Il danno alla persona del lavoratore dopo le decisioni delle Sezioni Unite del novembre 2008 (di Alberto Piccinini)

Il danno alla persona del lavoratore dopo le decisioni delle Sezioni Unite del novembre 2008 [1]

Alberto Piccinini [2]

 

Nel contesto dei numerosi interventi a commento delle sentenze delle Sezioni Unite  del novembre 2008 che hanno ridisegnato la categoria del danno non patrimoniale sconvolgendo l’esistente, il presente articolo si propone di approfondire la materia nel campo del diritto del lavoro, che le SS.UU. hanno considerato peculiare sotto il duplice aspetto da un lato dei diritti inviolabili della persona del lavoratore di rilevanza costituzionale e tutelati dal codice civile (art. 2087)  e dall’altro dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale.

 

La problematica sul danno non patrimoniale alla persona è talmente  vasta ed importante e coinvolge così tanti soggetti - avvocati, giudici, periti, enti previdenziali, agenzie infortunistiche, compagnie di assicurazioni, oltre che centinaia di migliaia di persone in carne ed ossa - da giustificare l’ampio dibattito sviluppatosi in pochi mesi a seguito delle note pronunce delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008[3].

        Il contenuto della decisione n. 26972/08 (e delle tre successive di identico contenuto) è stato così sintetizzato dalla migliore dottrina: «La sentenza statuisce sugli otto quesiti posti dall’ordinanza interlocutoria, ma, rispondendo alle attese di molti commentatori, ha detto di più. In premessa, il tema introdotto è stato l’autonomia del danno esistenziale come categoria giuridica; nelle conclusioni, la questione è diventata la unitarietà della categoria del danno non patrimoniale. In premessa, le questioni poste riguardavano la descrizione del danno non patrimoniale nei termini di un contenitore (art. 2059 c.c.) al cui interno collocare le diverse figure del danno biologico, del danno morale ed eventualmente anche del danno esistenziale; nelle conclusioni, la questione è diventata la portata solo descrittiva di queste figure sul presupposto della unitarietà ed onnicomprensività della categoria del danno non patrimoniale. In premessa il punto era se il danno esistenziale fosse una categoria di danno il cui spazio era quello ricoperto dalle lesioni riconducibili a quelle frutto della rilettura costituzionale dell’art. 2059 c.c.; in finale il tema è diventato quello di evitare le sovrapposizioni o i cumuli tra risarcimenti, che si determinano quando le voci del danno non patrimoniale si frazionano in diverse figure»[4].

L’“unitarietà ed onnicomprensività della categoria del danno non patrimoniale” dunque costituisce il punto d’approdo delle sentenze dell’11 novembre 2008 e nello stesso tempo il punto di partenza nella ricerca di nuovi punti di riferimento nell’individuazione del danno (o dei danni, se si considerano mera sintesi descrittiva le distinte denominazioni – danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale – precedentemente adottate: par. 2.13).

       11 novembre: una data che richiama, per la distanza esatta di due mesi, scenari ben più importanti che hanno cambiato il mondo ma che suggerisce -  con tutto il rispetto dovuto a quei drammatici eventi e fatte le debite proporzioni - un parallelo. Nel pensiero di alcuni, infatti, in quella data sarebbero irrimediabilmente crollate le due torri costituite dal danno esistenziale e dal danno morale soggettivo.

È mia opinione che si tratti di una conclusione affrettata e superficiale e cercherò di argomentarlo riportando ampi brani della complessa ed articolata sentenza n. 26972/08 delle stesse Sezioni Unite. Nel contempo auspico che alla conclusione di questa disamina sia più facile orientarsi nel mare magnum del contenzioso giudiziario pendente in tutt’Italia nei diversi gradi del giudizio in cui sia stato rivendicato il risarcimento del danno biologico e/o morale e/o esistenziale, anche per capire eventualmente quali precisazioni, integrazioni  o correttivi occorra dare alle domande a suo tempo proposte.

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Sulla risarcibilità del danno biologico inteso come danno al “bene salute”  in realtà le sentenze della Sezioni Unite non hanno introdotto novità se non, come vedremo, ampliando la sua nozione.

La salute costituisce, pacificamente, un bene inviolabile di rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.) la cui ingiusta lesione comporta - in generale - il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali (art. 2043 c.c.) e non patrimoniali ex art. 2059 c.c. stante la sussistenza di un reato (lesioni colpose, se non dolose) e la violazione - appunto -  della Carta fondamentale.

Nel caso del diritto del lavoro, poi - come le Sezioni Unite espressamente riconoscono -  può sussistere  da parte del datore di lavoro la violazione di altre norme di legge (art. 2087 c.c. e tutte le leggi speciali a tutela della salute e dell‘incolumità nei luoghi di lavoro) nonché del contratto individuale di lavoro e delle stesse disposizioni del CCNL, che rende l’inadempimento anche di natura contrattuale.

Quindi sul punto, laddove la domanda giudiziaria  sia fondata su documentazione medica e confermata dalla  relazione di un CTU,  nessun problema sul diritto al risarcimento del danno alla salute si pone, se non in termini di quantificazione: essendo state infatti - per le ragioni che si esporranno - “travolte” le “note tabelle” (cfr. par. 4.9)  prima utilizzate nei principali Tribunali contenenti la quantificazione delle singole voci di danno, sotto la voce del danno biologico “nel suo aspetto dinamico” potranno e dovranno rientrare valutazioni soggettive e proiettate in una dimensione di possibili danni futuri  (prima trascurate o comunque per le quali venivano applicati automatismi di calcolo oggi dalle SU censurati) che potrebbero comportare una valutazione persino superiore rispetto a quella proposta appunto dalle citate tabelle.

Andiamo ora a valutare la sopravvivenza o meno - a prescindere dal nome che vorrà loro darsi - dei valori salvaguardati dalle figure divenute controverse.

 

1.      Il danno esistenziale.

       Secondo la definizione che le stesse Sezioni Unite avevano dato nel 2006, per danno esistenziale del lavoratore dipendente si intende «ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare aredittuale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno».[5]

       Non v’è dubbio che le decisioni in commento siano state particolarmente drastiche nel redigere il certificato di morte di una simile figura intesa come autonoma categoria di danno,  “liquidando” drasticamente gli articolati quesiti posti dalle ordinanze di rimessione della III Sezione[6]  (da parte, cioè, degli stessi estensori delle sentenze cd. “gemelle” del 2003[7] che avevano dato spazio al “pensiero esistenzialista”, valorizzando la possibilità di risarcire tale tipo di danno anche al di fuori dei casi determinati dalla legge, come voce separata rispetto al danno biologico e al danno morale[8]).

       La sentenza n. 26972/08 afferma che «…in particolare non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale” perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale» (par. 3.13).

Del danno esistenziale come autonoma categoria di danno, quindi, sembrerebbe non sia “più dato discorrere” (par. 3.3), rispondendo sul punto le Sezioni Unite agli otto quesiti posti dall’ordinanza della  III Sezione - e richiamati al par. 1 - in termini categorici (“Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale”: par. 3.14) e quindi - apparentemente -  tombali.

Così è stata accolta la decisione da chi ha sempre diffidato di questa “artificiosa categoria”[9]: al contrario questo modesto intervento si propone di dimostrare come dalle stesse sentenze del novembre 2008 si evinca che tra le macerie della  torre siano rinvenibili solidi capisaldi, soprattutto - anche se non esclusivamente - per quanto interessa il diritto del lavoro e quindi la persona del lavoratore.

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       Come è noto esiste un consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce il cd. “danno da demansionamento” (denominato, in alcune pronunce, proprio “danno esistenziale”, anche se altre ne valorizzano la rilevanza sotto il profilo del danno patrimoniale) così come da anni i giuristi  si interessano del fenomeno del mobbing, che presuppone un danno di natura non patrimoniale riconducibile a tale categoria.

Ebbene non può certo pensarsi che le decisioni delle Sezioni Unite abbiano cancellato con un colpo di spugna gli orientamenti del Supremo Collegio, tra l’altro richiamati dalla Relazione tematica a cura dell’Ufficio del Massimario che porta la data del giorno precedente la pubblicazione delle sentenze delle S.U.[10] e, più in generale, di quelli egregiamente riassunti nella Relazione contenente i richiami alle più rilevanti decisioni civili della Corte di Cassazione dell’anno 2008 a cura del medesimo Ufficio[11].

Le Sezioni Unite, con le sentenze dell’11 novembre 2008,  nell’affermare il principio secondo cui il danno non patrimoniale “è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate”,  hanno sottolineato  e ribadito quali siano i principi cardine in  tema di risarcimento del  danno non patrimoniale, primo fra tutti quello del  diritto al “risarcimento integrale”, con la ovvia conseguenza che, a tale fine, deve necessariamente  tenersi conto  di tutti gli aspetti relazionali della persona in ambito familiare, lavorativo, e non solo.

        Le Sezioni Unite – come si è già detto – hanno soprattutto inteso escludere, ai fini risarcitori del danno non patrimoniale, tutta una serie di disagi, o anche di vere e proprie sofferenze, ritenuti non degni di tutela, soprattutto se ascrivibili alla categoria dei danni c.d. bagattelari[12]. Ciò non implica però  in alcun modo  la negazione “assoluta” del risarcimento dei  danni c.d. “esistenziali”,  ma solo una diversa visione prospettica del “problema”.

       Il  danno esistenziale infatti non potrà (solo) più essere considerato  come voce autonoma di danno non patrimoniale, in quanto per le Sezioni Unite non è possibile ritagliare all’interno di tale categoria  “omnicomprensiva”   altre e diverse  sottocategorie, se non a titolo descrittivo. Ma l’esclusione si arresta di fronte alla lesione di diritti inviolabili della persona umana, da verificare e leggere di volta in volta, attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.: il danno “non patrimoniale”, in presenza di “una ingiustizia costituzionalmente qualificata”, potrà essere sempre risarcito in virtù di una valutazione che il Giudice dovrà compiere caso per caso.

       Deve evidenziarsi che la Corte non  circoscrive la  nozione della ingiustizia costituzionalmente qualificata:  questo significa che viene lasciato spazio alle singole interpretazioni,  fermo restando il possibile richiamo alla clausola generale  dell’art. 2 Costituzione.  In tal senso – e quantomeno su questo punto – le Sezioni Unite  richiamano e  condividono  l’orientamento delle note sentenze “gemelle” della Suprema Corte in ordine al risarcimento del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte, o di procurata grave invalidità del congiunto, ovvero del danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, al nome, alla riservatezza e all’immagine[13].

       I Giudici di merito dovranno dunque  accertare l’effettiva sussistenza del pregiudizio allegato, «individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione»,  tenuto conto  che «potranno costituire solo voci del danno biologico  nel suo aspetto dinamico ¼ i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica».

       Queste considerazioni di carattere generale assumono – come si è detto – una particolare rilevanza nel campo del diritto del lavoro, sia perché in tale settore operano obblighi di tipo contrattuale, sia perché numerosi sono i richiami costituzionali rinvenibili nella specifica materia.  

       Nel negare infatti, in linea generale,  l’esistenza della categoria del  “danno esistenziale” le S.U. affermano che sussistono “specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista” (par. 3.8).

La sentenza delle S.U. dunque  rimarca che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali: «Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutele risarcitoria del danno potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”   (par. 4.1).

È importante soffermarsi sui richiami  agli articoli della Carta Fondamentale che riguardano la nostra materia ed in particolare ai  diritti definiti “inviolabili” (si pensi, in particolare, agli articoli 1 e 4) e che individuano una scala di priorità -  spesso trascurata - rispetto ad altri diritti che, pur avendo  rilevanza costituzionale,  sono certamente violabili (si pensi alla facoltà di esproprio per pubblica utilità rispetto al diritto di proprietà privata di cui all’art. 42 comma 3) ovvero limitati proprio dall’obbligo di  rispetto dei diritti alla persona di cui si discute (si pensi alla libertà di iniziativa economica,  che ai sensi dell’art. 41 non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana).

Dunque da parte delle Sezioni Unite, in un contesto generale apparentemente “negazionista” di diritti risarcitori (che diventano singole voci di un unico risarcimento) si valorizzano con particolare forza i diritti della persona nell’ambito del rapporto di lavoro ed anche, espressamente, i diritti “di tipo esistenziale” azionabili con un’azione di responsabilità contrattuale senza dover - in certi casi in cui il presidio dei diritti sia di fonte normativa -  neppure dimostrare  che sia dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale: «l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tende alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge» (par. 4.5).

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   1.2 Il danno da demansionamento.

       I  ragionamenti sopra richiamati costituiscono per le SU la premessa per affrontare, nello specifico, la materia regolamentata dal contratto di lavoro.

Può leggersi nella sentenza n. 26972/2008:  “l’art. 2087 c.c. (¼) inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata” (par. 4.5).

Le S.U. quindi nel confermare la risarcibilità in caso di pregiudizio alla salute (danno biologico)[14] in quanto conseguenza di una condotta datoriale integrante violazione dell’obbligo contrattuale di tutelare l’integrità del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c., considerano parimenti risarcibili i danni «da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa» (par. 4.5).

Ciò  appare perfettamente coerente con i principi proclamati, sussistendo in caso di  demansionamento sia violazione dell’obbligo contrattuale di salvaguardare la professionalità e la dignità del lavoratore con conseguente inadempimento contrattuale (art. 2103 c.c.) sia  lesione di diritti di  rango costituzionale: infatti «il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 c.c., ma ridonda in una lesione del diritto fondamentale da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro».[15]

Del resto anche successivamente alla pronuncia delle SU di novembre 2008 il Supremo Collegio è tornato a ribadire la risarcibilità del danno esistenziale da demansionamento, definendolo come «ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità ne mondo esterno»,  inquadrandolo nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale e ribadendo gli oneri di allegazione e prova (anche presuntiva) in capo al ricorrente[16].

Non è quindi controverso se il danno alla professionalità (insieme  di conoscenze  teorico-pratiche che il  lavoratore  può acquisire solo prestando la sua attività lavorativa in mansioni confacenti) sia risarcibile, sia sotto il profilo del danno patrimoniale sia sotto quello del danno non patrimoniale: il problema sarà solo in termini di prova, dovendosi ritenere superato il più antico (e più consolidato) orientamento  che riteneva tale danno sussistere in re ipsa, in ragione del depauperamento delle capacità professionali  del  lavoratore[17]dal più rigoroso indirizzo che esige sia sempre provato[18].

Sul punto della prova in genere, però,  si ritornerà, avendo le Sezioni Unite con le sentenze in commento  fornito interessanti elementi di precisazione.

 

1.3  Il danno da  mobbing.

Abbiamo  visto che le Sezioni Unite considerano danni da dequalificazione quelli  che «si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa».

Nello stesso tempo, però, riconoscono che la violazione dell’art. 2087 c.c. per quanto attiene la lesione al “bene salute” comporta il diritto al risarcimento del danno biologico.

Ma quid iuris per quanto riguarda comportamenti  che ledono la personalità morale del lavoratore – e quindi l’art. 2087 c.c. sotto questo profilo – cagionando  compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore al di fuori della formazione sociale costituita dall’impresa?

Al fenomeno del cd. mobbing è stata riconosciuta dignità giuridica da parte delle Alte Corti, che  hanno anche cercato di darne la definizione come un «complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione  finalizzato all’obiettivo primario di  escludere  la vittima dal gruppo» che possono risultare «se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico»[19] ovvero come  una «pratica vessatoria posta in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro».[20]

 Secondo un’altra recente decisione del Supremo Collegio è invece erroneo ritenere il mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in cui è inserito, in quanto «il nostro Ordinamento giuridico non prevede una definizione nei termini indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto pertanto tipico, a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in maniera tipicizzata».  Ciò che invece rileva, ai fini del risarcimento dei danni, è «la violazione - con condotte considerate singolarmente e nel loro complesso -  degli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo»[21].

Comunque lo si voglia considerare, sia come fenomeno tipico sia come fenomeno riconducibile a specifiche violazioni di leggi civili  (art. 2087 c.c.; art. 2103 c.c.; art. 1228 c.c.; art. 2049 c.c.; art. 2043 c.c.) o penali (art. 610 c.p.; art. 609 bis c.p.; art. 572 c.p.),  i comportamenti riconducibili alla figura del mobbing restano quindi suscettibili di risarcimento del danno non patrimoniale, stante la necessità del «risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana»[22].

Quello che la Corte costituzionale ricollega – quale sottospecie del danno non patrimoniale – all’art. 2059 c.c. evolutivamente interpretato come sganciato dall’ipotesi penalistica del reato, anche se non può più essere considerato un’autonoma e separata figura di  danno (esistenziale) rientra certamente come elemento da considerare nell’alveo del danno non patrimoniale alla persona (oltre, che, naturalmente, dal danno patrimoniale) onnicomprensivamente liquidato (tuttavia in maniera tale da rendere possibile il riscontro e l’individuazione, dietro motivazione, delle componenti medesime)[23].

Nella citata  Relazione tematica n. 142 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione del 10 novembre 2008 può leggersi:

«Un ultimo problema evidenziato anche in dottrina riguarda poi la liquidazione del danno da mobbing. Si tratta di problematica su cui non può soffermarsi in questa sede, riguardando essa il generale problema della liquidazione del danno non patrimoniale, ma che consente di richiamare alcune riflessioni espresse in dottrina.

In particolare, un’attenta dottrina (MEUCCI, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in www.dirittolavoro.web1000.com) ha lamentato i limitatissimi risarcimenti concessi dai giudici e rileva che, a fronte di comportamenti che ledono i primari diritti della personalità dei prestatori di lavoro e che pregiudicano e segnano indelebilmente il mobbizzato (o demansionato), nella carriera, nella salute, nella vita familiare e relazionale, c'è nel nostro Paese una sottostima - a differenza che nel mondo anglosassone e a prescindere dalla problematica e/o ammissibilità dei cd. “punitive damages” – dei danni non patrimoniali, sicché “(al di là delle affermazioni di principio in positivo), tramite simili risarcimenti non combattono il fenomeno del mobbing ma lo legittimano nella sostanza, in quanto - svuotati i risarcimenti del carattere della deterrenza alla reiterazione - indirizzano ai "concreti" datori di lavoro il messaggio (tutt'altro che subliminale) che possono cavarsela con poche decine di milioni (nel caso si tratta come visto di molto meno) per perseverare in comportamenti illeciti (che, se vanno silenziosamente in porto, conducono alle dimissioni del soggetto inviso e, se non vanno in porto, si pagano con somme modeste)”.  (Sul tema, altresì, BUFFA, La liquidazione del danno da mobbing “nummo uno”, in Corti pugliesi, 2007, I). (all. 49).

Del resto, il riconoscimento di danni da mobbing in misura notevole dovrebbe derivare proprio dalla stessa (corretta) enucleazione della categoria del danno esistenziale, quale danno riferibile non a situazioni bagatellari proprie dei piccoli fastidi della vita di ogni giorno, bensì ai soli casi di lesioni rilevanti di interessi fondamentali (selezionando in tal modo la tutela attraverso i filtri della ingiustizia del danno e della gravità dell’offesa, oltre che della natura dell’interesse: BUFFA, in BUFFA e CASSANO, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005). Allora, se la copertura del danno esistenziale può essere affermata nelle fattispecie in cui l’illecito attinge interessi non patrimoniali particolarmente rilevanti e provoca danni gravi, “ipotesi tutte - com’è palese - di aggressioni e collisioni non da poco, ciascuna all’origine di seri imbarazzi per l’equilibrio personale per l’attore”, non dovremo stupirci allora se l’illecito divenga “fonte di risarcimenti con molti zeri” (CENDON, Premessa a BUFFA e CASSANO, cit.).

Infine, con riferimento ai criteri di liquidazione, va poi ricordato che in linea generale, in dottrina, sono stati teorizzati differenti sistemi di liquidazione (su cui SBARRA, Mobbing e tecniche risarcitorie, relazione al Convegno del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro D.Napoletano, sezione di Bari, su “Il Mobbing dinanzi al giudice” del 13-14 maggio 2005, Cacucci), richiamandosi da taluni un modello di liquidazione che sempre ha a base la retribuzione, mentre altri, più opportunamente, prescindono da un parametro retributivo di riferimento e richiamano come criteri di liquidazione i precedenti giurisprudenziali e l’ordine di grandezze seguito, la graduazione degli interessi nell’ordinamento, il tempo di durata della violazione, il grado della lesione, la posizione delle parti (VIOLA-BUFFA-CASSANO, Il danno esistenziale, Atti dell’incontro di studi sul tema organizzato dal Centro studi Ateneo, Bologna, 2.10.03, Maggioli). Una tale pluralità di criteri consente infatti di superare il rischio legato (come nel danno biologico) ad un appiattimento eccessivamente egualitaristico dei risarcimenti, che prescindano dal concreto atteggiarsi, caso per caso, dei diritti non patrimoniali lesi, e permette una “personalizzazione” della liquidazione del danno».[24]

Si è ritenuto di trascrivere questo ampio brano della Relazione dell’Ufficio del  Massimario in tema di mobbing solo per sottolineare come tutti questi aspetti tipici della disciplina lavoristica non potranno certo considerarsi “sepolti” dal presunto crollo di alcune certezze acquisite in campo civilistico, proprio - lo si ribadisce - per il duplice aspetto dei beni protetti sia contrattualmente, sia da norme di legge, anche costituzionali. Di essi -  considerati “di tipo esistenziale” - dovrà quindi tenersi pienamente conto a fini risarcitori.

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2. Il  danno morale soggettivo.

La seconda torre crollata in conseguenza delle sentenze in commento sembrerebbe essere quella del danno morale soggettivo, per lungo tempo considerato il pretium doloris, il pregiudizio psicologico transeunte attinente alla sfera aredittuale.

Nella concezione del danno morale acquisita prima delle decisioni del novembre 2008 il danno morale  si distingueva dal danno biologico “in quanto stato di sofferenza non accompagnato da alterazioni di funzionalità organica” e dal danno esistenziale in quanto quest’ultimo sarebbe rappresentato da una sensibile alterazione della esistenza della vittima e da una perdita non passeggera della qualità della vita[25].

Il danno esistenziale non atterrebbe alla sfera del sentire contingente, ma inciderebbe più profondamente nella sfera del fare dell’individuo, condizionandone l’esistenza[26] .

Affermano le SU nella sentenza n. 26972/2008: «La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l’art. 2059 c.c. né l’art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano dell’adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (…). Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno ma descrive, fra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento» (par. 2.10).

Così la decisione delle S.U. è stata interpretata, ad esempio, dal Tribunale di Torino con sentenza depositata il 27 novembre 2008[27]

 

«Il passaggio da cui traggono spunto queste letture [“abolizioniste” del danno morale: n.d.a.] è quello (contenuto nel paragrafo relativo al danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni), ove la Corte afferma: "determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo".

Ma questo passaggio va letto in stretta correlazione con quello precedente, ove si chiarisce cosa debba intendersi per danno morale: "deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti … senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano state dedotte siffatte conseguenze [cioè quando la sofferenza "diventa malattia", n.d.a.], si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente".

La Corte non fa che ribadire quanto affermato poco prima in termini generali: il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.
Dunque, il risarcimento del danno morale può costituire una duplicazione del già riconosciuto danno biologico; ma solo quando sia diretto a ristorare il medesimo tipo di pregiudizio (lesione del diritto alla salute). Al di fuori di questa ipotesi si rinvengono invece, nella predetta sentenza, chiari indici della risarcibilità del c.d. danno morale (o, più esattamente, del ristoro, nell'ambito della generale categoria del danno non patrimoniale, di quel tipo di pregiudizi sino ad oggi risarciti come danno morale): al paragrafo 2.10 si chiarisce che "la formula non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento".

Al paragrafo 3 la Corte, nel negare cittadinanza a una autonoma categoria di danno c.d. esistenziale, riconosce espressamente che le ragioni storiche sottese alla elaborazione dottrinale di una siffatta categoria non hanno più ragion d'essere oggi, perché i pregiudizi ad essa tradizionalmente ricondotti (non poter fare, dover fare diversamente, etc.) sono risarcibili nell'ambito del danno non patrimoniale (sempre che sussistano i presupposti del reato, ovvero del pregiudizio a diritti inviolabili della persona), senza necessità di dover creare ulteriori categorie.
Interessante poi il punto dove il giudice qualifica i vari tipi di danni e ne indica i criteri:
3. Danno "da sofferenza". Si tratta del pregiudizio (che per mera comodità espositiva si può continuare a chiamare "morale") consistente nel patimento interiore (temporaneo o no) causato dall'illecito: sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la vittima. A soli fini orientativi, e fatte salve le peculiarità di ogni caso concreto, è possibile distinguere tre tipologie di fattispecie, corrispondenti ciascuna a un diverso modo di manifestazione di questo danno, cui devono corrispondere differenti criteri di liquidazione.
3.1 Rientrano in questo gruppo i casi in cui il patimento è normalmente momentaneo, strettamente legato a un certo evento di breve durata (p. es. un incidente stradale, lievi percosse, una rapina) e destinato ad attenuarsi e risolversi con rapidità: così la sofferenza e la preoccupazione di chi subisce lievi lesioni, che guariscono senza lasciare postumi o con postumi minimi. In questi casi la "sofferenza morale" è principalmente legata alla entità della lesione fisica e alla durata della malattia. Si giustifica quindi un criterio che ancori la liquidazione del danno in oggetto a quella del danno biologico, sia da invalidità permanente che da invalidità temporanea. Considerata però la temporaneità del "pregiudizio morale", si ritiene che la liquidazione debba essere contenuta entro il limite massimo di un terzo (1/3) del danno biologico.
3.2 Rientrano in questo gruppo i casi in cui la sofferenza è conseguenza di una lesione fisica o psichica di una certa gravità; ed è normalmente destinata a durare a lungo, spesso per tutta la vita del danneggiato. Si tratta della sofferenza che deriva dalla perdurante percezione della propria invalidità (non poter muovere un arto, non poter deambulare normalmente, …); e della sofferenza derivante dal non poter compiere attività a cui prima si era dediti. Anche in questo caso, al pari di quello che precede, il "patimento morale" è il portato di una lesione fisica, pur essendo ontologicamente diverso da essa (e ciò giustifica il riconoscimento di questa voce di danno in aggiunta a quello biologico); anche qui, dunque, pare corretto un criterio di liquidazione ancorato al danno biologico. Va però considerato che, nella normalità dei casi, il primo dei pregiudizi sopra descritti (sofferenza derivante dalla perdurante percezione della lesione fisica) può ritenersi provato in via presuntiva, poiché è normale che dalla lesione alla integrità fisica derivi questo tipo di sofferenza; non così il secondo (sofferenza derivante dal non poter fare), che deve essere positivamente dimostrato dando la prova delle attività cui prima si era dediti e che sono oggi precluse.

Si ritiene quindi che il danno in oggetto, ove sia limitato alla sofferenza morale derivante dalla lesione, possa essere liquidato in misura variabile da un quarto alla metà del danno biologico; qualora invece siano provati pregiudizi ulteriori (non poter svolgere specifiche attività cui il danneggiato era effettivamente e con una certa continuità dedito), indicativi di una più intensa "sofferenza da privazione", il danno vada liquidato in misura superiore, da un minimo di un terzo a un massimo corrispondente all'intero importo del danno biologico.

Resta aperto il problema del riconoscimento e liquidazione del danno “da sofferenza” in assenza di un documentato pregiudizio alla salute (e quindi di un riconosciuto danno biologico).

La III Sezione del Tribunale di Bologna con sentenza 29 gennaio 2009 n. 20079/09[28], applicando i principi enunciati dalle SU del novembre 2008 (al par. 4.9) così ha statuito:

«(…) il giudicante ritiene che, nel caso in esame, pur non essendo risarcibile un danno morale che si affianchi al già riconosciuto danno biologico, sia comunque necessario procedere ad un’adeguata personalizzazione della liquidazione di quest’ultimo che tenga conto della sofferenza morale, da considerarsi provata in base a semplice inferenza presuntiva, tenuto conto del sentimento normalmente percepito da un soggetto che subisce lesioni personali; passando alla quantificazione in termini monetari della suddetta sofferenza morale in questa prima applicazione delle indicazioni delle Sezioni Unite si ritiene di non discostarsi dal parametro finora utilizzato, ritenendo che ciò  risponda a principi di uniformità di decisioni e, dunque di equità sostanziale; pertanto la personalizzazione del danno biologico finalizzata al riconoscimento della sofferenza morale viene attuata tramite la liquidazione di una percentuale dell’ammontare del danno biologico da invalidità permanente corrispondente ad un terzo, trattandosi di micro permanente».

Si vede, quindi, che anche dopo le sentenze delle SU in commento è possibile ottenere il risarcimento del danno morale (o “da sofferenza” che dir si voglia) nell’ambito di una valutazione individuale complessiva del danno non patrimoniale non automaticamente legata alla misura del danno biologico (ma che da esso può prendere spunto orientativo ai fini di una liquidazione di equità), senza che il danneggiato subisca sostanziali pregiudizi, ma anzi con la possibilità che il risultato finale sia persino superiore a prima.

Da ultimo va richiamata la massima di Cass. S.U., 16 febbraio 2009, n. 3677, secondo cui  «Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato».

La massima non è preceduta da una adeguata spiegazione  e sembra dire che il danno esistenziale rientri nel danno morale (anziché nella più generale categoria del danno non patrimoniale ed in particolare del biologico)  all’interno della categoria del dolore, che abbraccia, oltre al dolore intimo, anche quello derivante dal non poter fare, il dolore insomma da pregiudizio di tipo esistenziale. La distinzione tra pregiudizi di tipo esistenziale e quelli emotivi si riprodurrebbe comunque all’interno dell’insieme della sofferenza morale, distinguendo tra danno morale puro e danno morale-esistenziale.

Questa apparente contraddizione tra le diverse pronunce delle Sezioni Unite non è altro che la dimostrazione di come sia difficile per noi modesti operatori del diritto trovare precise e definitive certezze: l’unica, forse, è che dovremo rinunciare agli automatismi sia per quanto riguarda l’individuazione  di quelle che una volta erano le categorie di danno -  oggi tutte riconducibili all’ampia categoria del danno non patrimoniale -   sia per quanto riguarda il criterio di quantificazione, restando una maggiore discrezionalità in capo al giudice (per quanto sia auspicabile l’individuazione  di soglie minime risarcitorie uniformi). Nel contempo dovrà prestarsi particolare attenzione all’individuazione degli aspetti pregiudizievoli effettivamente patiti nella sfera morale e di vita.

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       3. La prova del danno.

Si è già detto che il lavoratore che agisce in giudizio incombe un preciso onere di allegazione per fornire al Giudice un quadro completo di tutti i pregiudizi sofferti (e questo anche per quanto riguarda il danno da demansionamento e dequalificazione: Cass. S.U. del 24 marzo 2006, n. 6572).

       Già in precedenza, peraltro, la giurisprudenza aveva trovato una ragionevole compensazione rispetto alla difficoltà di fornire determinate prove, nel riconoscimento che la prova possa essere raggiungibile tramite presunzioni, ben potendo il Giudice risalire al fatto ignoto (l'esistenza del danno) operando una complessiva valutazione dei precisi elementi dedotti e provati nel caso di specie, quali le caratteristiche, la durata e la gravità del demansionamento, la conoscibilità all'interno e all'esterno delle aspettative di progressione professionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del ricorrente e sulla sua salute (cfr. sul punto da ultimo Cass. 26 marzo 2008 n. 7871).

       Con la sentenza n. 26972/2008  le Sezioni Uniteribadiscono la più ampia facoltà del giudice di «porre a fondamento della sua decisione tutti gli elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni».  Anzi, il ricorso alle presunzioni viene particolarmente valorizzato: «attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica  fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002)» (par. 4.10).

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4. I criteri di liquidazione del danno.

La reazione di alcune compagnie di assicurazione alle sentenze delle Sezioni Unite è stata quella di non liquidare più il danno morale e qualunque forma di danno di tipo esistenziale.

D’altro canto, come si è visto, altri giudici hanno già dimostrato di non condividere una simile interpretazione delle sentenze di novembre, ritenendo anzi che le stesse consentano maggiore spazio valutativo per il Giudice così come risulta che il Tribunale di Milano  stia già elaborando nuove tabelle prefiggendosi lo scopo di non consentire comunque un trattamento complessivo finale peggiorativo per il danneggiato.  

Così scrive uno degli Autori che per primo ha commentato le decisioni delle Sezioni Unite:                                          

«In ogni caso, qualsiasi liquidazione venga effettuata per compensare perdite di tipo non reddituale deve essere ricondotta a questo nuovo concetto di danno non patrimoniale, la cui area può essere ricoperta anche soltanto da quello che fino ad ora era chiamato danno morale soggettivo. Questo procedere implica un cambiamento di abitudini da parte degli interpreti e specialmente da parte dei giudici di merito, poiché le tabelle adottate da tutti i Tribunali sono frutto di una diversa logica, figlia della  storia del danno alla persona sulla cui scia si sono poste le sentenze gemelle del 2003, che avevano consegnato un art. 2059 c.c. tripartito. Gli interpreti sono abituati a ragionare nei termini di una sommatoria di singole voci, da cui scaturisce il quantum del risarcimento finale. L’invito della Suprema Corte è di muovere dalla figura che è più prossima a descrivere la perdita subita, eventualmente correggendo il calcolo del danno con criterio equitativo. Questa può anche essere il solo danno morale, ad esempio quando occorra compensare la «sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine» (§ 3.9). Con questa tecnica si vogliono evitare le sovrapposizioni risarcitorie, sul presupposto che la funzione del danno non patrimoniale è unitaria e comune fra tutte le figure: biologico, morale, esistenziale.

Del resto, una volta affermato che il danno non patrimoniale è unico, va da sé che unitaria debba essere anche la sua funzione, quindi che non occorra interrogarsi sulla capacità compensativa, satisfattiva o punitiva delle singole figure: biologico, morale, esistenziale. Il prosieguo della partita si giocherà ora sul campo dei criteri di liquidazione. Può darsi, infatti, che le tabelle elaborate debbano essere riviste, in ragione della unitarietà assunta dal danno non patrimoniale. Tutte le tabelle esistenti sono, infatti, modellate sul presupposto che all’interno dell’art. 2059 c.c. vi fossero danni diversi, con propria autonomia anche in ordine al quantum del risarcimento: nel disegno della sentenza in commento i termini della questione sono mutati»[29].

Insomma, le acque si sono mosse e non possiamo pigramente affidarci ai vecchi salvagenti per galleggiare: occorre studiare, capire, ed attrezzarsi per tutelare al meglio gli interessi dei nostri assistiti individuando con precisione le domande ed i mezzi di prova necessari per conseguire il massimo risultato possibile.


[1] Intervento al Seminario dell’ AGI Friuli Venezia Giulia su “Il benessere sul luogo di lavoro tra danno esistenziale e danno alla salute” - Udine,  13 marzo 2009.

[2] Avvocato giuslavorista del Foro di Bologna

[3]    le n. 26972,  26973, 26974, 26975, in pari data.

[4] Massimo Franzoni: “Il danno non patrimoniale del diritto vivente”, in www.melchiorregioia.it

[5] Cass. S.U. 24 marzo 2006, n. 6572

[6]  Ordinanza n. 4712/2008: (nella sintesi formulata dalle stesse S.U.) In materia di danno esistenziale è necessario rinviare alle Sezioni Unite la quaestio iuris in ordine ai seguenti quesiti:

1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti. 2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate. 3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale. 4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano. 5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere. 6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale. 7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il ed. danno tanatologico o da morte immediata. 8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

[7]   Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828. 

[8] In dottrina il maggior merito allo sviluppo di tali tesi va certamente riconosciuto a Paolo Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile a cura di P.Cendon e P. Ziviz, Milano, 2000.

[9] Antonino Procida Mirabelli di Lauro in Il danno non patrimoniale secondo le Sezioni Unite: un de profundis per il danno esistenziale in Danno e Responsabilità 1/2009 p. 32 ss. con ampie citazioni dei propri scritti.

[10] Relazione 10 novembre 2008  n. 142 sul mobbing

[11] Pubblicato nel gennaio 2009 con introduzione a cura di Giovanni Canzio. Il paragrafo relativo alle tutele della personalità del lavoratore è a cura di Francesco Buffa.

[12] In realtà Cass. S.U. n. 2675/2008 vi ricomprende anche «i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale» relativi -  nel caso di specie -  ad immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità durate per oltre un anno, anche in ore notturne. V’è da dire che la III Sezione della Corte si è già posta in contrasto con tale impostazione, riconoscendo che la perdita di un gatto (animale d’affezione) può essere causa di risarcimento del danno morale quale voce di danno non patrimoniale: Cass. 25 febbraio 2009, n. 4493.

[13] Sul risarcimento del danno all’immagine, è stato  ritenuto non trattarsi di un “pregiudizio di carattere soggettivo che, come dagli ultimi arresti giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione e prova, ma di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda giudiziaria posta all’esame della Corte territoriale” v. Cass. S.U. 16 febbraio 2009, n. 3777. Sul danno alla reputazione e all’onore in ipotesi di illegittimo protesto da parte di Poste Italiane con un riconoscimento di “danno esistenziale” di Euro 10.000 v. Trib. Lecce - Sez. Maglie 11 febbraio 2009, con ampi richiami alla decisioni delle S.U. dell’11.11.2008.

già riconosciuta da Cass. n. 6572/06, Cass. n. 4260/07, Cass. n. 5221/07, Cass. n. 11278/07, Cass. n.    26561/07.

 

[15] Corte di  Cassazione 18 ottobre 1999,  n. 11727.

[16] Cass. 29 dicembre 2008, n. 29832.

[17] v. per tutte Cass. 4.4.2007 n. 8475; Cass. 26.5.2004 n. 101570; Cass. 27.4.2004 n. 7980; Cass. 2.1.2002 n. 10 e tantissime altre)

[18] v. per tutte Cass. S.U. del 24 marzo 2006, n. 6572.

[19] Corte Costituzionale  n. 359/03. Conforme, da ultimo, Cass. n. 22858/2008 secondo cui la responsabilità del datore di lavoro sussiste anche ove, pur in assenza di uno specifico intento lesivo, il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.

[20] Corte di Cassazione, S.U. n. 8438/04

[21] Corte di Cassazione 20 maggio 2008, n. 12735.

[22] Cfr. Corte cost. n. 184/86, cit., e Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in FI, 1994, I, 3297

[23] M. Meucci, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in www.dirittolavoro.web, richiamato dalla stessa Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario, nella Relazione tematica n. 142 del 10 novembre 2008, cit.

 

      [24] Relazione tematica n. 142 del 10 novembre 2008, cit., Red. Francesco Buffa.

 [25] V. Sara Landini in Danno biologico e danno morale soggettivo nelle sentenze della Cass. SS.UU. 26972,   26973, 26974, 26975, 2008 in Danno e responsabilità 1/2009 p. 45 ss.

[26] P.Cendon, Esistere o non esistere, in Resp. Civ. prev. 2000, 1259-1260.

[27] Rinvenibile sul sito www.melchiorregioia.it

      [28] Rinvenibile sul sito www.melchiorregioia.it

 

[29] Massimo Franzoni, cit.