreto  tra politica e amministrazione può assumere però vari profili di rischio sul piano del rispetto dei precetti costituzionali. La politica, come dimostra l’esperienza italiana, può invadere l’amministrazione e politicizzare l’intera attività amministrativa imponendo il perseguimento di interessi partitici o di parte, con lesione dei principi d’imparzialità e di buon andamento. Tuttavia, è anche vero che è illusorio pensare che l’amministrazione lasciata a sé stessa – in una sorta di isolamento tecnocratico – possa sfuggire alla cattura degli interessi particolari e muoversi in uno spazio apolitico, limitandosi a porsi come apparato al servizio della collettività[43]. Inoltre, tenendo conto della realtà effettuale, non è nemmeno possibile una separazione radicale tra indirizzo politico e attività amministrativa. Si ritiene infatti che tra questi due profili vi sia un continuum: e cioè, “l’indirizzo quasi mai consiste nella sola posizione di fini e obiettivi, ma reca per lo più in sé anche le prime scelte gestionali; l’amministrazione, dal suo canto, non è più mera esecuzione ma, nello Stato contemporaneo, è divenuta soprattutto gestione, con ampi margini di scelta discrezionale e la tendenza frequente a partorire ulteriori momenti di indirizzo”[44]. E’ vano pertanto ritenere che i fini possano essere del tutto staccati dai mezzi e gli obiettivi dagli strumenti. Da qui la necessità che l’una sfera controlli l’altra, e viceversa, in modo da comporre in un quadro armonico le indicazioni che provengono della Costituzione e da evitare di trascurare l’interconnessione che esiste tra di esse nella realtà dei fatti. L’aspetto più delicato è costituito proprio dai punti di intersezione tra politica e amministrazione di cui, attualmente, quello degli incarichi dirigenziali è uno tra i principali[45].Ecco perché proprio la normativa in materia di incarichi dirigenziali è stata significativamente modificata nel passaggio dalla prima alla seconda privatizzazione, nonché, anche successivamente, con l’apposito e radicale intervento della già citata legge n. 145/2002 e continua ad essere oggetto di variegati progetti di riforma e di piccoli, ma non irrilevanti sotto il profilo sostanziale, aggiustamenti legislativi. E questo spiega anche perché su tale disciplina le innovazioni sono state spesso dettate da esigenze più politiche che d’ordine razionale. Un esempio è dato chiaramente dal fatto che ciascuna delle compagini governative che si sono succedute nelle ultime legislature non ha perso l’occasione di novellare, in modo più o meno condivisibile, la disciplina degli incarichi dirigenziali e soprattutto di prevedere articolate forme di spoils system una tantum, seppure di differente intensità e diversamente giustificabili: s’è trattato, cioè, di norme applicabili una sola volta e dirette a consentire l’azzeramento degli incarichi dirigenziali in essere, prima della loro naturale scadenza[46]. Soprattutto nelle due precedenti legislature lo spoils system una tantum è stato espressamente destinato a revocare ante tempus (con significative variazioni  tra quello di portata generale di cui alla legge n. 145/2002 e quello più limitato di cui alla legge 24 novembre 2006, n. 286) gli incarichi conferiti dal Governo “uscente” poco prima del termine della legislatura[47].   

4. Il leit motiv della riforma, basato sulla ricerca e, di conseguenza, sulla creazione di “un padrone serio” all’interno delle amministrazioni pubbliche, è comunque collegato al tentativo di accendere all’interno di esse dei veri e propri “circuiti di responsabilità”. Infatti, riferendosi al d.lgs. n. 29/1993 s’è osservato che “per introdurre maggiore efficienza nelle pubbliche amministrazioni quella legge cerca di fare in modo che ciascun attore che si muove su quella scena si trovi a svolgere il proprio ruolo assumendosene integralmente la responsabilità”[48]. Proprio a tale riguardo è diffuso il riferimento ad alcuni frammenti di un intervento di Giuliano Amato – avvenuto qualche anno prima dell’avvio della riforma, durante la quale il relativo autore ha ricoperto la carica di Presidente del Consiglio dei ministri - secondo cui “occorre restaurare, o instaurare forse, per la prima volta, una catena di responsabilità, di ruoli dialettici, perché la responsabilità è figlia della conflittualità dialettica e un sistema che non instauri ruoli, parti e procedure dialettico conflittuali è un sistema che non può produrre responsabilità”.[49]In questa direzione si colloca un altro dei perni dell’azione riformatrice che ha puntato verso “un’amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti, consumer oriented, operante non solo nell’interesse pubblico, ma nell’interesse del pubblico”[50]. Lo scopo è di consentire ai cittadini di farsi attivatori di circuiti di responsabilità nei confronti dei vertici delle amministrazioni, attraverso vari strumenti. Ciò sulla base dell’acquisizione della consapevolezza che “il vero e legittimo titolare della cosa pubblica e delle sue risorse e dunque il vero padrone ultimo”[51] è il cittadino; egli dunque ha il diritto di pretendere che l’amministrazione sia orientata al suo servizio. Così, “la soddisfazione delle istanze e dei bisogni dei cittadini” si pone come “il fondamentale risultato da conseguire nello svolgimento di quell’attività di cura degli interessi pubblici, che rappresenta il naturale riferimento funzionale, anzi la stessa motivazione che giustifica l’esistenza delle amministrazioni pubbliche in quanto tali”[52]. D’altra parte, tale obiettivo è cristallizzato in via normativa, laddove l’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 indica, tra le finalità dell’intervento riformatore, quella di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni”. Subito s’è osservato che tale riferimento “va inteso in senso lato, cioè comprensivo del miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi misurato sia in relazione ai loro costi sia alla soddisfazione dei cittadini-utenti (che costituisce il parametro essenziale di questo tipo di attività)”[53].Orbene, emergono con evidenza le criticità di tale assetto. Anzitutto, bisogna chiedersi quali siano gli spazi effettivi in cui possa dispiegarsi la sovranità dei cittadini-utenti rispetto al funzionamento degli apparati pubblici, al di là dell’attivazione della sanzione politica tramite il circuito elettorale. Poi, quali siano i limiti all’invasione della politica nell’amministrazione e segnatamente se effettivamente risulti rispettato il principio fondamentale della distinzione tra indirizzo e gestione: e cioè, se la politica non continui ad amministrare in concreto, esautorando di fatto i dirigenti. A ciò si collega la verifica dell’effettivo funzionamento del circolo virtuoso autonomia e responsabilità per quanto concerne la posizione dei dirigenti pubblici e pertanto il reale esercizio da parte di questi dei poteri tipici del datore di lavoro. Inoltre, tutti questi interrogativi hanno una proiezione sul piano della legislazione e delle relazioni sindacali. In primo luogo, sorge il quesito se la politica – intesa nella sua accezione più alta – continui ad utilizzare lo strumento legislativo per gestire in concreto le vicende delle amministrazioni e del personale pubblico soprattutto per ragioni elettorali. In secondo luogo, se nella contrattazione collettiva operino dinamiche assimilabili a quelle del settore privato, laddove prevale la logica conflittuale e della distinzione dei ruoli, caratteristica di un assetto in cui risalta la contrapposizione tra esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori. 

5. Va poi considerato che, tenendo conto dell’esigenza di garantire il pluralismo amministrativo, la seconda privatizzazione adotta una disciplina articolata della dirigenza. Il d.lgs. n. 165/2001, in primo luogo, alla stregua dell’art. 13, contiene norme di dettaglio vincolanti solo le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Mentre, per le altre pubbliche amministrazioni, soprattutto le Regioni, il d.lgs. n. 165/2001 si limita ad imporre un mero dovere di adeguamento ai principi dettati per le prime (cfr. art. 27). Analogo metodo è previsto dall’art. 111 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per gli enti locali. Inoltre, il d.lgs. n. 165/2001 contiene discipline specifiche per alcune tipologie dirigenziali, in relazione alle funzioni svolte (cfr. artt. 25 e 26). Già da subito tale meccanismo ha destato condivisibili perplessità, perché articolato sulla “previsione generale di un regime contrattuale per tutta la dirigenza pubblica, a prescindere dalla natura dell’apparato e dalla struttura della posizione dirigenziale”[54]. In altri termini, si registra criticamente l’adozione di un modello unico di rapporto di lavoro dirigenziale – di cui appunto i caratteri dominanti sono la contrattualità e il principio di temporaneità degli incarichi dirigenziali – ritenuto eccessivamente riduttivo e non adattabile alle molteplici esigenze delle moderne amministrazioni. Non s’è tenuto conto delle differenti funzioni del tipo di amministrazione (d’ordine, di finanza, di servizi) in cui è inserito il dirigente, né dei compiti e delle funzioni che egli deve svolgere in concreto (esercizio di potestà pubbliche, di gestione delle risorse umane, di controllo). Con la conseguenza che l’efficacia del modello unico varierebbe proprio a seconda del contesto in cui è applicato[55]. Il quadro s’è ulteriormente complicato a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione che, da un lato, riconosce potestà legislativa esclusiva alle Regioni a statuto ordinario per quanto concerne la propria organizzazione amministrativa, con ciò ponendo la questione se sia ampliato lo spazio regolativo regionale sulla configurazione della dirigenza, quantomeno riguardo agli aspetti più vicini al profilo organizzativo; e, dall’altro, concede agli enti locali autonomia statutaria e regolamentare che potrebbe anche toccare quest’ambito[56]. Per questi motivi, volendo mettere in evidenza la pluralità delle discipline della dirigenza pubblica, oggi si parla non più di “dirigenza”, al singolare, bensì di “dirigenze”, al plurale[57]. Tuttavia, quello della dirigenza dello Stato privatizzata, imperniato sul principio della temporaneità degli incarichi dirigenziali,  rimane il modello base che influenza tutti gli altri sia per esplicita scelta del legislatore sia perché anche gli enti dotati di autonomia regolativa, come specialmente le Regioni, non si sono discostati di molto dal modello statale[58]. Beninteso, la presa d’atto del polimorfismo[59] della dirigenza pubblica è sicuramente un fatto necessario, specie dal punto di vista metodologico, reso evidente dalla circostanza che ormai esistono diversi statuti giuridici e normativi delle varie dirigenze, frutto della combinazione di regole legali, statali e regionali, di norme della contrattazione collettiva e dell’autonomia regolamentare dei vari enti. In genere, tale differenziazione appare collegata alle diverse funzioni svolte e ai molteplici servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni, nell’apprezzabile direzione di adattarsi al pluralismo organizzativo e territoriale delle moderne amministrazioni pubbliche[60]. Di recente, quindi, si assiste ad una nuova stagione degli studi che recepiscono il suggerimento metodologico di  adottare “un approccio il più possibile articolato, vale a dire un approccio in grado di non confondere le riflessioni sulla dirigenza delle varie amministrazioni”, tenendo conto delle “differenze che si riscontrano nell’area della dirigenza pubblica” e “che sono tanto ‘verticali’ (cioè tra amministrazioni dei vari comparti e talora addirittura di uno stesso comparto), quanto ‘orizzontali’ (cioè tra le possibili diverse figure dirigenziali presenti in una, in tante o in tutte le amministrazioni)”.[61]La magmaticità della distribuzione della competenza legislativa fra lo Stato e le Regioni nella materia del lavoro pubblico e, in particolare, della dirigenza è stata confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, fin dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V[62]. Ciò ha indotto il legislatore della legge delega n. 15/2009 ad introdurre, nell’art. 2, un meccanismo di coinvolgimento delle Regioni nella predisposizione dei decreti delegati che oscilla dalla “previa intesa” al “previo parere” sui contenuti della legislazione delegata e che nei primi commentatori ha destato condivisibili perplessità[63]. Comunque, ai fini della presente indagine, va sottolineato che attraverso la legislazione delegata potrebbe essere colta l’occasione, nel momento in cui si toccherà la disciplina della dirigenza, di rafforzare il principio di distinzione tra politica e amministrazione e quindi tra indirizzo e gestione, esplicitandone, secondo un acuto suggerimento, “tutte le più rilevanti conseguenze organizzative”[64], in modo da fissare un quadro comune per tutte le amministrazioni pubbliche.La fondatezza di questa osservazione è dimostrata dalla circostanza che, spostandosi dal centro alla periferia, il fondamentale principio di distinzione tra indirizzo e gestione risulta declinato così da affermare la preminenza del vertice politico rispetto all’apparato dirigenziale. Tale dato emerge dall’analisi sia della normativa regionale sia delle applicazioni da parte degli enti locali del testo unico del d.lgs. n. 267/2000. Sovente avviene che è accentuato il nesso fiduciario tra organi di governo e figure amministrative apicali (la cui permanenza in carica è legata a quella dei titolari del potere di nomina), con diffusi poteri nei confronti della dirigenza di base; e che si faccia largo uso di dirigenti non di ruolo e a contratto. Il che può trovare giustificazione nel forte contatto che qui si realizza tra vertice politico e base elettorale, per cui spicca la responsabilità politica del primo nella realizzazione del programma su cui si è ottenuto il consenso. Tuttavia, andrebbero adottati opportuni accorgimenti per evitare che, a causa della stringente presa politica sull’apparato, venga aggirato il principio di distinzione e l’attività amministrativa sia indirizzata solo a garantire determinati interessi, pregiudicando il precetto dell’imparzialità[65]. Altra questione riguarda il diverso assetto dei rapporti tra politica e amministrazione che si configura laddove sono presenti alcune carriere dirigenziali che restano in regime pubblicistico: qui, alla stregua dell’art. 72 del d.lgs. n. 165/2001, non opera il principio di distinzione tra indirizzo e gestione di cui all’art. 4 del medesimo decreto, ma permane la più timida versione dei rapporti tra organi di governo e dirigenza risultante dal d.p.r. n. 748/1972. Il mantenimento di tale status quo è stato forse determinato soprattutto da ragioni d’ordine politico e corporativo che hanno prevalso  sulle esigenze di funzionalità o di adeguamento del  modello della dirigenza manageriale alle specifiche caratteristiche delle amministrazioni autoritative[66]. L’ipotesi ricostruttiva trova conferma nella circostanza che “le deroghe al d.lgs. n. 165/2001 siano state riferite alle carriere e non alle amministrazioni, con l’effetto paradossale di far coesistere, nella stessa amministrazione, dirigenti militari e dirigenti civili paraordinati ma titolari di poteri gestionali assai differenti”[67].  E difatti, con il d.lgs. 19 maggio 2000, n. 139 la disciplina della carriera prefettizia è stata modificata, avvicinandola al modello della dirigenza pubblica privatizzata, pur conservando il regime pubblicistico e indipendentemente dalla particolare funzione de puissance della relativa amministrazione.

6. Va ora concentrata l’attenzione sui principali nodi problematici, emergenti dall’attuale assetto della disciplina generale del d.lgs. n. 165/2001, relativi ai rapporti tra organi di governo e dirigenti amministrativi. Da qui il rischio dell’elusione del principio di distinzione e di compromissione dell’effettività del circuito virtuoso tra autonomia e responsabilità. I profili più delicati riguardano i criteri di esercizio del potere di nomina nonché la delimitazione dei candidati. In effetti, come s’è già accennato, l’arretramento della politica dalla gestione e il pieno riconoscimento di autonomia funzionale alla dirigenza, trovano la loro contropartita nella garanzia di un forte nesso strutturale tra organi politici e dirigenti: assicurando alla politica un notevole potere discrezionale in ordine alla individuazione dei dirigenti da preporre ai vari incarichi. Proprio perché l’assegnazione degli incarichi dirigenziali rappresenta lo snodo tra politica e amministrazione si capisce bene come la disciplina di questo aspetto strutturale assuma rilievo portante, per garantire l’equilibrio tra le norme costituzionali in materia.Per le amministrazioni dello Stato, e per tutte quelle che adottano il medesimo modello, la disposizione di riferimento è costituita dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001. E’ diffusa l’osservazione secondo cui i criteri per l’attribuzione degli incarichi, ivi delineati, sono alquanto ampi da lasciare al titolare del potere di nomina una notevole discrezionalità nella scelta del dirigente cui affidare l’incarico[68]. Sotto questo profilo si può dire che tra il titolare del potere di nomina (l’organo politico o il dirigente sovraordinato) e il soggetto nominato si instaura un rapporto, lato sensu fiduciario. Infatti, non è possibile affermare che il rapporto sia interamente fiduciario, perché la revoca ante tempus dell’incarico è ancorata (dalla normativa legale e contrattuale) a criteri oggettivi[69]. In sostanza, nel disegno del riformatore, il circuito virtuoso tra autonomia e responsabilità sarebbe stato così garantito: il dirigente, una volta nominato, avrebbe avuto la possibilità di eseguire il proprio incarico in piena autonomia tenendo conto degli obiettivi e degli indirizzi fissati al momento dell’incarico, senza temere estromissioni arbitrarie[70]. Tra poco si avrà modo di vedere come l’enfatizzazione del profilo fiduciario e l’eccessiva precarizzazione del dirigente siano dipese da vuoti normativi e dalla disapplicazione di alcuni principi base del sistema. La situazione  potrebbe essere corretta con qualche modesto aggiustamento, senza intaccare il nucleo della vigente disciplina degli incarichi.Inoltre, sono state ampiamente messe in evidenza le molteplici distorsioni prodotte dall’applicazione concreta del modello privatistico-contrattuale del regime della dirigenza[71]. Secondo un’autorevole opinione, il modello è accusato di generare una sorta di paradosso: e cioè “l’incardinamento del dirigente nella funzione, attraverso il contratto, genera perplessità circa la garanzia dell’imparzialità”. Infatti, “poiché la controparte del dirigente non può che essere il politico, è logico che dalla relazione di scambio tra i due, dirigente e politico, non possono che derivare contaminazioni del rapporto dirigenziale, tali da allontanare il rapporto stesso dai binari dell’imparzialità, per attrarlo, forzatamente, verso le esigenze di ‘parte’, dettate dalla politica”. E “senza contare la contraddizione di voler mantenere distinte politica e amministrazione e di farne poi due parti di un contratto, personificandole nel politico e nell’alto dirigente”[72].   Tale contraddizione è dovuta alla scelta del riformatore di adottare un modello di rapporto tra politica e amministrazione nel quale la netta distinzione delle funzioni tra organi di governo e dirigenti amministrativi è  compensata dalla connessione strutturale del sistema delle nomine; connessione che, come s’è osservato, è giustificata (se non imposta) dal principio democratico e di responsabilità politica. Certo, va ricordata la tesi per la quale la distinzione funzionale andrebbe coerentemente accompagnata dalla separazione strutturale tra vertici politici e dirigenza, con l’eliminazione dell’investitura dei dirigenti da parte dell’autorità politica[73]. Ma è difficile che questa soluzione possa trovare accoglimento, soprattutto dopo che la stessa giurisprudenza costituzionale sullo spoils system ha avallato il nuovo regime della dirigenza pubblica, mirando semmai ad affermare la necessità di garantire l’effettività della distinzione funzionale[74]. Dunque, come opzione preferibile,  proprio per evitare che si producano le paventate (e confermate dalla realtà fattuale) “contaminazioni” del rapporto di lavoro dirigenziale, dovrebbe essere sufficiente provare ad assicurare integralmente il rispetto del principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione, con opportuni interventi di manutenzione della normativa vigente. Infatti, accurate indagini hanno messo in luce che persistono in capo agli organi politici strumenti giuridici che consentono di aggirare il principio di distinzione e di condizionare l’operato dei dirigenti[75]. Pertanto, “le stesse previsioni normative relative a tale dimensione funzionale andrebbero ulteriormente precisate, depurandole da alcuni residui elementi di ambiguità e compensandone alcune lacune”[76]; nonché bisognerebbe introdurre gli adeguati correttivi che assicurino un esercizio trasparente e corretto del potere di nomina. D’altra parte, se si volge lo sguardo indietro, l’esperienza dimostra che, nella storia amministrativa italiana, anche uno statuto integralmente pubblicistico non ha reso immune la dirigenza dalle pressioni e dalle interferenza della politica, con pregiudizio dei principi d’imparzialità e di buon andamento[77]. Peraltro, nel sistema pubblicistico il titolare del potere di nomina dell’alta dirigenza era sempre l’autorità politica che lo utilizzava “come ragione di scambio per ottenere consenso”[78].E’ così necessario sottolineare come, sul piano normativo, e soprattutto in base al principio di distinzione, non sia possibile configurare il vertice politico (o comunque il titolare del potere di nomina) come datore di lavoro del dirigente[79]. Inoltre, l’assetto risultante dai principi costituzionali è tale per cui, nell’ordinamento democratico, politica e amministrazione hanno canali di legittimazione differenti: la prima, la sovranità popolare e il mercato elettorale; la seconda, la professionalità, quale precondizione di inveramento del principio di imparzialità[80]. La conseguenza è che, nell’ambito del settore pubblico, è “difficile utilizzare le categorie concettuali che si utilizzano nel lavoro privato per caratterizzare il dirigente rispetto all’imprenditore”. Il che comporta che “nel pubblico, il dirigente non è affatto ‘l’alter ego’ del politico”[81]; egli “lavora per la collettività e ad essa risponde dei risultati conseguiti, secondo un’estensione del principio democratico”[82]. Semmai, il problema è quello della persistenza di lacune e distonie normative tali da impedire la concreta realizzazione di tale equilibrio e che enfatizzano il peso della politica rispetto all’autonomia dirigenziale. In questa prospettiva, solo con particolare prudenza è consentito distinguere, all’interno delle pubbliche amministrazioni tra funzione imprenditoriale e funzione datoriale e cercare di rintracciarne i relativi punti di riferimento. Nel sistema del d.lgs. n. 165/2001, al di sotto degli atti di macro organizzazione di cui all’art. 2, e dei poteri di indirizzo spettanti al vertice politico-istituzionale, la dirigenza ricopre entrambi i ruoli. Ciò però, al contrario di quanto accade nel settore privato, secondo un’impostazione normativamente prescritta, volta a realizzare il modello d’impresa, secondo le regole del d.lgs. n. 165/2001 e quelle più specifiche dedicate, di volta in volta, alle singole amministrazioni[83]. Anche qui, la vera questione sta nell’accertare se la realtà corrisponda alla costruzione normativa del dirigente pubblico come “protagonista dialettico del modello imprenditoriale”[84]. E si può osservare come la prassi applicativa abbia messo in evidenza alcune difficoltà nella realizzazione di questo obiettivo, soprattutto a causa della prevalenza delle ragioni della politica rispetto a quella della managerialità. Il che è dimostrato dalla necessità avvertita dal Governo di varare una riforma a tutto campo della materia, dichiaratamente ispirata al paradigma efficientista. A questo punto, si tratta di vedere se le linee della progettata riforma rispondano ai problemi emersi nella pratica oppure se si limitino a “sparare sul pianista”[85], senza centrare l’obiettivo.   

7. La legge delega n. 15/2009 appare alquanto evanescente proprio con riguardo alle relazioni tra politica e amministrazione sia sotto il profilo funzionale sia sotto quello strutturale. L’art.6, al comma 1, si limita ad affermare che “l’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina della dirigenza pubblica”, tra l’altro, “al fine di rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza, nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo politico degli organi di governo in ambito amministrativo”. Anzi, com’è stato subito osservato, la principale preoccupazione del delegante pare essere quella “di sfruttare al massimo lo spazio aperto dal giudice delle leggi per rafforzare il legame ‘fiduciario’ fra top management e vertice politico”[86].Comunque, una volta esplicitato l’obiettivo perseguito, la disposizione enumera, al comma 2,  i principi e i criteri direttivi a cui dovrebbe attenersi il Governo. Qui si coglie come essi prevalentemente contengano incentivi positivi e negativi (e cioè misure premiali e afflittive) volti a spingere i dirigenti ad utilizzare effettivamente i poteri di gestione del personale di cui formalmente già dispongono. Infatti, l’enunciato di esordio della parte relativa ai principi e criteri direttivi di esercizio della delega contiene l’indicazione, di indubbio pregio: “affermare la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita i poteri del datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane”. Insomma, gran parte della disposizione sembra permeata dall’esigenza di dare una risposta al problema dei “nullafacenti” – che tanta presa ha nell’immaginario collettivo – attraverso l’immissione di stimoli affinché il dirigente pubblico svolga realmente la parte del datore di lavoro.   Quanto al profilo strutturale dei rapporti tra politica e amministrazione, e quindi tra organi di governo e dirigenti, l’art. 6, al comma 2, lettera h), affida al Governo il compito di “ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, adeguando la relativa disciplina ai principi di trasparenza e pubblicità ed ai principi desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori, escludendo la conferma dell’incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi indicati al momento del conferimento dell’incarico, secondo i sistemi di valutazione adottati nell’amministrazione, e ridefinire, altresì, la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi medesimi”. E’ facile rendersi conto di quanto sia ampio lo spazio di decisione conferito al Governo nella concreta attuazione di tale precetto. La delega è così generica da permettere una totale riscrittura del vigente regime. Al momento è quindi impossibile prefigurare i contorni della nuova disciplina. Una delle poche certezze è che al legislatore delegato è imposto di adeguarsi ai principi “desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e dalle giurisdizioni superiori”, sebbene non venga indicato in concreto quali siano. In sostanza, questi principi della delega sono fissati per relationem, lasciando comunque al Governo ampia discrezionalità nel selezionarli. Analoga considerazione vale per il richiamo ai “principi di trasparenza e pubblicità”, che così espressi solleticano la fantasia dell’interprete. L’esclusione della conferma dell’incarico ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati è già sancita dall’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 ed è comunque una previsione talmente ovvia e coessenziale alla figura del dirigente pubblico-manager, la cui prestazione è in primis orientata al risultato, da fare sorgere il dubbio che il legislatore senta il bisogno di esprimersi al riguardo perché consapevole che la realtà effettuale procede in direzione del tutto contraria rispetto al sistema formale. Un po’ più di concretezza presenta la parte relativa all’affidamento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, ma solo in relazione al compito di diminuire le quote percentuali degli incarichi attribuibili ai suddetti esterni, e non rispetto agli altri profili, parimenti delicati, dell’individuazione, almeno a mo’di principio, dei requisiti minimi che devono possedere i soggetti esterni e dei criteri di valutazione della effettiva presenza dei medesimi requisiti in capo ai soggetti prescelti. Emblematica è peraltro la previsione di cui alla lettera m), del comma 2, dello stesso art. 6 che contiene principi e criteri direttivi estremamente nebulosi, secondo cui il legislatore delegato dovrà “rivedere la disciplina delle incompatibilità per i dirigenti pubblici e rafforzarne l’autonomia rispetto alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e all’autorità politica”. La disposizione mette in una sorta di calderone tre distinti problemi, senza però offrire alcuna traccia di soluzione. La disciplina delle incompatibilità della dirigenza attiene alla garanzia della funzione pubblica e dovrebbe realizzare le precondizioni perché l’azione del dirigente sia neutrale e disinteressata e quindi non sia sviata o influenzata da interessi diversi da quello pubblico all’imparzialità e al buon andamento[87]. L’autonomia della dirigenza nei confronti dell’autorità politica, come s’è visto finora, riguarda l’aspetto delle reciproche relazioni sul piano strutturale e funzionale e può trovare attuazione con un ampio ventaglio di soluzioni, come dimostra l’esperienza comparata[88]. E l’autonomia dei dirigenti rispetto ai sindacati dei lavoratori, su cui si avrà modo di soffermarsi in seguito, dipende soprattutto dall’assunzione di comportamenti coerenti in questa direzione, più che dall’intervento normativo.

8. Ora, è necessario qui affermare che, pur nella direzione di interventi di manutenzione della disciplina vigente, sarebbe stato possibile già in sede di legge delega fissare principi e criteri direttivi ben più pregnanti e netti. Ad esempio, poteva essere recepita l’indicazione, proveniente dalla dottrina, di spezzare e articolare il modello unico di rapporto dirigenziale, e di articolarlo, secondo un criterio di diversificazione di tipo funzionale, in dirigenza fiduciaria e in dirigenza professionale[89]. La prima caratterizzata dallo svolgimento di funzioni di raccordo tra politica e amministrazione e di partecipazione al policy making per cui, stante l’elevata fiduciarietà del ruolo, sarebbe concepibile una forte precarietà dell’incarico, legata al mantenimento della carica del decisore politico da cui ne è dipesa la nomina, e quindi assoggettabile a forme di vero e proprio spoils system, in base a quanto desumibile dalla giurisprudenza costituzionale in materia; ma senza la possibilità, almeno come regola generale, di svolgere attività di gestione e di amministrazione. La seconda, assegnataria in via esclusiva dei compiti di amministrazione concreta e di natura operativa, rispetto alla quale l’esigenza della garanzia del principio di imparzialità (ma anche di quello di buon andamento) induce a ritenere più adeguato un regime di incarichi di funzioni a tempo indeterminato, prevedendo però la possibilità di revoca in caso di accertata incapacità e di mancato raggiungimento dei risultati; oppure mantenendo la durata a tempo determinato, ma rendendola più lunga (incidendo sul termine minimo) della carica del titolare del potere di nomina[90].Peraltro, la stessa dottrina aveva indicato, in modo dettagliato, quali potevano essere gli interventi di revisione del quadro normativo in tema di dirigenza, appunto nella direzione di rafforzarne l’autonomia e la responsabilità[91]. Un approccio analogo è contemplato nella proposta di legge n. 950, presentata alla Camera dei Deputati il 9 maggio 2008, dai deputati Nicolais e Giovannelli. Anche qui come nella legge delega la riforma ha per oggetto la dirigenza dello Stato, ma è evidente che tali innovazioni costituirebbero un punto di riferimento per le dirigenze più simili come quelle regionali e degli enti locali; ciò perché lo stesso progetto enumera esplicitamente i “principi generali dell’ordinamento” a cui devono attenersi tali amministrazioni nel conformare la propria disciplina della dirigenza. Per esempio, quanto al profilo funzionale, si avverte l’esigenza di garantire l’autonomia operativa dei dirigenti con l’eliminazione dei residui strumenti di intervento degli organi di indirizzo politico sugli atti di loro competenza e con l’attribuzione di un effettivo spazio di autonomia finanziaria[92]. In ordine alle tipologie degli incarichi, l’area cosiddetta della dirigenza fiduciaria, in linea con il dictum della Corte costituzionale di cui alle note pronunce n. 103 e n. 104 del 2007, dovrebbe essere limitata al top management, mentre andrebbero esaltati gli aspetti più legati a compiti di natura tecnico-professionale degli incarichi di livello inferiore. Questo è il motivo per cui, rispetto alle modalità di conferimento degli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e di funzione dirigenziale, si propone di attribuire valore esclusivo allo strumento negoziale, in modo da favorire una reale negoziazione tra le due parti, soprattutto in relazione agli obiettivi da realizzare e alle connesse risorse a disposizione. In quest’ambito, i principi di trasparenza e pubblicità trovano precisa attuazione con la preventiva pubblicizzazione dei posti vacanti, mediante appositi strumenti, dando modo a tutti gli interessati di presentare la propria candidatura e prevedendo che, in caso di pluralità di domande, si debba procedere ad una valutazione comparativa. Come si vede, la proposta legislativa mira a dare concretizzazione ai suggerimenti avanzati da parte della dottrina, e che trovano pure riscontro nella contrattazione collettiva, per rispondere al problema reale di assoggettare il potere di nomina ad un minimo di regole al fine di assicurare la correttezza, la visibilità e la qualità delle scelte. Infatti l’attuale regime degli incarichi non risulta in grado di “contemperare le esigenze di flessibilità nell’utilizzazione della risorsa dirigenziale, come strumento per la realizzazione degli indirizzi politico-amministrativi (superando il tradizionale dogma della inamovibilità), con quelle di salvaguardia della professionalità degli stessi dirigenti”[93]. In altri termini, si osserva che solo rendendo la scelta trasparente e verificabile potrebbe attuarsi un adeguato bilanciamento tra valutazione fiduciaria nell’individuazione di chi preporre all’incarico e principi di buon andamento e imparzialità[94]. E’ noto che, in base all’orientamento prevalente della giurisprudenza, l’atto di conferimento dell’incarico ha natura privatistica e non è necessaria una procedura comparativa per la scelta del soggetto cui affidare il relativo incarico dirigenziale[95]. E’ così ripudiata la lettura pubblicistica del provvedimento di conferimento dell’incarico – seppure consentita dall’espressa menzione della parola “provvedimento” nell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 – o comunque la possibilità di applicare le disposizioni sul procedimento amministrativo e il controllo di legittimità. Sicché, il sindacato sull’esercizio del potere di nomina “è limitato ai principi di correttezza e buona fede, in ultima analisi ritenuti violati soltanto di fronte a motivi lato sensu discriminatori, diretti a favorire arbitrariamente gli interessi di un candidato”[96]. Nemmeno ha avuto particolare successo il tentativo della contrattazione collettiva di aumentare la trasparenza del sistema delle nomine, imponendo alle amministrazioni di individuare i criteri di scelta, così circoscrivendo i parametri legislativi, e di garantire adeguata pubblicità dei posti dirigenziali vacanti e degli incarichi conferiti[97]. Tuttavia, come osserva la Corte dei conti, disposizioni del genere rispondono “all’evidente superiore scopo di rendere possibile il più corretto esercizio del potere discrezionale da parte delle amministrazioni”; così introducendo “un elemento di fondamentale importanza a tutela, non solo, della pubblica amministrazione – che deve garantire il buon andamento dell’azione amministrativa individuando i dirigenti, che, per le loro capacità professionali, siano adatti a ricoprire un determinato incarico – ma anche degli interessati che vedono messa in luce la loro professionalità valutata in base ai risultati conseguiti in precedenza”[98]. 

9. Tuttavia, il profilo della valutazione fiduciaria nella scelta del dirigente da preporre ad un determinato incarico può non essere drammatizzato più di tanto, a condizione che la platea degli eleggibili non sia talmente ampia da rendere la selezione arbitraria. E’ un dato indiscusso che una delle garanzie di autonomia della dirigenza è la professionalità:  tale caratteristica ne fonda la legittimazione e costituisce un presupposto   di un’azione imparziale e improntata al buon andamento[99]. Sicché, se il titolare del potere di nomina può attingere entro un bacino i cui appartenenti posseggano requisiti minimi omogenei, il dirigente una volta nominato dovrebbe essere in grado di fare valere la propria expertise e di resistere ad indebite pressioni, anche tenendo conto del fatto che la revoca risulta (o, rectius, dovrebbe risultare, come si vedrà tra poco) condizionata ad una accertata ed oggettiva irregolarità di gestione, ed azionata con le procedure garantistiche della responsabilità dirigenziale. Da ciò consegue la rilevanza di un’adeguata selezione per l’accesso alla dirigenza di ruolo. Il punto non è toccato dalla legge delega, mentre il progetto Nicolais si diffonde nell’ennesima modifica della disciplina vigente. In questa sede, è necessario ribadire l’importanza del meccanismo concorsuale, non solo perché imposto dal pregnante principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost., ma anche da un’esigenza pratica. Solo se i vertici burocratici posseggono un’adeguata professionalità, è possibile lo sviluppo di uno spirito di corpo tale da permettere ad essi di difendere il loro spazio operativo dalle indebite interferenze della politica, e quindi di garantire che l’attività di amministrazione concreta venga svolta con il rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento[100]. Il concorso pubblico, improntato al principio del merito, dovrebbe assicurare la selezione dei migliori. Il problema sta nel fatto che tali aspettative possono essere travolte nell’attuazione pratica del sistema in esame. Infatti, una vera selezione dei migliori è possibile solo se l’accesso alla qualifica dirigenziale viene effettivamente consentito a soggetti del tutto esterni alla pubblica amministrazione; ovviamente muniti di requisiti minimi di formazione almeno universitaria. Allora bisognerebbe favorire l’accesso ai ruoli dirigenziali di giovani laureati privi di qualunque esperienza professionale, ma appunto di per sé costituenti il miglior green field per l’attecchimento di una moderna cultura dirigenziale: proprio perché ancora non del tutto forgiati. E quindi si tratta di evitare la competizione di questi con i dipendenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni, in possesso dei requisiti di cui al comma 3 dell’art. 28 del d.lgs. n. 165/2001. Perché tale concorrenza fa partire i candidati esterni sfavoriti rispetto agli interni, posto che i secondi (al di là del loro merito effettivo) possono sfruttare il capitale sociale (sia consentito l’eufemismo!) derivante dal pregresso inserimento nell’organizzazione pubblica. Peraltro, a seguito della novella apportata dalla legge n. 145/2002, le singole amministrazioni sono state dotate della facoltà di indire autonomamente concorsi per esami per l’accesso alla dirigenza. Il che, come insegna l’esperienza, può permettere a tali amministrazioni gestioni eccessivamente discrezionali delle selezioni, soprattutto per privilegiare i propri dipendenti; anche tenendo conto del fatto che a queste selezioni possono partecipare solo esterni particolarmente qualificati. Sicché, a tutela dei candidati esterni alla pubblica amministrazione, e per assicurare l’effettività del principio del merito, bisognerebbe prevedere forme di accesso esclusivamente destinate a costoro; e limitare fortemente le quote riservate al personale di ciascuna amministrazione che indice i concorsi pubblici per esami[101]. Per quanto concerne i soggetti da preporre  agli uffici dirigenziali,  rispetto all’assetto risultante dalla seconda privatizzazione, la legge n. 145/2002 ha modificato l’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001. La novella, da un lato, ha ampliato la possibilità di assegnare incarichi di funzione dirigenziale di livello generale sia a dirigenti di ruolo di seconda fascia delle singole amministrazioni dello Stato sia a soggetti cosiddetti “esterni”, cioè non appartenenti ai ruoli della dirigenza delle amministrazioni interessate; dall’altro, ha potenziato la facoltà di affidare anche incarichi di dirigenza di base ai medesimi soggetti “esterni”. La prima innovazione ha indubbiamente ridotto la priorità, ovvero il tendenziale monopolio, dei dirigenti di ruolo di prima fascia in sede di affidamento degli incarichi di livello generale. Il nuovo assetto sicuramente  affievolisce la stabilità (comunque data dalla garanzia, pur in un regime di temporaneità degli incarichi, del passaggio da un incarico ad un altro sempre di livello generale) e l’autonomia del vertice del corpo dirigenziale dello Stato, che dovrebbe essere il massimo depositario e tutore del valore dell’imparzialità e quindi della neutralità dell’amministrazione[102]. Così, i dirigenti di prima fascia si trovano a competere con quelli di seconda e con gli esterni per ricoprire gli incarichi più prestigiosi. La concorrenza tra i dirigenti di ruolo e tra questi e gli esterni produce due effetti simmetrici. Tutti i dirigenti di ruolo sono indotti a compiacere il potere politico titolare della prerogativa di assegnare e confermare gli incarichi, e quindi difficilmente saranno difesi solo dalla loro professionalità, bensì mireranno a mettere in luce qualità di affidabilità sul piano schiettamente politico-fiduciario. Inoltre, i titolari del potere di nomina, di fronte alla possibilità di scegliere nell’ambito di un bacino alquanto vasto, inevitabilmente saranno portati a fondare le proprie valutazioni su requisiti di carattere prettamente fiduciario[103]. Per giunta, la legge n. 168/2005 ha amplificato gli stimoli per i dirigenti di seconda fascia a manifestare atteggiamenti servili nei confronti della politica. Infatti, tale legge ha ridotto da cinque a tre gli anni di svolgimento di incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali, sufficienti a permettere il transito del dirigente di seconda fascia nella prima. Posto che ora il termine minimo di durata dell’incarico è altresì di tre anni, è evidente che il dirigente di seconda fascia è incentivato a “giocarsi tutte le sue carte” pur di avere un incarico dirigenziale di livello generale, che gli consentirebbe il passaggio nella sfera dell’alta burocrazia statale[104].Tuttavia, la riduzione della priorità dei dirigenti di prima fascia in ordine all’assegnazione degli incarichi dirigenziali di livello generale non solo è stata intensificata con l’ulteriore intervento della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (che ha ancora aumentato, rispetto a quanto stabilito dalla legge n. 145/2002, la percentuale di dirigenti di seconda fascia che possono ricoprire incarichi dirigenziali di livello generale), ma si pone in aperto contrasto con alcune delle condizioni che, ad avviso della Corte costituzionale,  hanno reso costituzionalmente legittima la privatizzazione della dirigenza generale (poi transitata nella prima fascia del ruolo unico e ora dei ruoli delle singole amministrazioni). La Consulta, nell’ordinanza n. 11/2002, afferma che “i dirigenti generali sono…posti in condizioni di svolgere le loro funzioni nel rispetto del principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione”, poiché, tra l’altro, “pur nel contesto della generalizzata privatizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti, la posizione del dirigente generale rimane in ogni caso differenziata anche all’interno del ruolo unico, considerando che esso contempla comunque due distinte ‘fasce’ e che la disciplina di significativi momenti del rapporto riserva ai dirigenti di prima fascia uno speciale e più favorevole trattamento”. Ed è pertanto probabile che la Corte costituzionale, di fronte ad una questione di legittimità costituzionale ex art. 97 Cost., della disciplina qui in discussione riprenda tale argomentazione e censuri il predetto assetto.Così, sarebbe apprezzabile, per i motivi anzidetti, escludere espressamente ogni automatismo per il passaggio dalla seconda alla prima fascia dirigenziale. La progressione dovrebbe essere subordinata al superamento di un’apposita selezione. In questa direzione sembra muoversi il progetto Nicolais. Invece,  la scelta della lettera f) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2009 è quella di limitare tale percorso solo ad una “percentuale di posti”, lasciando pertanto in sostanza invariato l’attuale sistema[105]. 

10. Peraltro, la possibilità di assegnare incarichi dirigenziali a soggetti cosiddetti “esterni” presenta il rischio di diffondere su tutta la dirigenza di ruolo dell’amministrazione interessata una forte dipendenza e fidelizzazione nei confronti del potere politico. Però, è anche vero che lo stesso effetto si produce soprattutto sul soggetto esterno nominato, poiché la scelta può avvenire entro un bacino di fatto illimitato e sicuramente egli maturerà l’aspettativa di essere riconfermato nell’incarico[106]. D’altra parte, il comma 6 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che i soggetti esterni debbano possedere alcuni requisiti (in verità definiti in modo non pienamente condivisibile) che formalmente ne dovrebbero garantire la professionalità. Tuttavia, è l’organo titolare del potere di nomina che effettua in piena autonomia tale verifica ed è alquanto difficile sindacarne l’operato: a tal punto che la discrezionalità qui può raggiungere picchi estremi. Beninteso, va valutata con favore l’idea, sottesa alla disposizione, di consentire alla pubblica amministrazione di attingere all’esterno professionalità tali da arricchire e completare quelle di cui già dispone; e anche di instaurare un circuito virtuoso tra dirigenza esterna ed interna, in modo da contribuire a fare attecchire, nei livelli apicali delle pubbliche amministrazioni, logiche di comportamento manageriale tipiche del settore privato. Il problema, però, si pone quando si accerta che dello strumento in esame s’è fatto un uso troppo ampio nonché distorto e incongruo rispetto ai fini anzidetti che ne hanno giustificato l’introduzione. Infatti, come dimostra l’esperienza, soprattutto quando le nomine di soggetti esterni sono passate al vaglio dei giudici amministrativi e contabili, è emerso che, in molti casi, la scelta è stata condizionata più da ragioni politico-clientelari e non, secondo lo spirito della disposizione (suffragata dalla rigorosa lettura che ne ha dato la medesima giurisprudenza), dall’esigenza di arruolare, in via eccezionale, professionalità di così spiccata levatura da non essere reperibili all’interno del corpo dirigenziale dell’amministrazione che conferisce l’incarico (o, fino a quando è esistito il ruolo unico, nell’ambito di quest’ultimo)[107]. Va poi segnalato che un’accesa discussione ha riguardato la questione se fosse possibile assegnare incarichi di funzione dirigenziale anche a personale non avente la qualifica di dirigente, ma appartenente alla stessa amministrazione che conferisce l’incarico. Di fronte ad una giurisprudenza amministrativa che ha fortemente osteggiato tale  prassi (nonostante ciò diffusa in numerose amministrazioni centrali e locali)[108], il legislatore (proprio allo scopo di aggirare il blocco frapposto dai giudici), ha modificato per ben due volte il testo del comma 6 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 (prima con la legge n. 145/2002, poi con la legge n. 168/2005)[109]. L’enunciato stabilisce che destinatari degli incarichi possono essere persone che abbiano “conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile… da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza”. Forti dubbi di legittimità costituzionale ex art. 97 Cost. investono tale parte della disposizione, poiché verrebbe aggirato il principio del concorso pubblico per l’accesso alla dirigenza e comunque perché i requisiti su cui basare la scelta appaiono così evanescenti da rendere totalmente arbitraria la valutazione del titolare di nomina. Di fatto, tale disposizione è chiaramente volta a soddisfare le aspettative corporative del personale interno privo della qualifica dirigenziale. Essa in sostanza estende all’area della dirigenza la possibilità di attribuire, in via temporanea, mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 (che appunto non si applica alla dirigenza): con l’effetto di creare un ponte tra le qualifiche apicali non dirigenziali e l’area della stessa dirigenza[110]. Ciò al tempo stesso contraddice l’idea della dirigenza come corpo professionale autonomo, l’accesso al quale dovrebbe avvenire soltanto con meccanismi, come il pubblico concorso, idonei ad accertare, in modo oggettivo ed imparziale, il possesso da parte dei candidati dei requisiti minimi di professionalità in grado di permettere loro lo svolgimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui all’art. 97 Cost. Resta aperta la questione se il comma 6 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 consenta l’attribuzione dell’incarico dirigenziale a soggetti esterni sforniti di laurea. Una lettura ragionevole dell’enunciato dovrebbe portare a ritenere esclusa tale possibilità. In effetti, la regola generale è che, nel settore pubblico, la partecipazione al concorso per l’accesso ai ruoli della dirigenza presuppone il possesso almeno della laurea. Di conseguenza, è evidente che assegnare l’incarico di livello dirigenziale, con lo strumento del comma 6 della disposizione, a soggetti privi di tale titolo, determina un aggiramento della suddetta regola generale. Però, anche a questo riguardo l’esperienza insegna che la forza delle cose (cioè delle pressioni elettorali, clientelari, degli interessi particolari: le cosiddette “voci di dentro” e le “voci amiche”) è superiore ai vincoli giuridici. Così, si segnala che in amministrazioni diverse da quelle dello Stato – la cui disciplina rinvia esplicitamente al modello statale - sono stati sfornati regolamenti che, in materia di affidamento di incarichi di livello dirigenziale a personale interno privo della relativa qualifica, “furbescamente” non fanno esplicita menzione della necessità del titolo di laurea. Probabilmente proprio sulla base di un giudizio negativo sulla  concreta applicazione dell’istituto del conferimento ad esterni (sia dirigenti sia altri soggetti) di incarichi dirigenziali, la legge n. 262/2006 ha esteso a tale ipotesi il meccanismo di cessazione automatica dell’incarico dirigenziale che vale per il top management dello Stato; nonché ha previsto, in sede di prima applicazione, una sorta di spoils system una tantum, come quello escogitato con la legge n. 145/2002. Proprio quest’ultima fattispecie è caduta sotto gli strali della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 161/2008, ne ha dichiarato l’illegittimità, facendo uso delle stesse argomentazioni della precedente pronuncia n. 103 del 2007[111]. In particolare, la Consulta ha affermato che “le descritte diversità strutturali relative alle modalità di conferimento dei suddetti incarichi non siano idonee a determinare…l’applicazione di principi diversi, sul piano funzionale, in relazione alla distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti”. E’ confermata la delicatezza della questione e la necessità di interventi calibrati che non si limitino ad operare sulla disciplina della dirigenza con radicali modifiche fondate esclusivamente su valutazioni precostituite in cui prevale il dato fiduciario e dell’affidabilità politica, senza invece tenere conto della necessità di distinguere tra le diverse funzioni svolte dal dirigente all’interno della struttura organizzativa[112]. Sul punto del “conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli”, come s’è già accennato, la lettera h) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2009 è alquanto generica[113], poiché si limita ad affidare al legislatore delegato il compito di ridefinire la relativa disciplina senza alcuna indicazione se non quella di imporre “comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi medesimi”. Più dettagliato e in linea con quanto poc’anzi osservato è invece il progetto Nicolais che ripristina la primazia dei dirigenti di prima fascia in relazione al conferimento degli incarichi di livello più elevato, abbassando le quote di questi incarichi che possono essere affidati a dirigenti di seconda fascia. Quanto agli esterni, il progetto, oltre a restringere le percentuali di incarichi loro attribuibili, prevede la preventiva pubblicizzazione delle caratteristiche dell’incarico, in modo tale da favorire una pluralità di candidature, e condiziona l’assegnazione dell’incarico ad un soggetto esterno alla previa valutazione circa l’assenza di candidature di dirigenti interni in possesso dei requisiti professionali richiesti. Così, è  garantita  l’effettività del principio del carattere eccezionale di tali nomine. Inoltre, è significativa la fissazione di un termine massimo di durata non tanto lunga (tre anni) e la barriera di una conferma dell’incarico limitata ad una sola volta.  

11. Anche l’aspetto della durata degli incarichi assume importanza strategica per creare le condizioni di un’effettiva autonomia della dirigenza. E’ inutile rievocare interamente l’ampio dibattito che ha riguardato l’eliminazione del termine minimo di durata degli incarichi dirigenziali, ad opera della legge n. 145/2002. Basti dire che la possibilità che questo fosse brevissimo, come consentito dalla novella durante il suo limitato periodo di operatività, determinava un aggiramento della disciplina della responsabilità dirigenziale e rendeva estremamente precaria  e subalterna la posizione del dirigente di fronte agli organi titolari del potere di nomina[114]. L’area della fiducia risultava allargata: essa non toccava più solo il momento della nomina, ma andava ad abbracciare anche la fine del rapporto, creando, seppure indirettamente, un potere di revoca, basato solo su criteri fiduciari, non previsto esplicitamente dal sistema e tale da travolgere la distinzione tra politica e amministrazione. Si instaurava di fatto un sistema del tutto contrario alle condizioni in base alle quali la Corte costituzionale aveva poco prima ritenuto costituzionalmente legittima la privatizzazione dell’alta dirigenza statale[115]. L’evidente contrasto della situazione con i principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost. ha costretto il legislatore (legge n. 168/2005) a reintrodurre il termine minimo. Ma, nonostante ciò, la Corte costituzionale, nella fondamentale sentenza n. 103/2007, non ha perso l’occasione di affermare (anche se la questione non costituiva oggetto della decisione) che “la stessa inesistenza di un termine minimo di durata dell’incarico dirigenziale…è indice di una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si presenta (quando il termine sia eccessivamente breve) difficilmente compatibile con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente che sia idoneo ad assicurare un imparziale, efficiente ed efficace svolgimento dell’azione amministrativa”. Quanto alla durata degli incarichi, la legge n. 15/2009 non dice nulla di esplicito, sebbene il riferimento ai principi della giurisprudenza costituzionale possa lasciare intendere che il legislatore delegato sia tenuto a non trascurarne il profilo problematico. Ma anche lo stesso progetto Nicolais è alquanto timido al riguardo, perché, pur prevedendo per tutti gli incarichi una durata minima di tre anni, si limita ad articolare diversamente il principio di temporaneità, stabilendo per gli incarichi di top management  una durata massima di cinque anni e per tutti gli altri di sette. E’ ovvio che una disciplina più dettagliata della durata degli incarichi, fino a prevedere la possibilità che quelli di tipo prevalentemente tecnico-operativo possano essere assegnati a tempo indeterminato, presuppone che si tenga conto delle caratteristiche di ogni amministrazione e della varietà dei compiti che ivi si svolgono. Risultato difficile da realizzare con un intervento legislativo. Però, non è da escludere l’eventualità che la legge possa costruire una griglia di principi, sulla cui base scegliere tra temporaneità  dell’incarico o durata indeterminata del medesimo, da attuare successivamente con appositi regolamenti o con atti organizzativi. Oppure, una soluzione più semplice potrebbe essere quella, per la dirigenza statale (ma adattabile anche alle altre amministrazioni), di limitare l’ambito di applicazione del principio di temporaneità solo agli incarichi – preventivamente individuati con atti generali di organizzazione – di raccordo tra politica e amministrazione, e di diretta collaborazione con gli organi politici, e quindi privi di compiti di amministrazione concreta.  Di conseguenza, tutti gli altri incarichi sarebbero invece a tempo indeterminato, con possibilità di revoca in caso di valutazione negativa[116].  Verrebbero così accolte le sollecitazioni di quella dottrina che, proprio nella generalizzazione del regime di temporaneità degli incarichi, vede pregiudicata l’autonomia del dirigente e quindi minacciato l’esercizio imparziale dell’azione amministrativa[117]. Peraltro, come s’è già messo in evidenza, il concreto rafforzamento della posizione del dirigente investito di compiti tecnico-professionali, potrebbe scaturire, pur mantenendo la temporaneità degli incarichi, dalla previsione di una durata minima più lunga della carica dell’organo politico titolare del potere di nomina: per esempio almeno sei anni, visto che, nell’attuale sistema, l’organo politico è presumibile che sia stabile per l’intera legislatura[118].   

12. Com’è noto, la valutazione delle prestazioni dirigenziali rappresenta il vero e proprio punto di equilibrio della disciplina della dirigenza[119]. Più precisamente, l’effettivo ed efficace funzionamento dei sistemi di valutazione delle prestazioni dirigenziali è il perno che garantisce il principio di distinzione tra indirizzo e gestione. Tuttavia, è altresì noto che tale valutazione è, nella realtà effettuale, scarsamente diffusa, così da compromettere il cuore del sistema[120]. A tal punto che, di fronte alla perdurante assenza di consolidati e trasparenti sistemi di valutazione, v’è chi intravede un “nuovo scambio” tra organi politici e dirigenza, in linea di continuità con il vecchio scambio “sicurezza contro potere”: e cioè, “da un lato il potere di continuare ad intromettersi, di fatto, nella gestione amministrativa, e dall’altro la ‘monetizzazione’ (aumenti retributivi non fondati sulla valutazione dei risultati della gestione) dell’assunzione in via esclusiva delle responsabilità attinenti all’esercizio delle funzioni”[121]. La mancanza di una seria valutazione incide, altresì, sull’equilibrio tra i vari criteri che dovrebbero orientare, alla stregua dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, il conferimento degli incarichi: determinando la preminenza dei requisiti soggettivi rispetto a quelli oggettivi, così rendendo la scelta del tutto arbitraria[122]. L’assenza di una cultura della valutazione trova spiegazione nella circostanza che “per un verso, i politici non possono fare a meno dell’aiuto organizzativo dell’apparato, oltre a non volersene alienare il consenso elettorale”. E “anzi, essi sanno bene che attraverso la valutazione della dirigenza amministrativa, per logica di cose, si finisce con il valutare il loro operato, a cominciare dalla capacità di fissare obiettivi congrui e credibili”[123].Peraltro, riguardo alle tecniche e ai criteri di valutazione il dibattito resta ampio, con acuti suggerimenti circa l’esigenza della precisazione delle tipologie di comportamenti valutabili e del loro raccordo con la regolazione della responsabilità dirigenziale[124]. E’ però primario che la valutazione scatti realmente. Per raggiungere tale obbiettivo vanno introdotte misure che spingano i soggetti coinvolti – organi politici e dirigenti – ad avere effettivo interesse al funzionamento dei sistemi di valutazione.In questa direzione, la legge delega tenta di rompere l’autoreferenzialità del sistema di valutazione attualmente vigente, come delineato dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286. Infatti, “com’è stata formulata, la disciplina della valutazione ha dato un forte impulso alla politicizzazione degli organi di valutazione e ad una enorme ‘entificazione’ delle modalità di funzionamento”. E “nel parallelo con il privato si è in effetti dimenticato che tra le amministrazioni pubbliche non è possibile comparare i risultati partendo dalla presenza sul mercato”. Pertanto, “una valutazione che si esaurisca in ciascuna dimensione organizzativa è destinata ad essere influenzata dalle caratteristiche vecchie e nuove di ciascuna organizzazione, senza essere un momento di verità sui risultati che quella amministrazione riesce a produrre all’esterno, per i cittadini e per le altre amministrazioni”[125]. Così, l’art. 4 della legge delega cerca, in modo condivisibile, di connettere la valutazione delle prestazioni dirigenziali con la verifica dell’efficienza e qualità dei servizi resi dall’amministrazione[126]; collegando, sulla base dell’esperienza straniera, riforma del lavoro pubblico e riforma del servizio pubblico[127]. Di conseguenza, si mira a  predisporre un sistema attraverso il quale la valutazione comparativa della qualità e dell’economicità dei servizi offerti dalle varie amministrazioni pubbliche (effettuata tramite l’intreccio di diversi strumenti) permetta di costruire graduatorie di merito tra di esse e, di conseguenza, tra i loro rispettivi organi di governo e dirigenti amministrativi[128]. In particolare, l’accertato significativo discostamento degli indicatori di efficienza o produttività di un’amministrazione dai valori medi fissati secondo parametri oggettivi ed omogenei – da parte del nuovo “organismo centrale” di cui alla lettera f) del comma 2 dell’art. 4 della legge delega – la esporrebbe all’obbligo di allineamento. E, inoltre, sarebbero possibili forme di azioni individuali e collettive dei cittadini nei confronti delle amministrazioni che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al loro operato. Sicché, in questo contesto, l’attivazione effettiva della valutazione delle prestazioni dirigenziali sarebbe una precondizione indispensabile per permettere alle amministrazioni di mantenere la rotta, o proprio di mutarla completamente, al fine di rispettare gli standard qualitativi ed economici dei servizi offerti, nonché per fare corrispondere i propri indicatori di efficienza o produttività ai parametri stabiliti dal suddetto organismo centrale. Insomma, il tentativo è quello, attraverso l’integrazione di forme di controllo esterno, dal basso e di meccanismi di voice (tra cui la cosiddetta public review)[129], di indurre le amministrazioni alla produzione di servizi che abbiano determinati standard qualitativi ed economici e che raggiungano coerenti livelli di efficienza e produttività; e che quindi producano effettiva soddisfazione degli utenti. In questo processo, gli organi politici e la dirigenza dovrebbero svolgere in pieno il ruolo loro assegnato dall’affermazione del principio di distinzione, correndo altrimenti il rischio di essere esposti a sanzioni, che avrebbero per giunta ampia pubblicità. La legge delega, infatti, dedica un’attenzione ossessiva alla  concretizzazione della trasparenza delle pubbliche amministrazioni: e, in specie, delle informazioni concernenti ogni aspetto della loro organizzazione e del loro funzionamento. Tutto questo, come sottolinea il comma 7 dell’art. 4 della legge, “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità”. Le anzidette sanzioni avrebbero, per gli organi di governo, natura soprattutto politica, come l’acclarata dimostrazione della loro incapacità a governare le amministrazioni. Per i dirigenti, le sanzioni agirebbero sul piano della responsabilità dirigenziale, incidendo sulla sorte del rapporto di incarico e di lavoro. In effetti, si tratta della “scoperta dell’uovo di Colombo, che, cioè, il fiato sul collo del ‘mercato’ può aversi così come nel privato anche nel pubblico: solo che là il giudizio negativo è immediatamente sanzionato in termini di ritorno economico; qui, invece, richiede che sia apprestato tutto un meccanismo ad hoc, per farlo emergere e contare”[130]. Certo, si arriva buon ultimi, tenendo conto di quanto risulta già realizzato da tempo nell’esperienza comparata[131] e che ha costituito soprattutto fonte d’ispirazione d’iniziative legislative avviate nella scorsa legislatura e, da ultimo, del disegno di legge Ichino-Treu. Viene così valorizzato il punto di vista di chi, all’alba della prima fase della riforma, lamentava una sorta di miopia progettuale e osservava che “non a caso però questa nuova prospettiva di ‘ricerca del padrone’ sembra fin dalle prime battute limitare il proprio campo visuale ai soggetti di cui da sempre si discute…trascurandone invece un altro che, per quanto esautorato da ogni sorta di rapaci e invadenti amministratori, ridotto in stato di incapacità e sottratto anche alla vista dei più, dovrebbe essere almeno sulla carta (costituzionale anzitutto) il vero e legittimo titolare della cosa pubblica e delle sue risorse e dunque il vero ‘padrone ultimo’ nel conflitto di lavoro: intendo parlare dei cittadini, figura ormai oscillante tra il mito celebrativo e l’artificio retorico ma alla quale credo si debba tentare di restituire una qualche consistenza”[132].Sotto questo profilo, si può dire che legge delega riprende quella linea di riforma amministrativa, avviata nei primi anni novanta, volta a “ridare sovranità agli utenti”[133], mirando alla loro soddisfazione, e a radicare la cittadinanza all’interno dell’amministrazione e che tra l’altro ha dato luogo all’adozione delle carte dei servizi pubblici[134]. L’esperienza, però, ha incontrato forti resistenze e probabilmente ha scontato le difficoltà di riuscire a coinvolgere gli stessi utenti e della mancata messa a loro disposizione di effettivi strumenti di controllo[135].  

13. Tutto ciò spiega le disposizioni della legge delega volte a rafforzare l’orientamento al risultato dell’attività dirigenziale. Come la lettera l) del comma 2 dell’art. 6, secondo cui il legislatore delegato deve “valorizzare le eccellenze nel raggiungimento degli obiettivi fissati mediante erogazione mirata del trattamento economico accessorio ad un numero limitato di dirigenti nell’ambito delle singole strutture cui può essere attribuita la misura massima del trattamento in base ai risultati ottenuti nel procedimento di valutazione di cui all’articolo 4”. E, aggiunge la  lettera p) della stessa disposizione, si tratta di “prevedere che, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la componente della retribuzione legata al risultato sia fissata, nel medio periodo, per i dirigenti in una misura non inferiore al 30 per cento della retribuzione complessiva, fatta eccezione per la dirigenza del servizio sanitario nazionale”. Certo, queste indicazioni appaiono del tutto condivisibili, ma desta perplessità la loro collocazione in un testo legislativo. Infatti, nel vigente assetto dei rapporti tra legge e contrattazione collettiva, la retribuzione è di competenza della fonte contrattuale; e almeno questo non dovrebbe cambiare, anche se, come si vedrà tra poco, l’art. 3 della legge delega prefigura un arretramento della contrattazione collettiva rispetto alla riserva di regolazione per via legislativa. Sicché, enunciati del genere dovrebbero trovare spazio esclusivamente nell’ambito della contrattazione collettiva delle aree dirigenziali e, semmai, potrebbero costituire l’asse portante dell’atto di indirizzo, predisposto dal relativo comitato di settore, e a cui sarebbe costretta ad attenersi l’Aran in fase di negoziazione. Emerge chiaramente una volontà dirigistica e invasiva dello spazio contrattuale che lascia trasparire l’endemica debolezza del negoziatore pubblico nel perseguire i fini che ne giustificano l’esistenza, e la necessità che costui venga messo sotto tutela anche da minute prescrizioni legislative. Emblematica è poi la previsione della lettera q), secondo cui il legislatore delegato “deve stabilire il divieto di corrispondere l’indennità di risultato ai dirigenti qualora le amministrazioni di appartenenza, decorso il periodo transitorio fissato dai decreti legislativi di cui al presente articolo, non abbiano predisposto sistemi di valutazione dei risultati coerenti con i principi contenuti nella presente legge”. In apparenza la disposizione sembra tautologica: non si può remunerare un risultato se non ne sia in qualche misura accertato il raggiungimento. In realtà, è dimostrato, in modo inoppugnabile da varie ricerche sul campo, e dalle relazioni della Corte dei conti, che la prevalente prassi applicativa è tale per cui ai dirigenti vengono erogate le quote di retribuzione di risultato pur in assenza di qualunque valutazione. Nella migliore delle ipotesi, vengono escogitati sistemi di valutazione fittizi o a maglie larghe, in cui raramente la misurazione dei risultati avviene in relazione agli obiettivi[136]. Comunque, anche qui vale ciò che si è appena osservato rispetto all’intrusione legislativa nello specifico campo di intervento della contrattazione collettiva. Sorprende come il legislatore delegato sia particolarmente attento a sanzionare con la mancata conferma dell’incarico il dirigente che non abbia raggiunto gli obiettivi previsti, come sancisce la già esaminata lettera h) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2009; nonché ad impedire, con la lettera q) appena menzionata, la corresponsione dell’indennità di risultato in assenza della relativa valutazione. Tuttavia, la delega non affronta, con analoga attenzione, il problema a monte: e cioè, quello di assicurare che, al momento di conferimento dell’incarico dirigenziale, siano specificati, con il pur relativo e necessario margine di elasticità, gli obiettivi da raggiungere. V’è, a ben vedere, troppo poco nel testo della legge delega che agisce sul primo polo del rapporto politica e amministrazione, in modo da spingere gli organi di governo ad esercitare in pieno il proprio ruolo, con atti di indirizzo di qualità, che contengano obiettivi misurabili in termini di risultato dell’azione. E manca l’esplicita assicurazione che tali obiettivi siano inseriti nei provvedimenti di conferimento degli incarichi dirigenziali[137]. Infatti, l’accennato sistema predisposto dall’art. 4 della legge n. 15/2009 permette solo di rilevare la responsabilità politica degli organi di governo, in caso di accertato discostamento dagli standard qualitativi ed economici ex ante stabiliti dei servizi offerti all’utenza o comunque in ipotesi di violazione di regole, e semmai di dare spunto ad eventuali azioni individuali e collettive per ottenere la soddisfazione degli interessati (il cui contenuto resta peraltro alquanto indefinito). Prendendo ispirazione da sperimentazioni praticate in altri ambiti, il delegante avrebbe potuto inserire, per i casi più gravi, sanzioni hard a carico degli organi di governo, come il commissariamento o l’esclusione da determinati finanziamenti; sanzioni irrogabili direttamente da un’apposita autorità indipendente, come l’organismo centrale di cui alla lettera f) del comma 2 dell’art. 4 della legge delega. Mentre, al momento, la soluzione del commissariamento costituisce l’eventuale sbocco finale solo dell’azione di cui alla lettera l) del comma 2 dell’art. 4 della legge n. 15/2009, affidata all’iniziativa individuale o collettiva di soggetti esterni all’amministrazione. Inoltre, sicuramente opportuna sarebbe stata l’introduzione di una disposizione, come quella contenuta nell’art. 8 del progetto Nicolais, secondo cui “se la valutazione non ha avuto esito negativo o in assenza di valutazione… si procede alla conferma del dirigente nello stesso incarico”. Tale previsione opererebbe in funzione di salvaguardia del dirigente e garantirebbe l’equilibrio del circuito tra politica e amministrazione. Al riguardo, basti ricordare che la prima fase dell’esperienza applicativa della disciplina contrattuale della dirigenza, come modellata a seguito della seconda privatizzazione, aveva messo in luce che, alla scadenza dell’incarico, diversi dirigenti non venivano valutati e lasciati languire nel ruolo unico. In sostanza, gli organi politici sfruttavano la mancata attivazione dei sistemi di valutazione dell’attività dirigenziale: lasciavano scadere l’incarico e nominavano un altro dirigente al posto del precedente, senza fornire alcuna motivazione. Con un vero e proprio effetto di spiazzamento sul dirigente non confermato. In sostanza, la conferma o meno dell’incarico restava il prodotto di un giudizio imponderabile degli organi di governo, immettendo nella realtà effettuale la sensazione che la tanto proclamata autonomia dirigenziale di fatto non esistesse[138]. Tenendo conto di questa situazione di fatto, si spiega l’inserimento nel CCNL dell’Area 1 della dirigenza, per la seconda tornata contrattuale (1998-2001), di una disposizione di salvaguardia (poi ripresa in altri contratti di area dirigenziale) che sanciva il diritto del dirigente, alla scadenza dell’incarico, in caso di mancanza di espressa valutazione negativa, almeno ad un incarico equivalente a quello precedentemente ricoperto. Con tale disposizione la contrattazione collettiva  faceva “rientrare dalla finestra” il principio dell’equivalenza professionale e la garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, nonostante che l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 l’avesse “gettato fuori dalla porta”, con lo stabilire che “al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’articolo 2103 c.c.”. Però è anche vero che la previsione contrattuale, seppure indirettamente, toccava l’area dell’organizzazione (in cui rientra la disciplina nevralgica degli incarichi dirigenziali) esclusa dalla competenza della contrattazione collettiva; e quindi v’erano forti dubbi sulla validità della disposizione[139]. E’ poi intervenuta la legge n. 145/2002 (in modo opportuno e condivisibile: è questo uno dei pochi aspetti non criticabili di tale legge) che ha introdotto nel testo dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 il nuovo comma 12-bis,secondo cui “le disposizioni del presente articolo costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”.  E’ evidente che il legislatore ha inteso soprattutto bloccare eventuali deroghe in melius alla legge da parte della contrattazione collettiva, essendo del tutto inconcepibile, nelle attuali condizioni di contesto del settore pubblico, una contrattazione collettiva peggiorativa delle previsioni legali. Peraltro, nella successiva tornata contrattuale, enunciati del genere sono ricomparsi in una nuova veste, concentrandosi solo sulla salvezza del precedente trattamento retributivo[140]. Ciò a conferma del vuoto della disciplina legale che comporta un indebolimento della posizione di autonomia del dirigente: debolezza intensificata nel periodo in cui è scomparso il termine minimo di durata degli incarichi dirigenziali e dall’accorciamento della durata massima degli incarichi rispetto alla versione dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, prima della novella di cui alla legge n. 145/2002[141]. Anche se la recente sentenza n. 103/2007 della Corte costituzionale fornisce indubbi spunti nel ritenere assimilabile la mancata conferma dell’incarico, in caso di assenza di espressa valutazione negativa, ad una forma di spoils system mascherato; e a cui pertanto andrebbero applicati gli stessi principi indicati con riferimento allo spoils system una tantum di cui all’art. 3, comma 7, della legge n. 145/2002. Così, è sorprendente che nella legge delega n. 15/2008, pur piena di disposizioni di dettaglio, manchi un chiaro accenno all’esigenza di affrontare tale problema[142], a meno che non lo si ritenga implicitamente contenuto nell’ampia formula adottata dalla citata lettera h) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2008: segnatamente nella precisazione che il legislatore delegato, nel “ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali”, ne deve adeguare “la relativa disciplina”, tra l’altro, “ai principi desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale”. Certo, è singolare, e aberrante sul piano sistematico, che nella lettera h) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2009 si sancisca espressamente che l’incarico non può essere rinnovato in caso di valutazione negativa e non si dica nulla per l’ipotesi inversa di mancata conferma dell’incarico, qualora la valutazione sia positiva. Un riferimento al riguardo è contenuto nella lettera g) del comma 2 dell’art. 4, laddove si afferma che il legislatore delegato deve “prevedere che i sindaci e i presidenti delle province nominano i componenti dei nuclei di valutazione cui è affidato il compito di effettuare la valutazione dei dirigenti, secondo i criteri e le metodologie stabiliti dall’organismo di cui alla lettera f), e che provvedano a confermare o revocare gli incarichi dirigenziali conformemente all’esito della valutazione”.Inoltre, per avere un quadro più completo, va letta anche la lettera i) del comma 2 dell’art. 6, secondo cui il legislatore delegato deve “ridefinire e ampliare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le competenze e la struttura del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del d.lgs. n. 165/2001, con particolare  riferimento alla verifica sul rispetto dei criteri di conferimento o di mancata conferma degli incarichi, nonché sull’effettiva adozione ed utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento o della mancata conferma degli incarichi”. Dal coordinamento degli esaminati principi di delega sembra possibile trarre l’indicazione che ogni decisione in materia di incarichi, e quindi anche il mancato rinnovo dell’incarico precedente, dipende dall’esito della valutazione[143]. Comunque, è evidente che l’allargamento delle competenze del Comitato dei garanti pone il problema della compatibilità con l’attività degli organi di valutazione dei dirigenti, specie in relazione all’aspetto della verifica sul rispetto dei criteri di conferimento o di mancata conferma degli incarichi. Anche se appare imprescindibile, proprio per assicurare l’autonomia del dirigente, l’esigenza che l’adozione di ogni provvedimento a suo carico venga preventivamente valutata da un organo terzo imparziale, come potrebbe essere il nuovo Comitato dei garanti. E’ noto però che tale organo è accusato, in relazione al suo funzionamento concreto, di assumere posizioni troppo garantiste (ovviamente a favore del dirigente). Peraltro, permane il dubbio sulla possibilità di impugnazione o meno del parere negativo da esso rilasciato[144]. Si tratta tuttavia di questioni risolvibili con un’opportuna manutenzione della disciplina vigente. L’imparzialità del Comitato potrebbe essere rafforzata tramite la modifica della sua composizione e l’inserimento di rappresentanti dei cittadini, i quali nella logica dell’attuale riforma dovrebbero svolgere un controllo diffuso sulla pubblica amministrazione e non sarebbero  influenzati da atteggiamenti aprioristici vicini all’uno o all’altro dei due poli della politica e dell’amministrazione[145]. Quanto al profilo impugnatorio, andrebbe prevista espressamente la facoltà di devolvere la questione al giudice per una valutazione definitiva.  

14. Un profilo al momento di estremo rilievo è quello relativo alle conseguenze sanzionatorie dell’illegittimo licenziamento disciplinare del dirigente[146]. Di recente anche la Cassazione ha ritenuto l’applicabilità della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 St.lav. in tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo[147]. Ora, va detto che appare logica questa soluzione se si considera che altrimenti – e quindi propendendo per l’opzione della mera tutela risarcitoria – la via della responsabilità disciplinare permetterebbe di eludere l’apparato garantistico che presiede all’accertamento della responsabilità dirigenziale e che soprattutto prevede, qualora il provvedimento espulsivo sia infondato, l’applicazione della tutela ripristinatoria[148]. D’altra parte, l’instaurazione di una correlazione tra garanzie procedimentali e tutela sembra trovare spunto nella giurisprudenza costituzionale. In effetti, la mancanza di un’adeguata tutela potrebbe di fatto permettere di realizzare una sorta di spoils system mascherato e cioè di sbarazzarsi, soprattutto per capriccio, di un dirigente non gradito, anche se venissero rispettate le garanzie procedimentali. Al riguardo, pur nella consapevolezza della diversa situazione di fatto, potrebbe essere valorizzata l’affermazione contenuta nell’ultima pronuncia della Corte costituzionale, relativa alla tormentata vicenda dello spoils system della Regione Lazio: secondo cui “da tutto ciò deriva, sul piano degli strumenti di tutela, che forme di riparazione economica, quali, ad esempio il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi”[149]. L’ipotesi considerata dalla Corte costituzionale è quella della rimozione automatica e senza contraddittorio di un direttore generale di azienda sanitaria locale al quale la legge regionale censurata si limita ad attribuire un ristoro economico; e qui la Consulta sottolinea che ciò “non attenua in alcun modo il pregiudizio da quella rimozione arrecato all’interesse collettivo all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione”. Allora pare evidente che un pregiudizio simile si produrrebbe, di fronte al licenziamento illegittimo di un dirigente, seppure intimato nell’osservanza delle relative garanzie procedimentali, se l’unica tutela attingibile fosse quella risarcitoria e non il ripristino dello status quo ante.De iure condendo, la questione potrebbe essere stemperata qualora, con un’opportuna modifica della disciplina legale, si differenziasse la dirigenza in fiduciaria e professionale. Così, solo per la prima, adibita a compiti non di amministrazione concreta, potrebbe essere concepibile una tutela alquanto debole in caso di licenziamento ingiustificato[150]. 

15. Dense di profonde implicazioni sul piano sistematico sono altre tre disposizioni della legge delega che hanno il tratto comune di predicare la necessità che esistano sanzioni per il dirigente che…non fa il dirigente! Per la lettera b) del comma 2 dell’art. 6 della legge n. 15/2009 il legislatore delegato deve “prevedere una specifica ipotesi di responsabilità del dirigente, in relazione agli effettivi poteri datoriali, nel caso di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle risorse umane assegnate e sull’efficienza della relativa struttura nonché, all’esito dell’accertamento della predetta responsabilità, il divieto di corrispondergli il trattamento economico accessorio”. La lettera c) aggiunge: “prevedere la decadenza dal diritto al trattamento economico accessorio nei confronti del dirigente il quale, senza giustificato motivo, non abbia avviato il procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti, nei casi in cui sarebbe stato dovuto”. Poi, per la lettera d), “prevedere sanzioni adeguate per le condotte dei dirigenti i quali, pur consapevoli, di atti posti in essere dai dipendenti rilevanti ai fini della responsabilità disciplinare, omettano di avviare il procedimento disciplinare entro i termini di decadenza previsti, ovvero in ordine a tali atti rendano valutazioni irragionevoli o manifestamente infondate”. Il tutto viene ripetuto nella lettera i) del comma 2 dell’art. 7 della legge, secondo cui si devono “prevedere ipotesi di illecito disciplinare nei confronti dei soggetti responsabili, per negligenza, del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare”. Infine, in base alla lettera l) della stessa disposizione, il legislatore delegato deve “prevedere la responsabilità erariale dei dirigenti degli uffici in caso di mancata individuazione delle unità in esubero”.Ora, la prima previsione sembra rientrare appieno nel quadro della responsabilità dirigenziale e già un comportamento del genere dovrebbe rientrare tra quelli valutabili, alla stregua dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 286/1999, che fa riferimento ai “comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate”; e la cui conseguenza minima dovrebbe essere appunto la mancata corresponsione dell’indennità di risultato. Tuttavia, la formula legislativa si riferisce al “trattamento economico accessorio” e potrebbe essere letta nel senso che andrebbe esclusa l’erogazione pure della quota della retribuzione accessoria non legata al risultato, ma correlata alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità. La seconda e la terza ipotesi riguardano fatti contrari ai doveri tipici scaturenti dall’assunzione dei compiti di esercitare i “poteri del privato datore di lavoro”. Ma se tali comportamenti appaiono di rilevanza disciplinare, il luogo adeguato, per la loro considerazione, dovrebbe essere il contratto collettivo, proprio in base al rinvio di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001. Anche qui allora si è di fronte ad una disposizione legale invasiva dell’area della contrattazione collettiva; invasione inutile, perché risolvibile con un’opportuna azione proprio ai tavoli a ciò deputati. Forse però l’intenzione del legislatore delegante è più ampia: e cioè quella di imporre, per via legislativa, l’introduzione di un apparato di sanzioni disciplinari conservative, in relazione ai comportamenti dei dirigenti pubblici che non assurgono ad una gravità tale da giustificare il licenziamento disciplinare. Così raggiungendo un obiettivo da molti ritenuto opportuno[151], ma per vie molto tortuose. Quanto al profilo di responsabilità erariale di cui parla la disposizione citata, ne appare complessa una prefigurazione in astratto, svincolata dall’esame del caso concreto che spetta solo al giudice competente. 

16. Come s’è visto finora non c’è molto nell’art. 6 della legge delega n. 15/2009 che rafforzi veramente “il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza”, come invece recita enfaticamente il comma 1 della disposizione. In effetti, si sono appena esaminati enunciati che soprattutto – grazie alla promessa di benefici o alla minaccia di sanzioni – dovrebbero contribuire a creare una pressione sul dirigente in modo che questi si attivi ed eserciti effettivamente le funzioni formalmente attribuite. Si deve ora provare a spostare l’angolo di osservazione su un altro aspetto toccato dalla normativa che è quello dei poteri del dirigente: cioè, quello che riguarda il cosa esattamente possa fare tale soggetto. Ora, bisogna ritornare a leggere, questa volta interamente, la già menzionata lettera a) del comma 2 dell’art. 6 della legge delega, secondo cui, tra i vari principi e criteri direttivi a cui dovrà attenersi il legislatore delegato, v’è quello di “affermare la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita i poteri del datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane, attraverso il riconoscimento in capo allo stesso della competenza con particolare riferimento ai seguenti ambiti: 1) individuazione dei profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’ufficio al quale è preposto; 2) valutazione del personale e conseguente riconoscimento degli incentivi alla produttività; 3) utilizzo dell’istituto della mobilità individuale di cui all’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, secondo criteri oggettivi finalizzati ad assicurare la trasparenza delle scelte operate”. Sicuramente la dichiarazione degli intenti perseguiti è più enfatica rispetto a quanto è poi in concreto stabilito nel testo. L’enunciato di cui al n. 1 prefigura una possibile interferenza del potere decisionale del dirigente nell’area riservata alla competenza degli atti di macro-organizzazione di cui al comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001 e nell’ambito dei quali rientra la determinazione delle dotazioni organiche complessive. Nell’attuale clima dominato dall’esigenza di controllo della spesa pubblica è poi difficile immaginare un allentamento dei vincoli relativi alle scelte in ordine alle dotazioni organiche: vincoli interni ed esterni che irrigidiscono il potere di gestione del dirigente. L’enunciato potrebbe allora essere letto nel senso di eliminare i condizionamenti dell’azione dirigenziale che provengono, nel quadro normativo vigente, dai poteri spettanti agli organi di governo di stabilire, mediante atti organizzativi, l’ordinamento degli uffici e la provvista di personale (compresi i dirigenti di base) che dipendono dai dirigenti incaricati di funzioni dirigenziali di livello generale. E quindi si vorrebbe affermare l’autonomia del dirigente con riferimento a tale ambito[152]. In verità, il problema, a cui forse la disposizione intende dare soluzione, potrebbe essere risolto più semplicemente a monte, con l’esplicita previsione che, al momento del conferimento dell’incarico, debba costituire oggetto di negoziazione la specifica dotazione di risorse umane (oltre che materiali e finanziarie) necessarie per il raggiungimento dei risultati concordati[153]. La formula di cui al n. 2 si ricollega a quanto sancito dal n. 5 della lettera e) del comma 2 dell’art. 4 della legge delega, secondo cui, tra i criteri che il legislatore delegato deve considerare nel riordinare gli organismi che svolgono funzioni di controllo e valutazione del personale, v’è quello della “assicurazione della piena autonomia della valutazione, svolta dal dirigente nell’esercizio delle proprie funzioni e responsabilità”. Ma il tutto è già implicitamente contenuto nel comma 4 dell’art. 45 del d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “i dirigenti sono responsabili dell’attribuzione dei trattamenti economici accessori”: e in effetti gli stessi contratti collettivi di comparto ancorano la percezione dei relativi trattamenti ad una procedura di valutazione in cui alla dirigenza spetta comunque l’ultima parola. L’ipotesi di cui al n. 3 non sembra aggiungere nulla di nuovo a quanto già consentito dall’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001, a meno che non si voglia ritenere che il legislatore delegato sia autorizzato ad eliminare ogni possibile contributo dell’autonomia collettiva nella regolazione della materia e ad affidare direttamente ai dirigenti delle varie amministrazioni il potere di trasferire anche d’ufficio i dipendenti dall’una all’altra. Maggiore concretezza ha la previsione della lettera m) del comma 2 dell’art. 7 della legge n. 15/2009 che mira a modificare l’attuale regolazione del procedimento disciplinare, con l’attribuzione al dirigente del potere di irrogare direttamente ulteriori sanzioni conservative rispetto a quelle menzionate nell’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001. Si tratta di una pregnante innovazione nella direzione di enfatizzare il ruolo del dirigente quale datore di lavoro. In effetti, s’è osservato che la necessaria intermediazione dell’ufficio per i procedimenti disciplinari (per l’applicazione delle sanzioni più gravi, come stabilisce la normativa al momento in vigore) “potrebbe apparire in contrasto con la piena attribuzione alle qualifiche dirigenziali di ogni potere (e di ogni responsabilità) relativo alla gestione del personale”[154]. Peraltro, s’è affermato che l’ufficio rappresenta una forma di garanzia di trasparenza e imparzialità del procedimento[155]; ma al riguardo andrebbe esaminata con attenzione l’attività del medesimo, chiedendosi se esso non rappresenti la copertura formale di decisioni già a monte precostituite e quindi una sorta di inutile orpello.Ad ogni modo, l’intero art. 7 della legge n. 15/2008 contiene diversi principi di delega volti “a modificare la disciplina delle sanzioni disciplinari e della responsabilità dei dipendenti… al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”. Analogo obiettivo persegue, stavolta attraverso la leva della premialità, l’art. 5 della stessa legge. Per quanto, alcuni dei principi di delega possano essere condivisibili, emerge pure qui un eccesso di fiducia nella ontologica capacità della legge di raggiungere determinati risultati. Tutto ciò fornisce argomenti a quella lettura che intravede il senso profondo della nuova riforma nel “trasformare l’amministrazione in una caserma”, in cui c’è il dirigente “che gestisce il personale con la frusta in mano e il timer nell’altra”[156].  A ben vedere, però, l’accentuazione del ruolo del dirigente, così tanto a chiare lettere espresso, presupporrebbe una maggiore consapevolezza “dello spazio in cui lo stesso dirigente è costretto a muoversi” soprattutto “fra la Scilla del vertice politico e la Cariddi del sindacato, con il rischio continuo di un circuito fra l’uno e l’altro interlocutore che si chiuda sulla sua testa”[157]. Per esempio, da tempo si segnala che la “causa prima delle lamentate disfunzioni della macchina disciplinare” è rintracciabile nelle “pressioni politiche e politico-sindacali sul management”[158]. 

17. Momento tipico dello svolgimento delle funzioni di datore di lavoro è rappresentato dalla gestione delle relazioni sindacali. Orbene, per quanto concerne il settore pubblico, l’esperienza applicativa del sistema costruito dalle riforme degli anni novanta presenta molteplici profili critici dovuti sia a persistenti nodi sul piano regolativo sia alle reali dinamiche delle relazioni negoziali[159]. Entrambi gli aspetti producono l’effetto, da un lato, di porre ostacoli all’azione del datore di lavoro pubblico e anche alla sua precisa individuazione; dall’altro, disegnano un attore datoriale sempre più propenso ad adottare comportamenti a forte rilievo politico.Per ciò che concerne il sistema di contrattazione nazionale, l’illuministico disegno del legislatore della seconda privatizzazione è stato sottoposto, sul piano della prassi, a varie torsioni che ne hanno contraddetto lo spirito originario. Se infatti l’obiettivo era quello di allontanare la politica e le sue pulsioni dai tavoli contrattuali, la realtà, specie negli ultimi tempi, è nel segno di un ritorno in grande della politica che ha contribuito a creare un sistema informale di relazioni sindacali che si sovrappone (per non dire che si sostituisce) a quello formale eretto dalla regolazione legislativa. Di recente, un osservatore, non sospetto di filosindacalismo, ha affermato che “se il pubblico impiego ha dei problemi non metterei il sindacato in cima alla lista dei responsabili di questi stessi problemi”; “mi sentirei di dire che se il sindacato ha occupato terreni non propri e se ha esagerato nelle richieste rivendicative, la responsabilità maggiore sta in chi, dall’altra parte, avrebbe dovuto opporsi e fare meglio il proprio mestiere”: “il mestiere, come ormai si usa dire, di datore di lavoro”. L’autore ammette “che fare il datore di lavoro in una situazione dove, al posto del mercato economico, c’è il ‘mercato politico’ (e, per di più un mercato politico come quello italiano), non è facile”. Però, aggiunge che “questa era una condizione necessaria, direi di più: era il presupposto del processo di privatizzazione-contrattualizzazione del pubblico impiego”. Ma tuttavia “uno degli attori delle relazioni sindacali di tipo privatistico è venuto a mancare”[160]. E’ riscontrabile una singolare convergenza di queste osservazioni con la descrizione di Umberto Romagnoli della contrattazione collettiva nel sistema della legge quadro, all’alba della prima privatizzazione. E cioè, che “nel pubblico impiego la contrattazione collettiva non è che una caricatura di quella praticata in ambito privatistico: un po’ perché le ragioni dell’efficienza non sono percepite come un vincolo implicito delle rivendicazioni del personale e un po’ perché ogni accordo di comparto vede la luce dopo un’infinità di pazienti soggiorni nei corridoi del Palazzo per abbordare ministri e sottosegretari”. Così, “la contrattazione è una parvenza formale ossia un ectoplasma; ma i suoi alti costi sono reali”. E concludeva: “la contrattazione è fittizia, perché non ci sono né padroni  o azionisti che mettano in gioco il loro patrimonio né un mercato che possa allontanare i clienti insoddisfatti né il sistema delle regole non scritte, delle sanzioni e degli incentivi che è indotto dalla concorrenza”[161].Riprendendo il ragionamento del primo autore citato, quanto alle prospettive future, egli parte dalla considerazione: “non credo molto nelle norme e nella capacità delle norme di ‘costruire’ d’incanto il vero datore di lavoro pubblico”, perché, ovviamente, “nella sostanza manca la cultura, il rispetto dei ruoli, il principio di responsabilità”. Così, suggerisce di rifuggire dall’artificio retorico o dal mito di “riscrivere la grande riforma” e di limitarsi “con qualche aggiustamento” a “rimettere la macchina nella direzione giusta”[162]. La fondatezza di queste considerazioni è percepibile se si scorrono i vari momenti della contrattazione collettiva nazionale e integrativa. Ci si rende conto di come le cattive prassi siano più imputabili al comportamento dell’attore negoziale di parte pubblica che invece al quadro normativo; anche se, come da tempo richiedono la dottrina e gli operatori più sensibili, qualche modifica legislativa sarebbe pur sempre necessaria per consentire al treno negoziale di correre su una linea ad alta velocità e non su quella attuale un po’ vetusta e molto tortuosa. In effetti, alcune caratteristiche della disciplina in vigore incidono sullo spazio di azione della parte pubblica in modo da pregiudicarne le potenzialità di imitare il comportamento delle rappresentanze datoriali private ai tavoli delle trattative[163].   Anzitutto, con riferimento alla contrattazione collettiva nazionale, la parte pubblica appare troppo numerosa e ingolfata e ciò inevitabilmente induce nelle sue varie componenti lo stimolo a farsi portatore di interessi divergenti e soprattutto a manifestare con nettezza le proprie posizioni in modo da legittimare la propria identità e a cercare di raccogliere consenso politico. Come s’è ben detto, forse l’unico soggetto che persegue un interesse concreto (quantomeno al controllo dei costi), contrapposto a quello delle organizzazioni sindacali, è il Ministro dell’economia[164] al quale spetta il primo passo per consentire l’apertura della stagione negoziale: l’iscrizione nella legge finanziaria degli stanziamenti per i contratti nazionali delle amministrazioni statali; previsioni di spesa che condizionano anche le amministrazioni non statali, le quali devono attenersi ai parametri fissati per le prime[165]. Qui si segnala il primo paradosso, dato dalla circostanza che si sviluppa una contrattazione informale tra sindacati, Governo e, in particolare, Ministro dell’economia, proprio sul quantum. Analoga dinamica intercorre tra sindacati e comitati di settore per ciò che concerne la contrattazione collettiva delle amministrazioni diverse da quelle dello Stato, per cui non opera il principio della preventiva iscrizione del finanziamento dei contratti all’interno della legge finanziaria. Per giunta, negli ultimi anni, la logica dello scambio politico ha raggiunto il suo massimo di visibilità, perché, proprio allo scopo di favorire l’apertura delle trattative relative ai contratti collettivi nazionali, il Governo ha stipulato veri e propri accordi con le organizzazioni sindacali sulla dotazione finanziaria, al di fuori della cornice legale della contrattazione collettiva[166].La responsabilità di questo stato di cose è principalmente addebitabile al Governo che, in prima battuta, spesso ha definito le risorse in maniera palesemente insufficiente, stimolando la conflittualità sindacale e poi correndo ai ripari con gli accordi di cui s’è detto; l’effetto però è stato quello di innescare ritardi, di alterare l’andamento dei cicli negoziali come programmati dal Protocollo del luglio del 1993, di compromettere il cuore del meccanismo di crescita delle retribuzioni ivi ipotizzato, con il disallineamento temporale tra programmazione finanziaria e rinnovi contrattuali[167].  Comunque sia, l’aspetto più importante del negoziato è già definito prima che esso si apra formalmente. La conseguenza è quella di dimidiare il ruolo dell’Aran che si trova a giocare a carte scoperte perché la controparte conosce il contenuto delle somme disponibili e gioca talvolta al rialzo lamentandone l’insufficienza. Il che incide anche sui contenuti della contrattazione: perché se ci si siede al tavolo con le somme già definite, v’è l’inevitabile propensione a negoziare su altri temi[168]. Questo spiega la sovrabbondanza del contenuto dei contratti collettivi nazionali[169], e non ne favorisce la lettura; anzi la complica e  la rende tormentata  a causa anche della ricca presenza di clausole di difficile comprensione, spesso in violazione di norme legali imperative, e che tentano (sovente con successo) l’assalto alla “zona rossa” delle materie organizzative[170]. Va così  sottolineata “l’anomalia di un procedimento di contrattazione in cui una delle parti contraenti, oltre ad avere una piena conoscenza dell’ammontare delle risorse disponibili, si trova anche nella condizione di far valere impegni già concordati con il Governo, per quanto attiene non solo all’intero impiego delle disponibilità stanziate, ma anche al riparto sostanziale delle stesse tra le componenti fisse ed accessorie della retribuzione, con un conseguente forte condizionamento anche del merito delle scelte contrattuali”[171]. La contrattazione è così costretta a tenere conto dell’esigenza di garantire la copertura degli aumenti delle retribuzioni base per tutto il periodo di vacanza contrattuale, tutelando il potere di acquisto dei lavoratori, e non può concentrarsi sulla reale valorizzazione della parte variabile del salario e quindi degli istituti di produttività. Com’è stato messo in evidenza, il ritardo nella definizione degli assetti economici produce conseguenze negative in termini di incremento dei costi del personale[172]; e innesca un “meccanismo per cui l’accordo contrattuale incorpora un ‘premio’ sul ritardo, come se si verificasse una sorta di ‘scambio’ tra ritardo nella chiusura del contratto ed entità del contratto successivo”[173]. Peraltro, proprio sul piano dei contenuti contrattuali, nonostante il pregevole accento riposto dal Memorandum del 2007 sui temi del miglioramento della qualità dei servizi e dell’accrescimento della produttività del lavoro, come segnala la Corte dei conti, gli ultimi contratti collettivi “mostrano un’attenzione men che modesta alle questioni della produttività del lavoro nel settore pubblico, onde i previsti miglioramenti retributivi sono destinati ad elevare, per la generalità dei dipendenti, i trattamenti fissi e continuativi”; nonché, “mancano, in tutti i contratti, impegni concreti sull’introduzione di strumenti e tecniche per la valutazione indipendente delle prestazioni e della produttività del lavoro”[174].Altro momento di contrattazione informale riguarda la definizione dell’atto di indirizzo all’Aran che dovrebbe appunto consentire a tale soggetto di avviare le trattative. Solo che tale contrattazione informale non si svolge con l’Aran, ma tra i comitati di settore e i sindacati. Così, l’Aran  dovrà poi negoziare sulla base di un mandato definito dalla propria controparte. Tramite il Memorandum del 2007, come segnala la Corte dei conti,  “sono stati concordati, fra Governo e organizzazioni sindacali, gli indirizzi che il primo impartirà all’Aran ai fini della negoziazione dei contratti collettivi”. In ciò la Corte ravvisa “il sostanziale superamento dell’assetto che aveva improntato le relazioni sindacali nel settore pubblico a partire dal d.lgs. n. 29/1993: assetto nel quale il ruolo di soggetto negoziale è rimesso, sulla base di direttive del Governo, ad un organo tecnico – l’Aran – e non al Governo stesso”[175]. Poi, è noto che se la trattativa si arresta, perché l’Aran si arrocca sui limiti del relativo mandato, le organizzazioni sindacali la bypassano e trattano direttamente con il comitato di settore – di cui è noto l’elevato tasso di politicità - per ottenere la modifica dell’atto di indirizzo. Di fatto il comitato di settore partecipa direttamente alla contrattazione e il ruolo dell’Aran è ulteriormente svilito;  ciò spiega il motivo per cui sembra che non ci sia stato alcun caso in cui un’ipotesi di accordo non abbia avuto l’approvazione del relativo comitato di settore[176]. Come s’è visto, i sistematici ritardi con cui vengono rinnovati i contratti nazionali ormai dipendono non dalla fase negoziale vera e propria né dai momenti successivi, bensì dal periodo di attesa di un’adeguata definizione delle risorse per avviare l’iter per il rinnovo degli accordi nonché del conseguente atto di indirizzo[177]. In effetti, sino a qualche tempo fa la lentezza del rinnovo contrattuale era pure addebitabile al transito dell’ipotesi di accordo presso la stazione di controllo rappresentata dall’esame, per le amministrazioni statali, del Presidente del Consiglio dei ministri; e, per le amministrazioni diverse da quelle dello Stato, del comitato di settore e del Presidente del Consiglio dei ministri. Infatti, tale fase, al contrario di quella successiva di competenza della Corte dei conti, non era presidiata da una forma di silenzio assenso. Sicuramente su pressione delle organizzazioni sindacali, è stato varato l’art. 1, comma 548, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 che ha novellato il comma 7 del d.lgs. n. 165/2001 e con il quale s’è cercato di ancorare a tempi certi il suddetto controllo, tuttavia con una disposizione che ha dato adito a molteplici perplessità[178]. Sicché, il comma 7 dell’art. 47 del d.lgs. n. 165/2001 è stato ulteriormente in toto novellato dalla lettera b) del comma 7 dell’art. 67 della legge 6 agosto 2008, n. 133, in modo ancora alquanto farraginoso, ma che almeno introduce l’anzidetto meccanismo del silenzio assenso per ciò che concerne il controllo sull’ipotesi di accordo da parte del comitato di settore e del Governo.   Di recente, l’art. 67, comma 7, lettera a), della legge n. 133/2008, ha novellato il comma 6 dell’art. 47 del d.lgs. n. 165/2001 e ha sancito il principio che la certificazione negativa della Corte dei conti sull’ipotesi di contratto nazionale produce effetti impeditivi della definitiva sottoscrizione. Si tratta di una modifica in parte opportuna che tutela la primaria esigenza del controllo della spesa pubblica. E poi va considerata l’esperienza precedente che ha messo in luce casi di contratti nazionali sottoscritti pur di fronte alla certificazione negativa della Corte dei conti e dalla quale risulta la prevalenza delle esigenze tutte “politiche” di chiudere gli accordi rispetto a quella della salvaguardia dei conti pubblici[179]. Tuttavia, non va trascurato un effetto perverso della scelta del legislatore di attribuire esplicitamente alla certificazione negativa della Corte dei conti il potere di impedire la definitiva sottoscrizione del contratto collettivo. In questo modo, la Corte dei conti diventa un ulteriore attore del procedimento contrattuale e il suo giudizio negativo deresponsabilizza il negoziatore pubblico che può scaricare sull’organo di controllo il compito di pronunciarsi in senso negativo rispetto a contratti contrastanti con le  esigenze di compatibilità economica e finanziaria[180]. 

18. La legge 22 dicembre 2008, n. 203 (legge finanziaria 2009) ha introdotto disposizioni che incidono sul procedimento di contrattazione collettiva. Secondo il primo periodo del comma 35 dell’art. 2 della legge n. 203/2008, “dalla data di presentazione del disegno di legge finanziaria decorrono le trattative per il rinnovo dei contratti del personale” delle pubbliche amministrazioni. Bene s’è detto che si tratta di “una norma ad effetto, evidentemente, che esprime la volontà della parte pubblica di avviare i negoziati subito dopo la definizione, ad opera del d.d.l. finanziaria, delle risorse utilizzabili per i rinnovi contrattuali”[181]. Però, il punto più significativo è costituito dal periodo successivo dello stesso enunciato, in base al quale “dalla data di entrata in vigore della legge finanziaria le somme previste posso essere erogate, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, salvo conguaglio all’atto della stipulazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Intanto, la previsione sembra fare esclusivo riferimento alle  amministrazioni dello Stato, perché solo per la contrattazione collettiva che le concerne gli oneri sono posti a carico del bilancio statale e trovano definizione nella legge finanziaria. Mentre le risorse per la contrattazione collettiva delle amministrazioni diverse da quelle dello Stato, come rimarca il comma 30 dell’art. 2 della legge n. 203/2008, sono poste a carico dei rispettivi bilanci e vengono quantificate dai relativi comitati di settore. Pertanto, in mancanza di tale passaggio non v’è alcuna somma, nemmeno potenzialmente disponibile. Semmai, avrebbe applicazione generalizzata la disposizione del terzo periodo del comma 35 dell’art. 2 della legge n. 203/2008, per la quale “in ogni caso a decorrere dal mese di aprile è erogata l’indennità di vacanza contrattuale”: qui v’è solo da applicare quanto stabilito dal Protocollo del luglio del 1993.L’innovazione che consente l’erogazione delle somme stanziate in finanziaria senza il relativo passaggio negoziale desta molteplici perplessità. Essa funge sicuramente da strumento di pressione, a dir poco provocatorio[182], nei confronti delle organizzazioni sindacali a non assumere atteggiamenti dilatori in sede di trattativa. Però, concede alla parte pubblica un potere eccessivo e soprattutto danneggia il suo stesso interesse ad utilizzare la sede contrattuale come luogo in cui si stabiliscono consensualmente regole e modalità di gestione del personale. Poi, è un po’ contraddittorio pensare di erogare unilateralmente le somme stanziate, consultando le stesse organizzazioni sindacali che avrebbero titolo a contrattare le forme di impiego delle medesime. Insomma, il momento della consultazione può esse configurato come una sorta di escamotage per disarticolare il fronte sindacale e cercare la copertura, da parte di qualche organizzazione, alle scelte governative, anche attraverso trattative occulte. Forse, la vera ragione del congegno è un’altra. Bisogna tenere conto, infatti, che gli ultimi rinnovi contrattuali sono stati stipulati nell’attesa della conclusione (poi avvenuta il 22 gennaio 2009), dell’accordo sulla riforma degli assetti contrattuali che modifica radicalmente, in un modo non del tutto perspicuo[183], il sistema del Protocollo del luglio del 1993 che ha la sua stella polare sull’inflazione programmata. Allora, è probabile che la suddetta disposizione “provocatoria” della legge finanziaria rappresenti un mezzo per chiudere in qualunque modo la stagione contrattuale del settore pubblico, contraddistinta dall’ormai tradizionale ritardo, così da applicare puntualmente il nuovo sistema contrattuale proprio in occasione della prossima scadenza (31 dicembre 2009) degli accordi che si stanno rinnovando.  

19. L’art. 3 della legge delega n. 15/2009 è appunto intitolato “principi e criteri in materia di contrattazione collettiva e funzionalità delle amministrazioni pubbliche”. La disposizione contiene principi di delega tanto ampi da permettere una totale riscrittura della disciplina della contrattazione collettiva al momento in vigore, senza però che sia possibile definirne in modo compiuto i contorni. E’ consentito tuttavia cogliere alcune delle direttrici verso cui è indirizzato il legislatore delegato da parte del delegante. Una di queste, menzionata nel comma 1 dell’enunciato, è quella permeata dalla finalità “di assicurare il rispetto della ripartizione tra le materie sottoposte alla legge, nonché, sulla base di questa, ad atti organizzativi e all’autonoma determinazione dei dirigenti, e quelle sottoposte alla contrattazione collettiva”. Di per sé ciò non sarebbe criticabile, tenendo conto dell’esperienza passata che registra molteplici reciproche invasioni di campo tra legge e contrattazione collettiva nell’area delle rispettive competenze alla stregua degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165/2001. E’ fin troppo nota la vicenda della cosiddetta “deriva” o “ingordigia pancontrattualista”[184] che, per esempio, ha creato un sistema di relazioni sindacali tale da legittimare, tramite il cavallo di Troia della concertazione, un’estensione della contrattazione integrativa anche su materie tipicamente organizzative e pertanto, in base all’opinione più ragionevole, non negoziabili a qualunque livello[185]. Oppure sono conosciuti i casi in cui la contrattazione collettiva nazionale ha dettato discipline in aperto contrasto con le pur limitate direttive legislative[186]. D’altro lato, il legislatore non s’è astenuto dall’interferire nell’ambito della regolazione delle condizioni di lavoro, non solo a tutela di interessi generali, ma anche sotto la spinta di pressioni sindacali[187]. E, di recente, si è arrivati a stabilire nel Memorandum del 2007, in modo emblematico[188], che “le iniziative di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche vengano attuate attraverso indirizzi e criteri generali concordati in occasione del rinnovo dei contratti”. Sicché, s’è detto che “in questo modo il Governo concorda con i sindacati ciò che un imprenditore privato non sarebbe mai disposto a concordare, cioè l’assetto della propria struttura produttiva”[189]; e comunque, come sottolinea la Corte dei Conti, “in evidente contrasto con l’esclusiva spettanza all’amministrazione del potere di autodeterminarsi nell’esercizio della funzione organizzativa”[190]. Però - scorrendo i vari principi e criteri direttivi, non solo dell’art. 3, ma anche degli artt. 4, 5, 6 e 7, della legge n. 15/2009 e in considerazione di quanto risulta dal documento preparatorio del 4 giugno 2008 e dalla prima versione della disposizione in commento, contenuta nel disegno di legge originario d’iniziativa governativa - l’impressione è quella della programmazione di un intervento eteronomo a tutto campo volto a ridurre lo spazio della contrattazione collettiva sotto il profilo dei contenuti, a tal punto da consentire la regolazione in via legislativa dell’intero rapporto di lavoro[191]. In questa direzione depone, tra l’altro, il principio di delega di cui alla lettera a) del comma 2, dell’art. 3, che impone di “precisare…gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla legge, fermo restando che è riservata alla contrattazione collettiva la determinazione dei diritti e delle obbligazioni pertinenti al rapporto di lavoro”. Con il che, se emerge un pascolo illimitato per la disciplina legislativa, la conseguenza è quella del rischio della compressione dell’autonoma determinazione dei dirigenti che a parole invece si intende salvaguardare.  D’altra parte, l’art. 1 della legge delega introduce una nuova versione del secondo periodo del comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, secondo la quale la contrattazione collettiva successiva può derogare alla precedente disciplina unilaterale “solo se ciò sia espressamente previsto dalla legge”. Vero è che resta salva la parte seguente della disposizione e quindi viene mantenuta la competenza esclusiva della contrattazione collettiva in materia salariale[192], seppure ormai ingabbiata nelle rigide prescrizioni che dovrebbe introdurre il legislatore delegato. Però, è anche vero che il legislatore manifesta la chiara volontà di mettere sotto tutela l’autonomia collettiva e di assicurare la primazia della fonte unilaterale in ordine alla disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ribaltando la linea ispiratrice dell’assetto fino a questo momento esistente, in cui alla fonte contrattuale è stato assegnato il ruolo centrale nella regolazione del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali nonché nel processo di delegificazione del rapporto di lavoro pubblico[193]. Peraltro, c’è un profilo tecnico da non sottovalutare: secondo il nuovo testo, la contrattazione collettiva può derogare la disciplina unilaterale solo se previsto dalla legge; tuttavia, la disciplina unilaterale può essere anche non di fonte legislativa, ma regolamentare o statutaria. Si ripropone la questione, sorta sotto il vigore della precedente formula della disposizione, dell’esegesi dell’espressione “eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto”[194]. La lettura coordinata dell’enunciato con la salvaguardia della competenza della contrattazione collettiva nel regolare, almeno in via di principio, le condizioni di lavoro, porta a ritenere condizionata l’apertura  a discipline unilaterali sublegislative solo qualora sia direttamente la legge a prevedere ciò[195]. Ad ogni modo, non può essere sottaciuto che qui aleggia (rectius ritorna) il mito della migliore qualità, per non dire della ontologica corrispondenza all’interesse pubblico della regolazione unilaterale di fronte ad una contrattazione collettiva a priori considerata incapace di bilanciare tale interesse con tutti gli altri particolari e collettivi che comunque non possono essere espunti dal mondo del lavoro pubblico, perché nascono all’interno di ogni organizzazione[196]. Quanto al ruolo della parte pubblica sul piano della contrattazione nazionale, da tempo circolano idee volte a suggerire un suo rafforzamento[197] il cui primo tassello dovrebbe essere costituito dalla semplificazione o dalla riduzione delle sue varie componenti, oppure dalla previsione di un rigido apparato di incentivi e sanzioni, per evitare l’instaurazione dei giochi perversi di cui si è poc’anzi fatto cenno e che si sostanziano nella “cattura” dei vari attori datoriali ad opera della controparte sindacale[198]. L’art. 3 della legge delega apre ad un’ampia riforma dell’Aran di cui prescrive il “rafforzamento dell’indipendenza…dalle organizzazioni sindacali”. La disposizione è a dir poco sbalorditiva perché è come se ammettesse che al momento il negoziatore pubblico, e cioè l’Aran, non è indipendente dai sindacati. In effetti, la dottrina, che conosce la realtà effettuale, afferma che “non sorprende…l’arrendevolezza dell’Aran, data la sua intenzionale composizione pro-triplice”[199], realizzata con “l’immissione di personale di origine sindacale (così il padronato è prigioniero della controparte)”[200]. D’altra parte, un pieno riconoscimento della debolezza dell’Aran e dell’intera parte pubblica ai tavoli della contrattazione nazionale emerge dalle previsioni della legge delega che mirano ad incidere sulla struttura del sistema contrattuale e sulla durata dei contratti, determinando una forte compressione dell’autonomia collettiva. In verità si tratta di obiettivi perseguibili, indipendentemente dalla costrizione legale, dalla parte pubblica con un’adeguata e coerente strategia negoziale.E’ sicuramente condivisibile la previsione volta al “potenziamento del potere di rappresentanza delle regioni e degli enti locali”, come da tempo è richiesto da più voci, nell’ottica del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione. Anche se la ritardata attuazione del federalismo fiscale e la mancata coincidenza in capo a tali enti dell’esclusiva responsabilità in ordine alle decisioni di spesa e al reperimento delle relative risorse sono elementi che suggeriscono una relativa prudenza nell’affrancare questi soggetti dalla rappresentanza dell’Aran[201]. Semmai, la soluzione più opportuna è quella di favorire un rapporto più stretto tra comitati di settore ed Aran, prendendo spunto dai suggerimenti avanzati da coloro i quali gestiscono sul campo la materia[202]. Va ridimensionato il carattere innovativo dell’affermazione, contenuta nell’art. 3, che prevede, come formula generale, il rafforzamento del “potere direttivo” dei comitati di settore nei confronti dell’Aran: essa è  contraddetta dalla realtà dei fatti come s’è visto poc’anzi. Pur nella distinzione dei rispettivi ruoli, comitati di settore ed Aran dovrebbero avere uno o più momenti comuni, laddove potere di indirizzo contrattuale e gestione dell’attività negoziale s’incontrino al riparo da indebite pressioni. Si può pensare ad una riforma della composizione e dei poteri dell’organismo di coordinamento dei comitati di settore[203]; nonché alla codificazione di una partecipazione dell’Aran alla predisposizione dell’atto di indirizzo e ad ogni sua variazione. Al momento, andrebbe valorizzata la possibilità, già prevista dalla normativa vigente, di una regolazione dei rapporti tra Aran e comitati di settore sulla base di appositi protocolli. Così, verrebbe rafforzata l’autonomia di tale organo e si eliminerebbe il rischio che venga scavalcato da negoziazioni informali. L’aumento della forza dell’Aran può anche essere ottenuto affidandole uno spazio economico, gestibile in autonomia, tramite la dotazione di budget predeterminati. Qui però appare necessario dare concretezza a quella proposta volta ad escogitare un sistema di finanziamento dei contratti collettivi nazionali che, opportunamente, non sia del tutto visibile alle controparti sindacali: in modo da immettere una tipica caratteristica della contrattazione dell’area privata[204]. E si può anche immaginare un complesso di premi per i negoziatori dell’Aran, qualora si giunga alla stipula di contratti nazionali valutati in modo positivo da un apposito organismo indipendente. Andrebbe poi garantita una migliore costruzione dei contenuti contrattuali, realizzando occasioni di contatto e collaborazione, prima e nel corso delle trattative, tra il negoziatore pubblico a livello nazionale e rappresentanze dei dirigenti a cui poi tocca applicare la normativa[205]. Rispetto all’esigenza della riduzione dei ritardi dei rinnovi contrattuali, se, come s’è gia accennato e risulta dai dati più recenti, ciò è addebitabile alla fase preliminare all’avvio del negoziato, che concerne lo stanziamento di risorse sufficienti e la formulazione dell’atto di indirizzo all’Aran, allora bisogna incidere sulle componenti della parte pubblica a questo deputate. E’ improcrastinabile l’esigenza di inserire sanzioni negative e positive volte a spingere gli organi competenti ad osservare le cadenze contrattuali. Bisogna però considerare che la normativa vigente vincola i comitati di settore delle amministrazioni diverse dallo Stato, nel quantificare gli oneri sostenibili per i rinnovi contrattuali, a procedere in coerenza con i medesimi parametri previsti per le amministrazioni statali. Sicché, è evidente che il punto nevralgico su cui va concentrata l’attenzione è costituito dall’ancorare a tempi certi l’apertura della stagione dei rinnovi contrattuali per i comparti statali. Di per sé, quindi, l’allungamento della durata dei contratti collettivi nazionali, da due a tre anni, come previsto dall’accordo del 22 gennaio 2009, non risolve i problemi poc’anzi messi in evidenza, se l’attore pubblico non persegue effettivamente l’obiettivo prioritario di rispettare le scadenze contrattuali[206].  Altro elemento da segnalare, che incide non tanto sul funzionamento effettivo del sistema contrattuale, bensì sulla possibilità stessa di un reale contrasto di interessi  tra dirigente-datore di lavoro pubblico e lavoratori,  è dato dalla forte presenza ai tavoli contrattuali nazionali delle aree dirigenziali delle organizzazioni sindacali che rappresentano sia dirigenti sia lavoratori non dirigenti[207]. Si tratta di una situazione che non ha eguali nel settore privato, ma difficile da risolvere in via eteronoma stante il valore indiscutibile della libertà di organizzazione sindacale[208]. Appare questo un elemento che compromette l’autonomia del dirigente rispetto alla sua naturale controparte, perché ne determina la “cattura” ad opera delle organizzazioni sindacali portatrici di interessi differenti e persino antitetici a quelli che dovrebbe difendere la categoria dirigenziale. Come s’è già accennato, con riferimento alla garanzia dell’autonomia della dirigenza nei confronti del potere politico, anche qui il rimedio non sembra quello del ritorno al regime giuridico pubblicistico, seppure limitato all’alta dirigenza[209]. In passato, pur sotto lo scudo formale dello status pubblicistico, si instauravano giochi perversi e negoziazioni occulte tra politici e dirigenti che producevano l’effetto di alterare quanto predisposto dal sistema normativo vigente[210]. Quindi, nulla esclude che, nonostante il ripristino di una regolazione di diritto pubblico, persista la sindacalizzazione della categoria dirigenziale, ma mutino le modalità della sua azione: passando da quella trasparente della dialettica contrattuale a quella più oscura e preoccupante del lobbismo.  Ed è difficile assimilare la posizione del dirigente pubblico ai soggetti che operano nei comparti della pubblica sicurezza e delle forze armate, nei confronti dei quali vige una legislazione speciale limitativa delle ordinarie libertà sindacali, peraltro da sempre discussa. La soluzione va trovata attivando tutti quegli strumenti, e, in primis, la selezione e la formazione, che creino le precondizioni per la maturazione di una genuina coscienza del proprio ruolo da parte della dirigenza pubblica[211]. Da qui non può che derivare il rifiuto di ogni occasione di una deminutio del proprio status, come quella data da forme di coalizione unitaria con i lavoratori non dirigenti: e così potrebbe svilupparsi una genuina rappresentanza autonoma ad imitazione di quanto avviene nel lavoro privato. Più semplice sarebbe agire sul piano della disciplina delle incompatibilità, stabilendo precise ipotesi di impossibilità di conferimento di incarichi che implicano compiti di gestione del personale a dirigenti che, entro un determinato periodo di tempo, non rinuncino a qualunque tipo di funzione presso le organizzazioni sindacali cui sono iscritti[212].  

20. Com’è noto,  l’esperienza ha messo in luce che, al livello degli enti sede di contrattazione integrativa, è più probabile una vera e propria confusione tra parte pubblica e sindacati, specie nel caso in cui a guidare la delegazione di parte pubblica è il soggetto politico titolare della rappresentanza dell’ente in questione. La parte datoriale, infatti, è ancora più debole nei luoghi dove si svolge la contrattazione integrativa, a causa della maggiore vicinanza tra soggetti politici e corpo elettorale, di cui una componente significativa è rappresentata dai dipendenti dell’amministrazione interessata. In effetti, il circuito politico-elettorale, così intenso in ogni momento delle relazioni sindacali nel lavoro pubblico, è maggiormente percepibile in sede locale, laddove il dipendente assume la doppia veste di lavoratore ed elettore che porta l’attore politico a tenere conto soprattutto, se non esclusivamente, della seconda componente[213]. E nella terra di mezzo si trova la dirigenza pubblica, la quale è esposta ad indebite pressioni e al rischio continuo di essere scavalcata dal dialogo diretto organi di governo-sindacati dei lavoratori. Anche a questo riguardo, per rappresentare una situazione attualmente diffusa, può essere richiamata l’osservazione fatta da chi, con riferimento alla vicenda precedente la riforma degli anni novanta del secolo scorso, sosteneva che “è difficile realizzare la logica d’impresa quando il datore di lavoro è dalla stessa parte dei dipendenti”[214]. Il disegno riformatore ha così subito una distorsione, perché è stata travolta l’idea base su cui si reggeva: e cioè, quella della distinzione dei ruoli tra datore di lavoro e sindacati, che si è sovente tramutato nel suo esatto contrario. O meglio: il datore di lavoro non riesce a svolgere in pieno il proprio ruolo, mentre il sindacato, non incontrando ostacoli, invade tutti gli spazi occupabili. Infatti, come dimostrano le ricerche sul campo, in sede integrativa la rottura delle trattative ad opera della parte pubblica è un fatto estremamente raro; mentre la risorsa conflittuale è usata esclusivamente dal sindacato[215].Peraltro, come s’è accennato, la contrattazione collettiva nazionale della seconda tornata contrattuale, in linea di continuità con quella precedente, ha congegnato un sistema di relazioni sindacali a livello decentrato fortemente partecipativo, in cui accanto alla contrattazione vera e propria si collocano le procedure di informazione, consultazione e concertazione, con un’articolazione e una connessione reciproca non sempre trasparente. Per capire le ragioni di questo stato di cose, bisogna tenere conto del punto di partenza originario: la necessità di abbandonare il modello cogestionale, invalso sotto il regime della legge quadro e la circostanza che gli attori principali del mutamento sono le grandi confederazioni sindacali. Il modello della riforma “è chiaramente orientato a favorire relazioni sindacali, correttamente improntate alla distinzione dei ruoli, ma partecipative nel metodo, ossia orientate a prevenire conflitti e a sviluppare la collaborazione tra le parti in vista dei fini pubblici dell’attività amministrativa”[216]. A ciò si aggiunge un’impostazione della disciplina della contrattazione collettiva funzionale alle specifiche esigenze del legislatore della riforma quale “strumento di acquisizione del consenso confederale alla razionalizzazione organizzativa e al riordino dei trattamenti dei lavoratori pubblici”[217].Tuttavia, va sottolineato che la tornata contrattuale 1998-2001 rimodula il sistema di relazioni sindacali dopo la “seconda privatizzazione” che assoggetta al regime privatistico l’organizzazione bassa e apre il cosiddetto “giallo” delle sette materie[218]. Sicché, da un lato, la contrattazione nazionale sottopone a forme di partecipazione sindacale, diverse dalla contrattazione, materie ricadenti nella micro organizzazione, offrendo argomenti proprio alle tesi che sostengono la negoziabilità dell’organizzazione bassa. Queste posizioni trovano spunto nel nuovo istituto partecipativo della concertazione (di cui va rimarcata la notevole ambiguità già sul piano tecnico-formale). Infatti, la concertazione riguarda alcune materie spiccatamente organizzative e si estrinseca nella previsione di incontri tra le parti, al termine dei quali, secondo talvolta esplicitamente stabilito dal contratto nazionale, si possono assumere impegni vincolanti. D’altro lato, il pur labile confine eretto dalla contrattazione nazionale tra le materie oggetto di contrattazione integrativa e le materie al più sottoposte ad altre forme (meno intense) di partecipazione sindacale (consultazione, informazione) non regge in sede decentrata, dove, a causa della debolezza della parte pubblica, la negoziazione lambisce sovente le prerogative manageriali in materia organizzativa[219].Inoltre, la contrattazione collettiva nazionale della seconda tornata ha ampliato le competenze della contrattazione integrativa – pur mantenendo un chiaro rapporto gerarchico tra i due livelli – ed ha affidato ad essa la gestione concreta di istituti che potrebbero accompagnare fecondi processi di innovazione organizzativa e miglioramento dell’efficienza e della qualità dei servizi: istituti come il nuovo sistema di inquadramento professionale e le relative progressioni verticali ed economiche; il salario accessorio e i correlativi fondi, che possono essere incrementati con risorse proprie (e quindi aggiuntive rispetto alla dote assegnata a livello nazionale) dell’ente in presenza di specifiche condizioni. L’applicazione concreta di questi strumenti è avvenuta con notevoli distorsioni (progressioni verticali ed economiche concesse senza alcuna selettività e quindi di massa, erogazioni del salario accessorio a pioggia; aumento dei fondi senza alcuna connessione con la crescita dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi) e ha prodotto quella che è stata definita l’esplosione del salario accessorio e di conseguenza un preoccupante incremento della spesa pubblica[220]. Benché il sindacato non sia immune da colpe, perché ha accentuato in sede locale antiche tendenze  corporativistiche, anche qui la responsabilità maggiore grava sull’incapacità della parte pubblica di affermare le ragioni dello scambio tra retribuzione e qualità della prestazione e tra sviluppo professionale e verifica del merito effettivo[221]. In molti casi, l’unico limite che ha incontrato la vis expansiva della contrattazione collettiva è stato quello della capienza delle condizioni di bilancio dell’ente; che però funge da limite elastico, per esempio negli enti locali, poiché “spesso le buone condizioni di bilancio sono state ottenute con maggiorazioni delle addizionali di imposta e con più elevate tariffe dei servizi pubblici”[222]. S’è realizzato quanto previsto da Massimo D’Antona il quale, nel corso della seconda tornata contrattuale, sosteneva che “se fosse una vecchia amministrazione e un vecchio sindacato ad applicare i nuovi contratti, di nuovo resterebbe ben poco”[223].Tale situazione ha indotto il legislatore nazionale ad una rapida marcia indietro – giustificata anche dalla più ampia esigenza del contenimento della spesa pubblica che si è manifestata negli ultimi anni – la quale, a partire dal 2001, s’è concretata in interventi volti a circoscrivere lo spazio economico della contrattazione integrativa, cercando di evitare incrementi indefiniti dei relativi fondi, e a tentare di aumentare l’efficacia dei controlli esterni ed interni sul rispetto delle barriere normative e finanziare stabilite dai contratti collettivi nazionali e dalla normativa legale[224]. Nello stesso Memorandum del 2007, la parte relativa alla contrattazione integrativa ha il pregio di mettere in evidenza le storture del sistema[225], al punto da contenere l’impegno di assicurare che proprio nella contrattazione integrativa “l’amministrazione sia reale controparte del sindacato”: e quindi si ammette che al momento così non è!   

21. Al tramonto dell’ultima stagione del governo di centrosinistra, attenti osservatori delle relazioni sindacali nel lavoro pubblico avevano messo in risalto i frequenti casi di comportamenti collusivi[226] tra le parti della contrattazione integrativa e osservato che, se non fosse cambiato il contesto (dato da vincoli e incentivi diversi dal settore privato) a cui è sottoposto il datore di lavoro pubblico, in modo da rafforzarne la responsabilità, l’unica strada percorribile sarebbe stata l’adozione di misure “non solo di forte ricentralizzazione della contrattazione ma di ridimensionamento della stessa autonomia collettiva”[227].Ciò è in effetti quanto è successo negli ultimi tempi. L’art. 67 della legge n. 133/2008, da un lato, ha calato la scure, quanto alle amministrazioni statali, sulle forme di finanziamento della contrattazione integrativa previste da disposizioni speciali, nonché, per tutte le  amministrazioni, ha stabilito una percentuale fissa di riduzione dei fondi per la medesima contrattazione, che già andavano ridimensionati e stabilizzati ai livelli del 2004; e, dall’altro, ha introdotto una modalità di controllo sui risultati di questa da parte della Corte dei conti, che pare proprio estendersi al merito dei contenuti contrattuali. Infatti, la disposizione, ai commi 8 e 9, impone alle amministrazioni di trasmettere alla Corte dei conti, tramite il Ministero dell’economia, informazioni “volte tra l’altro ad accertare oltre il rispetto dei vincoli finanziari previsti dalla vigente normativa in ordine alla consistenza delle risorse assegnate ai fondi per la contrattazione integrativa e all’evoluzione della consistenza dei fondi e della spesa derivante dai contratti collettivi applicati, anche la concreta definizione ed applicazione di criteri improntati alla premialità, al riconoscimento del merito e alla valorizzazione dell’impegno e della qualità della prestazione individuale, con riguardo ai diversi istituti finanziati dalla contrattazione integrativa, nonché a parametri di selettività, con particolare riferimento alle progressioni economiche”. Il successivo comma 10 dell’art. 67 della legge n. 133/2008 statuisce che, “in caso di esorbitanza delle spese dai limiti imposti dai vincoli di finanza pubblica e dagli indirizzi generali assunti in materia in sede di contrattazione nazionale”, la Corte dei conti “propone…interventi correttivi a livello di comparto o di singolo ente”. E “in caso di accertato superamento di tali vincoli le corrispondenti clausole contrattuali sono immediatamente sospese ed è fatto obbligo di recupero nell’ambito della sessione negoziale successiva”, comunque “fatte salve le ipotesi di responsabilità previste dalla normativa vigente”. L’art. 3 della legge delega contiene previsioni tali da consentire una totale riscrittura della disciplina della contrattazione integrativa. Ad una lettura d’insieme dell’ampio programma della delega, risulta verosimile come lo spazio negoziale sarà estremamente ridotto, soprattutto in considerazione dei forti vincoli di scopo già ex lege previsti in capo alla dirigenza pubblica, responsabile a livello decentrato della gestione delle trattative. Inoltre, è sancito un ulteriore irrigidimento dei vincoli e dei controlli: soprattutto per rafforzarne l’effettività, visto che l’esperienza insegna come quelli attuali non siano riusciti a contenere le tendenze distorsive della contrattazione integrativa, se non nei casi più eclatanti e che hanno avuto risonanza giudiziaria[228]. L’aspetto significativo è la continuazione della via verso la diffusione di tecniche di controllo dal basso ad opera dei cittadini, già avviata con l’art. 67, comma 11, della legge n. 133/2008 e perseguita, su un piano più generale, dall’art. 4 della stessa legge delega. Infatti, il comma 11, dell’art. 67 della legge n. 133/2008 stabilisce che “le amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare in modo permamente sul proprio sito web, con modalità che garantiscano la piena visibilità e accessibilità delle informazioni ai cittadini, la documentazione trasmessa annualmente all’organo di controllo in materia di contrattazione integrativa” di cui s’è poc’anzi detto. Poi, la lettera f) del comma 2, dell’art. 3 della legge n. 15/2008 prefigura “adeguate forme di pubblicizzazione ai fini della valutazione, da parte dell’utenza, dell’impatto della contrattazione integrativa sul funzionamento evidenziando le richieste e le previsioni di interesse per la collettività” e la successiva lettera m) stabilisce di “prevedere l’imputabilità della spesa per il personale rispetto ai servizi erogati e definire le modalità di pubblicità degli atti riguardanti la spesa per il personale e dei contratti attraverso gli istituti e gli strumenti previsti dal codice dell’amministrazione digitale”. Così, il legislatore delegante non si accontenta solo di controlli di tipo “istituzionale” (sia interni sia esterni), comunque siano congegnati e riformati, e pone fiducia su uno di tipo “sociale” o “diffuso”,  “ben consapevole che è proprio quest’ultimo a fare la differenza”; e lungi dal lasciarlo disarmato, gli mette in mano addirittura una class action”[229]: che  è quella, già menzionata, di cui all’art. 4, comma 2, lettera l), della legge n. 15/2009. Se si fa qualche passo indietro, qualcosa di simile la si ritrova nei suggerimenti della dottrina più sensibile[230] e pure nella proposta di legge della Cgil del 1990 che aprì la stagione della privatizzazione, il cui art. 10 sanciva il diritto delle associazioni degli utenti a partecipare, però con la sola facoltà di parola e proposta, alle trattative contrattuali che riguardassero servizi a fruizione diretta da parte dei cittadini. Qui si cerca di fare di più: ritenendo, da un lato, che l’obbligo della pubblicizzazione dei risultati negoziali possa dissuadere gli attori da comportamenti collusivi; e che la vigilanza degli utenti e delle loro associazioni possa anche innescare, a carico dei responsabili, sanzioni non solo politiche o incidenti sulla loro reputazione pubblica, ma possa altresì offrire spunto all’azione di cui all’art. 4, comma 2, lettera l) della legge n. 15/2009, ricorrendone ovviamente i presupposti. E’ evidente che tali misure hanno sullo sfondo l’apparato predisposto dal  già esaminato art. 4 della legge n. 15/2009, che collega la valutazione del personale alla valutazione delle strutture e della qualità e dell’efficienza dei servizi, nonché attiva vari meccanismi di voice. Va evitato però il rischio di una sterilizzazione dell’attitudine conflittuale dei cittadini-utenti, di fronte al tradizionale “muro di gomma” della pubblica amministrazione, anche perché i meccanismi di voice hanno bisogno di tempo per sedimentarsi. Ciò richiede un sostegno adeguato alla formazione di genuine organizzazioni dei cittadini per il controllo della pubblica amministrazione che abbiano le adeguate competenze tecniche per rendere effettivi il coinvolgimento degli utenti e i meccanismi di voice[231]. Al momento, è quindi opportuno garantire pure la pregnanza del controllo “istituzionale”: che non si può tradurre nella sola sanzione della nullità o della sospensione delle clausole contrattuali in violazione dei limiti fissati dalla legislazione o dalla contrattazione collettiva nazionale, come pur ribadisce la lettera d) del comma 2 dell’art. 4 della legge n. 15/2009. In quest’ottica, andrebbero introdotte concrete misure di penalizzazione per le amministrazioni che non legano gli incrementi retributivi per il proprio personale all’aumento della qualità dei servizi o a risparmi di altre spese correnti[232]. E nei casi più gravi, dove è accertata una significativa inefficienza gestionale, potrebbe anche prevedersi la sostituzione ex auctoritate dello staff manageriale con i dirigenti appartenenti ad una taskforce interistituzionale[233], che può essere in vari modi collegata al nuovo organismo di cui di cui alla lettera f) del comma 2 dell’art. 4 della legge n. 15/2009.  Le verifiche e l’applicazione delle sanzioni andrebbero effettuate da organi terzi (congegnati anche tramite un’articolazione territoriale dell’anzidetto nuovo organismo) e con componenti di accertata indipendenza e perciò spronati a fare valere responsabilità e a valorizzare meriti reali[234]. Nell’ambito di una strategia così integrata, in cui i contrapposti interessi si bilanciano a vicenda, allora potrebbero concepirsi anche relazioni virtuose tra politica, management, azione sindacale e cittadini, caratterizzate dall’effettivo operare del principio di responsabilità, scardinando la persistente autoreferenzialità della pubblica amministrazione e indirizzandone veramente l’attività al servizio della collettività.Comunque, è vero che l’esperienza dimostra come uno dei problemi fondamentali del lavoro pubblico resta quello di “conciliare l’idea (o si potrebbe dire il sogno) della contrattazione decentrata come risorsa organizzativa con l’idea (o si potrebbe dire la dura realtà) della contrattazione decentrata come centro di spesa”[235]. E pertanto sono più evidenti gli usi distorti del metodo contrattuale che quelli virtuosi, seppure essi non manchino[236]. Però, non va trascurato il fatto che il dialogo negoziale consente, in modo trasparente, l’emersione dei conflitti connaturati ad ogni organizzazione e che così potrebbero trovare soluzioni condivise. La contrattazione integrativa rimane uno strumento fondamentale di gestione del personale, che permette la diffusione di una cultura dell’innovazione organizzativa. Bisogna rifuggire dal mito (che aleggia anche nella legge n. 15/2009) che il mutamento dei comportamenti possa essere prodotto di per sé grazie all’approvazione di una o più leggi, come se “tutto ciò che diventa normativo diventi anche reale”[237]. L’efficacia di ogni progetto riformatore della pubblica amministrazione, come risulta dalla storia, dipende essenzialmente dal coinvolgimento attivo del personale e, in particolare, della dirigenza che deve dare attuazione al comando del legislatore, nonché dalla capacità di adattare il disegno alla realtà che si palesa mano a mano che il processo riformatore produce i suoi risultati[238]. E ciò richiama l’importanza di un approccio partecipativo, dialogico e, in sostanza, democratico. Altrimenti le resistenze passive e gli effetti inattesi saranno più forti del migliore dei progetti concepibili[239].  
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[1] Cfr. D’Orta-Diamanti, 1994, 45 ss.; Dente, 1995, 3 ss.; Rusciano, 2000a, 1140; Cresti, 2006, 187 ss.; Sgroi, 2006; Natalini, 2006, 43 ss.; Pioggia, 2007, 120 ss.; Garilli, 2004, 115; Savino, 2003, 2229 ss.; Gualmini, 2003, 151 ss.

 

[2] D’Antona, 1998, 36. Cfr., anche, L.Zoppoli, 2008a, 10 ss.

[3] F.Carinci, 2009b, 28; e cfr. Caruso-Zappalà, 2007, 10 ss.

 

[4] F. Carinci, 2009b, 29. Cfr. Nicosia, 2009, 67.

 

[5] Cfr. Battini, 2009a, 2 ss.

 

[6]  Cfr. Tullini, 2003, 95 ss.; Ales, 2007, 14 ss.

 

[7] Cfr., F.Carinci, 2004a, 349 ss.

 

[8] Cfr. Bordogna, 2007, 67 ss.; Battini, 2009b, 296 ss.

 

[9] Cfr. Ichino, 2006; Giacalone, 2008.

 

[10] Cfr. Cassese, 1994a, 14; Savino, 2005, 447; Caruso-Zappalà, 2007, 7.

 

[11] Cfr. L.Zoppoli, 2007b, 575 ss.; Garilli, 2007, 325 ss.

 

[12] Cfr. Bordogna, 2008; L.Zoppoli 2008b; D’Alessio, 2008; Treu, 2008.

 

[13] Cfr. F.Carinci, 2009b, 12 ss.; L.Zoppoli, 2009, 8 ss.

 

[14] Cfr. Melis, 1996, 529 ss.; Savino, 2003, 2282 ss.; Capano, 1992, 305 ss; Cassese, 1983, 273 ss.; Rusciano, 1978.

 

[15] Rusciano, 2008, 61 ss.

 

[16] D’Alessio, 2007a, 73 s.

 

[17] Cfr. Salvati, 1989, 217; Foa, 1989, 223; Roccella, 1993, XXXI.

 

[18] Cfr. D’Orta, 1994, 156.

 

[19] Cfr. Cassese, 1981, 234; e cfr. Capano, 1992, 241 ss.

 

[20] Cfr. Treu, 1994, 3 ss.

 

[21] Cfr. Bordogna, 1998, 306.

 

[22] Cfr. F.Carinci, 1993, 10 ss.; Bordogna, 1998, 300 ss.

 

[23] Rusciano, 1989, 392 s.

 

[24] Garilli, 1992, 657.

 

[25] Bordogna, 1998, 308; così, Caruso-Zappalà, 2007, 10 ss.

 

[26] D’Orta, 1994, 151.

 

[27] Cfr. Merloni, 2006, 138 ss.; Battini, 2006, 1859 ss.

 

[28] F.Carinci, 2004b, 848; così Zoli, 2005, 263; e cfr. A.Zoppoli, 2000, 235 ss.

 

[29] Così, Battini, 2006, 1862.

 

[30] Cfr. D’Orta, 2004, 961 ss.

 

[31] F.Carinci, 2001a, 31; così Garilli, 2004, 114; Zoli, 2005, 264.

 

[32] Cfr. F.Carinci, 2001a, 27 ss.; A.Zoppoli, 2000, 215 ss.

 

[33] Cfr. D’Alessio-Valensise, 2004, 1074 ss.; F.Carinci, 2001a, 37 ss.

 

[34] D’Antona, 2000, (ma 1998).

 

[35] Caruso-Zappalà, 2007, 10 s.; cfr. Battini, 2000, 748.

 

[36] Cfr. F. Carinci, 2001a, 38.

 

[37] D’Orta, 2004, 958.

 

[38] Cfr. Battini, 2006, 1864.

 

[39] Cfr. Zoli, 2005, 266; D’Alessio, 2000, 749 ss.; D’Alessio-Valensise, 2004, 1058 ss.; Battini, 2003, 553 ss.; Id., 2000, 682 ss.

 

[40] Cfr. D’Auria, 2001, 30 s.; D’Orta, 2001, 133 s.

 [41] Cfr. D’Auria, 2002a, 1157 ss.; Id., 2002b, 853 ss.; Garilli, 2004, 122 ss.
 

[42] Cfr. Corso, 2003, 304.

 

[43] Cfr. D’Orta, 1994, 156 ss.; Cassese, 1983, 69 ss.; L.Zoppoli, 2003a, 756 ss.

 

[44] D’Orta, 1994, 154; Battini, 2006, 1862.

 

[45] Cfr. Nicosia, 2003, 263 ss.; A.Zoppoli, 2000, 267 ss.

 

[46] Cfr. Talamo, 2003, 236 ss.; F.Carinci, 2002, 838 ss.; Gardini, 2002, 953 ss.

 

[47] Cfr. D’Orta, 2007, 442.

 

[48] Liso, 2000, 181.

 

[49] Amato, 1989, 160.

 

[50] Cassese, 1994c, 250; e cfr. Id., 1998b, 1119 ss.

 

[51] Orsi Battaglini, 1989, 580; e cfr. Battini, 2000, 741.

 

[52] D’Alessio, 1995, 293 s. Più ampiamente, cfr. Cassese, 1993, 5; Id., 1992, 223 ss.

 

[53] Treu, 1995, 19; Treu-Ferrante, 2000, 29 s.

[54] Rusciano, 2000a, 1147.

 

[55] Rusciano, 2001, 501.

 

[56] Cfr. Trojsi, 2007, 57 ss.

 

[57] Cfr. Carinci, 2004b, 844 ss.; Caruso-Zappalà, 2007, 15 ss.

 

[58] Cfr. D’Alessio, 2006, 553.

 

[59] Cfr. Nicosia, 2009, 70 ss.

 

[60] Cfr.Pastori-Sgroi, 2001,  374 ss.; Capano-Gualmini, 2006, 87 ss.

 

[61] Rusciano, 2001, 500 s.

 

[62] Cfr. Trojsi, 2008, 700 ss.

 

[63] Cfr. F.Carinci, 2009b, 15 ss.

 

[64] Merloni, 2007a, 70.

 

[65] Cfr. la condivisibile analisi di Gragnoli, 2007, 52 ss.; e pure Merloni, 2007a, 50 ss.; Boscati, 2007a, 117 ss.

 

[66] Cfr. F.Carinci, 2007, XXIII ss.; Tursi, 2004, 42 ss.

 

[67] Boscati, 2004, 980.

 

[68] Cfr. Garilli, 2004, 124; D’Alessio, 2002, 217 ss.; Garofalo, 2002, 873 ss.; Menghini, 2002, 1005 ss.

 

[69] Cfr. Garilli, 2004, 119 ss.; D’Alessio-Valensise, 2004, 1071 ss.;  Sgroi, 2006.

 

[70] Cfr. D’Auria, 2002a, 1159 ss.; Endrici, 2000, 40 ss.; D’Antona, 2000, (ma 1998).

 

[71] Cfr. Battini-Cimino, 1010 ss.; Garilli, 2004, 119 ss.; D’Orta, 2001; Caruso, 2001, 977 ss.

 

[72] Rusciano, 2008, 83; e già Id., 2005, 630; Id., 2000, 1147.

 

[73] Cfr. Cassese, 1993, 295.

 
[74] Cfr. C. Cost. 23.3.2007 n. 103 e n. 104, G. cost., 2007, I, 984 ss.; C.Cost. 20.5.2008 n. 161, GDA, 2009, 19 ss. 

[75] Merloni, 2006, 177 ss.; Id., 2007a, 49 ss.

 

[76] D’Alessio, 2006, 559; così, amplius, Garilli, 2004, 136 ss.

 

[77] Cfr. Cassese, 1981, 229; D’Alessio, 2006, 556. E’ ormai acquisita la stretta connessione tra i principi di imparzialità e buon andamento, specie se quest’ultimo viene letto in termini di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa: cfr. le fondamentali sentenze della Corte costituzionale sullo spoils system, 23.3.2007 n. 103 e n. 104. A tal punto che si osserva che “è piuttosto improbabile che un’azione amministrativa ‘coartata’ o influenzata da pressioni di ordine politico possa davvero corrispondere ad obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità”: D’Alessio, 2007b, 360.

 

[78] Cassese, 1981, 234.

 

[79] Cfr., però, Nicosia, 2003, 257; e Ales, 2002.

 

[80] Cfr. Battini, 2003, 530 ss.; Cassese-Mari, 2001, 14; Rusciano, 2005, 628 ss.

 

[81] L.Zoppoli, 2008a, 11; così, Sgroi, 2007, 529; e cfr. F.Carinci, 2001, 53; Nicosia, 2009, 67.

 

[82] Cassese-Mari, 2001, 14.

 

[83] Cfr. L.Zoppoli, 2007a, 3 ss.; Caruso-Zappalà, 2007, 7 ss.

 

[84] L.Zoppoli, 2007a, 8.

 

[85] Cfr. Romagnoli, 2004, 600.

 

[86] F.Carinci, 2009b, 30.

[87] Cfr. Mattarella, 2007, 131 ss.

 

[88] Cfr. Merloni, 2006, 87 ss.

 

[89] Cfr. D’Alessio, 2009, 58 s.; Merloni, 2008, 117 ss. Invece, la prima giurisprudenza costituzionale sullo spoils system (cfr. C.Cost.  16.6.2006, n. 233; C.Cost. 23.3.2007, n. 103 e 104; C.Cost. 20.5.2008, n. 161) sembra faccia leva, proprio per individuare l’area della fiduciarietà, su un criterio di tipo organizzativo: cfr. Merloni, 2007b. Da ultimo, però, C. Cost. 28.11.2008 n. 390, depone a favore del criterio funzionale, laddove afferma che “nei confronti dei titolari di organi con funzioni di controllo, sussistono esigenze di neutralità e imparzialità perfino più marcate di quelle che hanno indotto questa Corte a dichiarare la illegittimità di meccanismi di decadenza automatica riferiti ad incarichi di funzioni dirigenziali”.

 

[90] Cfr. D’Alessio, 2007b, 358 ss.; Talamo, 2007, 145; Merloni, 2006, 234; F.Carinci, 2002, 843.

 

[91] Cfr. Garilli, 2004, 119 ss.; F.Carinci, 2004c, 17 ss.; Garofalo, 2003, 937 ss.; Cassese, 2003, 231 ss. e Id., 2005, 1039 ss.; D’Orta 2005, 1027 ss.; Romagnoli, 2004; L.Zoppoli, 2007a, 2 ss.

 

[92] Cfr. D’Alessio, 2006, 559; Garilli, 2004, 130 ss.

 

[93] D’Alessio, 2006, 561.

 

[94] Cfr. i correttivi suggeriti da Garilli, 2007, 312.

 

[95] Cfr. Cass. 20.3.2004  n. 5659, LPA, 2004, 153; Boscati, 2006, 255 ss.

 

[96] Garilli, 2007, 308 s.; cfr. Boscati, 2006, 226 ss.; Zoli, 2005, 283 ss.

 

[97] Cfr. Battini-Cimino, 2007, 1019.

 

[98] Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’anno 2006, 8.

 

[99] Cfr. Battini, 2006, 1861 ss.; Dente, 2001, 87 ss.

 

[100] Cfr. Garilli, 2004, 115 ss.; Rusciano, 2000a, 1145.

 

[101] Cfr. Gragnoli, 2004, 1043 ss.; Garilli, 2004, 117 ss.; D’Alessio, 2009, 61 ss.

 

[102] Cfr. Cassese, 2002, 1343 ss.

 

[103] Cfr. D’Auria, 2002a, 1160 ss.; Talamo, 2007, 150 ss.

 

[104] Cfr. Talamo, 2007, 135 s.; D’Alessio, 2005, 450 ss.

 

[105] Cfr. D’Alessio, 2009, 161.

 

[106] Cfr. Merloni, 2006, 184 ss. e 220 ss.

 

[107] Cfr. D’Alessio, 2006, 571 ss.

 

[108] Cfr. Nespor, 2006.

 

[109] Cfr. Talamo, 2007, 150 ss.; D’Alessio, 2005, 452 ss.

 

[110] Cfr. D’Alessio, 2005, 452 ss.

 
[111] Cfr. C. Cost. 20.5.2008 n. 161, cit.
 

[112] Cfr. Merloni, 2008, 117 ss.; D’Alessio, 2007b, 358 ss.

 

[113] Cfr. D’Alessio, 2009, 63 s.

[114] Cfr. D’Auria, 2002a, 1159 ss.; Id., 2002b, 856; D’Alessio, 2002, 218 ss.; Garilli, 2004, 127 ss.

 

[115] Cfr. D’Auria, 2002a, 1160.

 

[116] Cfr. D’Alessio, 2006, 561 ss.

 

[117] Cfr. Cassese, 1998a; Id., 2002, 1343 ss.

 

[118] Cfr. Merloni, 2006, 234; Talamo, 2007, 137.

 

[119] Cfr. L.Zoppoli, 2007a, 9; Esposito, 2009; Garilli, 2004, 121 ss.

 

[120] Cfr. Talamo, 2007, 133.

 

[121] Merloni, 2006, 175.

 

[122] Cfr. D’Orta, 2001, 133.

 

[123] Rusciano, 2007a, 236.

 

[124] Cfr. L.Zoppoli, 2007a, 2 ss.

 

[125] L.Zoppoli, 2007a, 19.

 

[126] Cfr. D’Orta, 2007, 434 ss.

 

[127] Cfr. Bordogna, 2007, 88.

 

[128] Cfr. L.Zoppoli, 2007a, 19 s.; D’Orta, 2007, 437; e già Treu-Ferrante, 2000, 12 ss.

 

[129] Cfr. Ichino, 2007, 229 ss.; Tardiola, 2007, 1375 ss.; Topo, 2008, 334.

 

[130] F.Carinci, 2009b,  40; e già Id., 1991, 12.

 

[131] Cfr. Cassese, 2007, 5 ss.; Casini, 2007, 43 ss.

 

[132] Orsi Battaglini, 1989, 580.

 

[133] Cassese, 1995, 436.

 

[134] Cfr. Natalini, 2006, 81 ss.; Falcon, 110 ss.

 

[135] Cfr. Ginsborg, 1998, 524; Treu-Ferrante, 2000, 12 s.; Rusciano, 2000a, 1127.

[136] Cfr. Merloni, 2006, 174; Savino, 2003, 2241.

 

[137] Cfr. D’Orta, 2001, 107 ss.; Merloni, 2006, 218 ss.

 

[138] Cfr. D’Auria, 2002a, 1156.

 

[139] Cfr. Carinci, 2001b, 10; Caruso, 2001, 982 s.; Garilli, 2004, 121 s.

 

[140] Cfr. Battini-Cimino, 2007, 1025; Cimino, 2006, 1325.

 

[141] Cfr. D’Auria, 2002a, 1159; Talamo, 2007, 131 ss.

 

[142] Cfr. D’Alessio, 2009, 64.

[143] Cfr. Battini, 2009a, 5.

 

[144] Cfr. Esposito, 2009; De Marco, 2007, 403 ss.; Mainardi, 2002, 1078 ss.

 

[145] Cfr. D’Alessio, 2009, 65.

 

[146] Cfr. De Marco, 2008, 127 ss.; Boscati, 2007b, 703 ss.; Menghini, 2007, 899 ss.; Mainardi, 2007, 52 ss.; L.Zoppoli, 2003b, 522 ss.; Battini, 2003, 542 ss.

 [147] Cfr. Cass. 1.2.2007 n. 2233, LG, 2007, 895 ss.
 

[148] Cfr. Garilli, 2007, 314 ss.; Sgroi, 2007, 529 ss.

 

[149] C. Cost. 24.10.2008 n. 351.

 

[150] Cfr. Garilli, 2007, 320.

[151] Cfr. Garilli, 2007, 320; Mainardi, 2007, 53 ss.

[152] Cfr. Garilli, 2004, 136 ss.; D’Auria, 2001, 34.

 

[153] Cfr. D’Auria, 2002a, 1159.

 

[154] Mainardi, 2004, 881; Id., 2007, 45.

 

[155] Cfr. Cass. 5.2.2004, n. 2168, MGL, 2004, 531.

 

[156] L.Zoppoli, 2009, 10; così, D’Alessio, 2009, 68.

 

[157] F.Carinci, 2009b, 35.

 

[158] Mainardi, 2007, 63; e cfr. Mattarella, 2007, 28 ss.

 

[159] Cfr. Topo, 2008; Marazza, 2005; Barbieri-Spinelli, 2004, 355 ss.; Pileggi, 2004; Battini, 2003, 438 ss.

 

[160] Dell’Aringa, 2008, 16.

 

[161] Romagnoli, 1993, 243.

 

[162] Dell’Aringa, 2008, 17.

 

[163] Cfr. Dell’Aringa, 2007a, 3 ss.

 

[164] Cfr. Dell’Aringa, 2007a, 28.

 

[165] Cfr. F.Carinci, 2004a, 345 ss.

 

[166] Cfr. Ricciardi, 2008, 684; Id., 2006, 315 ss.

 

[167] Cfr. Corte dei conti, Relazione sul costo del lavoro pubblico per gli anni 2003, 2004 e 2005, (2007), 39; Ricciardi, 2006, 315.

 

[168] Cfr. Talamo, 2004, 22 ss.

 

[169] Cfr. Dell’Aringa, 2007a, 23 s.

 

[170] Cfr. Talamo, 2004, 23.

 

[171] Corte dei conti, Relazione sul costo del lavoro pubblico per gli anni 2003, 2004 e 2005, (2007), 39.

 

[172] Tronti, 2008, 14.

 

[173] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, 2007, 68; Corte dei Conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2007, 537.

 

[174] Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2007, 524. Al riguardo, cfr., però, Ricciardi, 2008, 688.

 

[175] Relazione annuale, 2007, 525 s.

 

[176] Cfr. Ricciardi, 2008, 685; Talamo, 2004, 49.

 

[177] Cfr. Ricciardi, 2006, 316.

 

[178] Cfr. Fontana, 2007, 81 ss.

 

[179] Cfr. Zilli, 2005, 220; Di Rollo, 2001b, 714.

 

[180] Cfr. D’Auria, 2009b, 82.

 

[181] D’Auria, 2009a, 362.

 

[182] Cfr. D’Auria, 2009a, 362.

 

[183] Cfr. F.Carinci, 2009a, 2 ss.; Russo, 2009.

 
[184] F.Carinci, 2001a, 50 ss.; Id., 2001b, 5 ss. 

[185] Cfr. Boscati, 2000, 416 ss.; F.Carinci, 2000, 76 ss.; Gragnoli, 2009.

 

[186] Cfr. Tursi, 2008, 716 ss.; Bonomolo, 2006, 1337 ss.; Di Rollo, 2001a, 479 ss.

 

[187] Cfr. D’Auria, 2006, 258.

 

[188] Cfr. Rusciano, 2007a, 232; e F.Carinci, 2006, 1043 ss., spec. 1046, che vede nel Memorandum il tentativo di favorire l’ “occupazione contrattuale dell’intera area dell’organizzazione”, specie con riguardo alla dirigenza.

 

[189] Battini, 2007, 121.

 

[190] Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2007, 525.

 

[191] Cfr. F.Carinci, 2009b, 23 ss.; Battini, 2009a, 5.

 

[192] Cfr. Carinci, 2009b, 14.

 

[193] Cfr. Rusciano, 2007b, 342 ss.; Bordogna, 2008, III; Gragnoli, 2009; Battini, 2009a, 6.

 

[194] Cfr. Riccardi, 2004, 162 ss.; Speziale, 2000, 268 ss.

 

[195] Cfr. Garofalo, 2009, 17 s.

 

[196] Cfr. Treu, 2008, 1009.

 

[197] Cfr. Treu, 2007, 285 ss.

 

[198] Cfr. Dell’Aringa, 2007a, 27.

 

[199] F.Carinci, 2009b, 22.

 

[200] Cassese, 2000, 1013.

 

[201] Cfr. Treu, 2008, 1011; Fontana, 2007, 90 ss.

 

[202] Cfr. Matteini, 2008, 20 ss.; e anche Russo, 2007, 198 ss.

 

[203] Cfr. Ricciardi, 2008, 690.

 

[204] Cfr., ampiamente, D’Auria, 2008, 268 s.; Ricciardi, 2004, 665 s.

 

[205] Cfr. Romagnoli, 1999, 32 s.

 

[206] Cfr. Matteini, 2008, 26.

 

[207] Cfr. D’Auria, 2002a, 1157 e 1160; Savino, 2003, 2241; Battini, 2000, 668.

 

[208] Cfr., D’Alessio, 2009, 67; e, diversamente, F.Carinci, 2009b, 36.

 

[209] Cfr. Treu, 2008, 2241.

 

[210] Cfr. Cassese, 1981, 243 ss.; Capano, 1992, 247 ss.

 

[211] Cfr. Rusciano, 2000a, 1145 s.; Dente, 87 ss.

 

[212] Cfr. Merloni, 2007, 249 s.

 

[213] Cfr.Macioce, 2004, 135 ss.; Della Rocca, 2006, 280 ss.;  L.Zoppoli, 2007b, 591; Esposito, 2008, 44 ss.

 

[214] Amato, 1989, 155.

 

[215] Cfr. Bordogna, 2002, 45.

 

[216] D’Antona, 1995, 40.

 

[217] Rusciano, 2000b, 475.

 

[218] F.Carinci, 2000, 55 ss.; Id., 2001a, 29.

 

[219] Cfr. Garilli, 2004, 134 ss.; Carinci, 2001a, 50 ss.

 

[220] Cfr. Bordogna, 2007, 83; Dell’Aringa, 2007a, 14.

 

[221] Cfr. Bordogna, 2007, 79 ss.; Ricciardi, 2004, 643 ss.

 

[222] Cfr. Dell’Aringa, 2007b; Vignocchi, 2007.

 

[223] D’Antona, 1999, 498.

 

[224] Cfr. D’Auria, 2006, 257; Ricciardi, 2006a, 318 ss.; Spinelli, 2004, 361 ss.

 

[225] Cfr. L.Zoppoli, 2009, 6.

 

[226] Collusioni accertate anche in sede di giudizio di responsabilità per danno erariale da parte della Corte dei conti: cfr. Viscomi, 2007.

 

[227] Bordogna, 2007, 87; così, Dell’Aringa, 2007a, 29; Treu, 2007, 291 ss.; e cfr. Russo, 2007, 196 ss.

 

[228] Cfr. Viscomi, 2007, 875 ss.

 

[229] F.Carinci, 2009b, 28.

 

[230] Cfr. Orsi Battaglini, 1989, 581 s.; Rusciano, 1996, 39 ss.

 

[231] Cfr. Treu, 2008, 1009.

 

[232] Cfr. D’Auria, 2005, 371.

 

[233] Cfr. L.Zoppoli, 2008b, XXIV.

 

[234] Cfr. Caruso-Zappalà, 2007, 20 ss.

 

[235] Natullo, 1999, 1308.

 

[236] Cfr. Ricciardi, 2004, 643 ss.; Id., 2006b, 277 ss.; Carrieri-Ricciardi, 2006; Russo, 2005, 459 ss.

 

[237] Merusi, 2002, 19.

 [238] Cfr. Savino, 2003, 2282 ss.; Dente, 2001, 96 ss.
 

[239] Cfr. Cassese, 2000, 1015 ss.; L.Zoppoli, 2007b, 581.