Il difficile compito dell'avvocato cassazionista a due anni dalla riforma (di Alberto Piccinini)

IL DIFFICILE COMPITO DELL’AVVOCATO  CASSAZIONISTA A DUE ANNI DALLA RIFORMA

(Relazione tenuta in occasione dell’ Incontro Formazione Continua AGI Friuli Venezia Giulia, in tema di “Novità in materia di ricorsi per cassazione e processo del lavoro”, a Trieste, il 18/7/08

 Alberto Piccinini

 

Il bilancio di due anni di giurisprudenza dopo la riforma processuale del 2006[1] sembra confermare che i Giudici di legittimità intendono perseguire, attraverso una rigorosa applicazione delle nuove regole processuali, una riduzione del contenzioso arrivato a limiti insostenibili (molti commentatori hanno sottolineato che il numero di sentenze dell’anno 2007 è arrivato a quasi 35.000): con lungimiranza un autore fin dal 2005 aveva previsto – con particolare riferimento al “quesito di diritto” di cui parlerò in seguito – l’introduzione di “una tagliola per il legale sprovveduto”[2]

Una prima disposizione “punitiva” finalizzata ad indurre gli avvocati a non proporre ricorsi infondati è relativa alla condanna alle spese, che ai sensi del (nuovo) comma 4 dell’art. 385 può arrivare fino al doppio dei massimi tariffari ove si ravvisi una colpa grave nella proposizione del ricorso o nel resistere ad esso.

 Ma non è certo solo per questo che si è precisato che “la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità” (Cfr. Ordinanza n. 19895/2007)

C’è in piedi una vera e propria sfida  -  rivolta a noi 40.000 avvocati cassazionisti non per merito ma per dati anagrafici -  a ripensare il modo stesso di redigere il ricorso (certamente più agevole è, di questi tempi,  la redazione del controricorso) per aspirare, quantomeno, a non vedercelo definire “inammissibile”: aggettivo non solo poco piacevole, ma foriero anche di possibili ripercussioni in termini di responsabilità professionale.

Ciò può avvenire ad opera della Struttura Centralizzata Esame Preliminare Ricorsi Civili[3] – il cui scopo precipuo è quello della valutazione dei ricorsi che contengano una effettiva postulazione di legittimità – ovvero con ordinanza in camera di consiglio, su impulso del relatore nominato il quale non ritenga che il ricorso sia deciso in udienza[4] ovvero con sentenza nella stessa pubblica udienza: una vera corsa ad ostacoli finalizzata ad una drastica “scrematura” dei ricorsi prima ancora che possano essere esaminati nel merito.

 Va considerato, inoltre, che fino alla riforma del 2006 non era previsto il contraddittorio delle parti per le questioni rilevate d’ufficio  e poste a base della decisione: per ovviare a ciò è stato inserito il terzo comma dell’art. 384 per cui la Corte, quando ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, “riserva la decisone, assegnando con ordinanza al pubblico ministero  e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.

Questa doverosa disposizione, di fondamentale importanza in un contesto di “allarme sociale rispetto al moltiplicarsi delle inammissibilità”[5] rilevabili anche d’ufficio, non viene però - nella prassi  - ritenuta applicabile quando, ad esempio, sia il pubblico ministero a sollevare per la prima volta nella discussione in pubblica udienza una questione di inammissibilità: la Corte infatti ritiene non potersi parlare, in questo caso, di questione rilevata d’ufficio e riserva la decisione senza concedere termine ai difensori per replicare. 

Considerando che da dati non ufficiali sembra che oltre il 30% dei ricorsi vengano dichiarati inammissibili, dobbiamo avere presente che solo se riusciremo a superare la rigorosa selezione del prodotto da noi elaborato -   e dunque il nostro atto sarà ritenuto contente una “vera postulazione dell’esame di legittimità” anziché semplicemente “animato solo dal proposito di inaccettazione di una giusta decisione di merito”[6] - potremo aspirare all’udienza pubblica.

Confidando di aver catturato un po’ la vostra attenzione, prima di passare ad esaminare gli aspetti più delicati della riforma attraverso l’interpretazione e l’applicazione, da parte della Corte, delle nuove regole processuali, vorrei fare un breve cenno ad un principio - di matrice giurisprudenziale - che ha anch’esso “falcidiato” molti ricorsi in base a criteri, diciamo così, formalistici: il principio di “autosufficienza”.

 

A. Autosufficienza del ricorso.

Il ricorso per cassazione deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a consentire l’apprezzamento, da parte dei giudici di legittimità, delle ragioni per cui si censura la sentenza impugnata.

 Il controllo della congruità e logicità della motivazione verrà svolto esclusivamente sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso e – soprattutto – delle risultanze processuali e probatorie ivi integralmente trascritte che si assumono ignorate ovvero insufficientemente o illogicamente valutate: prevede infatti  l’art. 366, comma 1 n. 6 (contenuto del ricorso) che il ricorso deve (tra l’altro) contenere “La specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”.

Per quanto riguarda, in particolare,  le censure sulla motivazione “circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (Art. 360 n. 5), è evidente che l’illustrazione delle doglianze dovrà essere correlata dalla chiara indicazione di tale fatto così come risultante dagli atti del giudizio di merito e come emerso nelle risultanze processuali.

Da questi richiami normativi si è dedotto “che il legislatore della riforma (…) ha codificato definitivamente il principio giurisprudenziale di autosufficienza del ricorso”[7] allo scopo di “offrire alla Corte, oltre che alla stessa parte resistente,  un quadro che sia il più possibile immediato, completo ed autosufficiente delle censure sulle quali dovrà pronunciarsi e di agevolarne il lavoro di reperimento degli atti e documenti sui quali essi si fondano”[8].

Concretamente questo significa, per noi avvocati,  essere particolarmente diligenti nell’offrire al giudizio della Corte non solo la trascrizione (in certi casi quasi integrale) di atti e verbali di udienza, ma anche della copia di documenti che facevano parte dei fascicoli dei precedenti gradi del giudizio.

 Scrive un esperto avvocato romano: “In questo contesto non è ancora chiaro il modo in cui saranno lette le improcedibilità collegate a quanto previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 né se vi sarà un rifiuto assoluto della Corte di andare a verificare il contenuto dei fascicoli di merito, spesso voluminosi e disordinati. È tuttavia prudente (per non dire prevedibile) attendersi il peggio e depositare, nei venti giorni dalla notifica, oltre alla sentenza impugnata e alle istanze di trasmissione, tutti gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, in aggiunta a quanto già contenuto nei fascicoli di merito. Con una cura particolare nel recupero tempestivo dei documenti depositati dalla controparte, non acquisiti in copia nel corso del giudizio di merito o, comunque, non disponibili”[9].

 

 B. Motivi del ricorso

Sui primi due motivi di ricorso non è intervenuta la riforma: li richiameremo brevemente solo per esigenze di completezza.

B 1: Motivi attinenti alla giurisdizione (art. 360 n. 1).

Come è noto vi è questione di giurisdizione sia quando il giudice ordinario abbia deciso (ovvero abbia negato la propria potestà a decidere) su materia del tutto estranea alle sue attribuzioni, sia nel caso in cui manchi nell’ordinamento un’apposita disciplina di tutelabilità in sede giudiziaria,  sia  nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale ovverocon la pubblica amministrazione, sia, infine, nei rapporti tra la giurisdizione italiana e quella di altri Stati.

La cognizione delle questioni riconducibili a tale motivo è attribuita alle Sezioni Unite per le questioni di giurisdizione nuove, mentre per quelle (identiche) già risolte dalle stesse S.U. è prevista, di norma l’assegnazione alle sezioni semplici.

Colgo occasione per evidenziare che la riforma di cui parliamo ha previsto che le sezioni semplici debbano uniformarsi alle decisioni relative alle questioni sulle quali si siano pronunciate le Sezioni Unite: ove intendano decidere in modo difforme sono infatti tenute a reinvestirle della questione, con ordinanza motivata (art. 374 c.p.c). 

B. 2. Violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza (art. 360 n. 2).

Il ricorso per cassazione in materia di competenza è consentito solo se la sentenza impugnata (o altro provvedimento diversamente nominato, ma equiparabile, sul piano dell’efficacia, alla sentenza) ha deciso anche nel merito: in questo caso  il regolamento di competenza concorre con l’impugnazione ordinaria. Le pronunce sulla sola competenza sono impugnabili –per violazione delle norme che disciplinano la competenze – esclusivamente con il regolamento necessario di competenza. Ogni altro mezzo di impugnazione verrà dichiarato inammissibile.

B. 3. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

Il  motivo di cui al punto 3 dell’art. 360, tradizionalmente tra i più invocati, è stato integrato dalla riforma con l’estensione del controllo di legittimità anche dei contratti e accordi collettivi nazionali di diritto comune: questo punto specifico, di massimo interesse per noi giuslavoristi, verrà trattato specificatamente dalla collega Elisa Favè, per cui io mi limiterò ad una disamina degli aspetti processuali, sempre dal punto di vista della loro pratica applicazione.

Il vizio di violazione di legge “investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata”[10].

In particolare con questo motivo di ricorso è necessario indicare in cosa consista “l’erronea ricognizione” da parte dei giudici di merito, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge che si assume violata, con conseguente necessità di corretta interpretazione della stessa (cfr., tra le tante, Cass. 21.1.2004 n. 15499 e Cass. 26.9.2005 n. 18782).

 “Il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 numero 3 cod. proc. civ. deve essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza o dalla dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione” (Cass. n. 22499 del 19.10.2006).

Viene quindi ritenuto indispensabile – a pena di inammissibilità del ricorso – che il ricorso contenga la trascrizione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si pretendono errate, e specifiche censure contro di esse.

Si è inoltre affermato che l’atto debba contenere anche e la proposizione di una diversa interpretazione delle norme che si assume corretta: solo in tal modo  si consentirebbe alla Corte di espletare pienamente la sua funzione nomofilattica.

La falsa applicazione  “vive in un’area limitata, che è compatibile con una corretta interpretazione della norma e un’adeguata ricognizione della fattispecie concreta, ma presuppone una errata correlazione tra la norma di diritto (correttamente interpretata) e la fattispecie concreta (correttamente ricostruita)”.[11]

I motivi di cui al n. 3 dell’art. 360 sono relativi a vizi di giudizio (errores in iudicando) a differenza dei motivi enucleati ai numeri 1, 2, 4,  dello stesso articolo, considerati errores in procedendo in quanto  si sostanziano in violazioni della legge processuale e rappresentano dei “difetti di costruzione della sentenza”[12].  Nella prima ipotesi viene denunciata l’ingiustizia effettiva della sentenza, mentre nella seconda l’ingiustizia che può derivare dalla violazione di una regola di procedimento. Mentre negli errori di giudizio la Corte di Cassazione non può giudicare il fatto, per gli errori di procedimento è giudice anche di fatto, dovendo verificare se l’attività svolta corrisponda a quella prevista dalla norma processuale e quindi in che modo essa sia stata compiuta.

Dal momento che la complessità della problematica può  generare un po’ di confusione, vi consolerò informandovi che la confusione regna anche all’interno della Corte: per la sostanziale differenza tra i diversi vizi è stato ritenuto infatti inammissibile il motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi di motivazione, considerando tale formulazione una negazione delle regole di chiarezza posta dall’art. 366-bis c.p.c. (Ordinanza n. 9470 del 11.4.2008; Sentenza n. 13233 del 22.5.2008); al contrario -  con  una pronuncia di segno opposto -  è stato considerato ammissibile il ricorso che denunci con unico motivo vizi di violazione di legge e di motivazione “poiché  nessuna prescrizione è rinvenibile nelle norme processuali che ostacoli tale duplice denunzia” (Sentenza n. 976 del 18.1.2008).

Riprenderò questi temi quando affronterò l’argomento del quesito di diritto: per ora il consiglio è, comunque, di tenere per quanto possibile separate le censure relative ai diversi motivi di impugnazione.

B. 4. Nullità della sentenza o del procedimento.

La riforma del 2006 non ha modificato il motivo di cui al n. 4 dell’art. 360, del quale pertanto ci occuperemo succintamente.

Solitamente nella pratica giudiziaria i vizi “sostanziali” della sentenza di secondo grado (gli eventuali vizi della sentenza di primo grado sono stati assorbiti in grado di appello) denunciati sono relativi all’omessa pronuncia, ovvero all’ultrapetizione ed extrapetizione: per validamente eccepire il vizio di omessa pronuncia è necessario – in forza del richiamato principio di autosufficienza – che nel ricorso in cassazione sia trascritto lo scritto difensivo (o il verbale di udienza) del precedente grado del giudizio contenente le domande od eccezioni che si assumono ignorate per consentire ai giudici di legittimità di valutarne la ritualità e la tempestività (oltre alla decisività); ugualmente dovrà consentirsi la verifica di come il giudice di merito si sia eventualmente pronunciato oltre i termine della domanda ovvero su questioni estranee al giudizio non rilevabili d’ufficio.

I vizi del procedimentorelativi alle prove che ricadono sotto il n. 4 sono tutti quelli che riguardano l’acquisizione  delle stesse (allegazione, produzione, deduzione, ammissione, assunzione) oltre quelli sul mancato rispetto di norme previste dalla legge processuale, quali prescrizioni e decadenze (mentre le norme del codice civile in materia di onere della prova riguardano il diritto sostanziale, per cui la loro violazione comporta errores in iudicando  e non in procedendo).

Quando vengono dedotti errores in procedendo La Corte di Cassazione “è anche giudice del fatto, ovviamente limitatamente e con specifico riferimento ai fatti relativi agli aspetti processuali prospettati, con la conseguenza che è legittimata a procedere in piena autonomia all’esame degli atti processuali, così conoscendo dei fatti che hanno dato (eventualmente)  luogo alle allegate nullità”[13].

B. 5. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

I vizi della motivazione costituiscono un’altra censura particolarmente diffusa nei ricorsi ai giudici di legittimità.

La formula contenuta nel codice a seguito della riforma del 1950 era “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettata dalle parti o rilevabile d’ufficio”: la novella, ripristinando sostanzialmente il testo originario del codice del 1940, precisa che i vizi attinenti la motivazione devono investire  “un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

Per fatto deve intendersi un documento, una circostanza allegata la cui rilevanza risulti decisiva ai fini del decidere: il vizio di motivazione deve essere assolutamente riferibile ad esso, perché nei casi in cui la motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria si riferisce ad una questione (e quindi ad un errore) di diritto, il motivo di cassazione non va ricercato nel n. 5 ma nel n. 3 : “Quante volte la parte postula che il punto della decisione è stato deciso in modo erroneo – perché il fatto non è stato ricostruito in modo logico, mentre una volta che lo fosse stato in modo logicamente corretto, avrebbe poi dovuto essere anche diversamente deciso in diritto – il ricorrente, deve prima e separatamente fornire dimostrazione del vizio di motivazione e poi porre il diverso modo d’esser del fatto, da lui postulato, a base del quesito di diritto”esprimendo “la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe, invece, deciso” (Ordinanza n. 2652 del 4.2.2008).

Può leggersi in una recente decisione in materia di lavoro: «Atteso che, secondo quanto dispone l’art. 360, n. 5 c.p.c. l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assuma omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, il motivo è inammissibile allorquando il ricorrente  non indichi le circostanze rilevanti ai fini della decisione, in relazione al giudizio espresso nella sentenza impugnata (Nella specie è stato dichiarato inammissibile il motivo di ricorso in cui si denunciava il vizio di motivazione della sentenza impugnata – che aveva respinto la domanda di un lavoratore, volta ad ottenere il risarcimento del danno alla carriera per perdita di “chances”, in ragione della riscontrata carenza di allegazione e prova dei fatti idonei a dimostrare l’effettiva perdita di possibilità di reimpiego lavorativo – limitandosi ad esporre le circostanze relative alla propria vicenda lavorativa)» (S.U., Sentenza n. 11652 del 12.5.2008).

Ma in termini ancora più restrittivi si sono pronunciate alcune recentissime decisioni le quali, in considerazione della circostanza fatto che per questo motivo di ricorso non è prevista la formulazione di un quesito di diritto (né potrebbe esserlo, non implicando la motivazione della sentenza  censurata un errore di diritto), hanno inventato l’onere di elaborazione di uno specifico  e chiaro “sunto” del motivo.

«Allorché nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366-bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, un’indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta  al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (in applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso nel quale la sentenza impugnata veniva censurata per aver integralmente recepito una consulenza tecnica d’ufficio, ma senza indicare in modo chiaro e sintetico le ragioni per cui tale motivazione fosse inidonea a sorreggere la decisione)» (Ordinanza n. 8897 del 7.4.2008).

E ancora: «Nella norma dell’art. 366-bis c.p.c., nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5 del precedente art. 360 – cioè la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione [della sentenza impugnata] la rende inidonea a giustificare la decisione” – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, in modo che no è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo rilevi, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366-bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea a sorreggere la decisione» (Ordinanza n. 16002 del 18.7.2007; conformi Ord. n. 4309/2008; n. 4311/2008; n. 4646/2008, n. 8897/2008;  n. 16558/2008; n. 16567/2008; v. anche S.U. Sentenza n. 20603/2007; SU. Sentenza n. 11652/2008).

È quindi decisamente opportuno, per i ricorsi che coinvolgono il motivo di cui al numero 5 dell’art. 360, osservare la regola suggerita dalle citate decisioni.

 

C. Il quesito di diritto.

La novità più rilevante della riforma – che ha mietuto maggiori vittime tra i colleghi – è quella introdotta dall’art. 366-bis secondo cui “Nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4) l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5) l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.

L’inammissibilità del ricorso è rilevabile d’ufficio.

Particolarmente utili per individuare l’orientamento giurisprudenziale sono le sempre aggiornate relazioni periodiche sullo stato della giurisprudenza che l’Ufficio del Massimario e del Ruolo del Supremo Collegio diffonde in rete: molte delle  sentenze qui di seguito citate sono richiamate nella relazione n. 89 del 2 luglio 2008.

C. 1 Caratteristiche del quesito.

Il quesito deve innanzi tutto deve essere esplicito: esso infatti “non può essere interpretato nel senso che possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso” (S.U. Sentenza n. 7258/2007)

Il quesito (…) deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (S.U. Sentenza n. 3519/2008).

Se il quesito deve avere una portata “generale” sì da essere di validità e riferimento per altri casi analoghi, nello stesso tempo, però, non deve essere troppo generico,  privo di riferimenti al caso concreto:

“Ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si concluda con la formulazione di un quesito di diritto in alcun modo riferibile alla fattispecie o che sia comunque assolutamente generico” (S.U. Sentenza n. 36/2007; S.U. Sentenza n. 8466/2008).

Il quesito deve quindi essere generale ma specifico, etaleda “porre il giudice di legittimità in condizioni di comprendere – in base alla sola sua lettura – l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una regula iuris” (S.U. Ord. n. 2658/2008; S.U. Sentenza n. 3519/2008).

Esso deve essere poi conferente con il motivo al quale fa riferimento: “Il quesito di diritto richiesto dall’art. 366-bis è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non è conferente alla questione che rileva per la decisione della controversia” (S.U.  Sentenza n. 8466/2008): quando infatti il quesito di diritto si esaurisce in una enunciazione di carattere generale ed astratto che, in quanto priva di qualunque indicazione sul tipo di controversia e sulla riconducibilità alla fattispecie, non consente di offrire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, il motivo è da dichiararsi inammissibile, non potendo essere desunto o integrato dal motivo (S.U. Sentenza n. 6420/2008).

Il quesito di diritto inconferente va assimilato alla mancanza di quesito (S.U. Sentenza n. 14385/2007) in quanto anche ove, in ipotesi, la risposta al quesito fosse positiva per l’istante, risulterebbe comunque priva di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidonea a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata (S.U. Sentenza n. 11650/2008).

In sintesi: “è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto all’illustrazione dei motivi di impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dover essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico” (S.U. Sentenza n. 20360/2007).

Si ritengono comunemente inammissibili i quesiti multipli, quelli mediante i quali alla Corte sia richiesto di formulare contemporaneamente più principi di diritto, in quanto “il quesito deve essere formulato in modo tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un o un no (Sentenza n. 3896/2008; Sentenza n. 1906/2008) e i quesiti plurimi, contenenti ciascuno – e cumulativamente – censure rapportabili alle varie ipotesi dell’art. 360 (Sentenza n. 5471/2008).

La tecnica mista di deduzione delle censure  è stata oggetto di argomentata critica da parte del Supremo Collegio in quanto “impedisce alla Corte di stabilire, nel vasto contesto argomentativi, quale argomento attenga al vizio della motivazione e quale alla omessa pronuncia. Si vuol dire che il giudizio di cassazione  è un giudizio a critica vincolata, perché delimitato e vincolato dai motivi del ricorso e da ciò l’esigenza, che attiene alla certezza del diritto, di una deduzione analitica e specifica dei singoli motivi, nel rispetto della tipologia espressamente prevista dalla legge” (Sentenza n. 13233/2008).

La prima conseguenza di tale enunciato è che non è ammissibile dedurre  come error in procedendo il vizio della motivazione su punto decisivo, dal momento che il vizio motivazionale è per sua essenza diverso dal vizio processuale, in quanto – come si è visto – la norma di cui al n. 5 non conferisce alla Corte il potere di esaminare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale, e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dai giudici di merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti, mentre l’error in procedendo    qualificato “omessa pronuncia”, per la violazione dell’art. 112 c.p.c. esige la specificazione dei motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c. n. 4.

Si profila quindi inammissibile – ad esempio – il motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al contempo, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, ciò costituendo una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366-bis, giacchè si affiderebbe “alla Corte di Cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una sua autonoma collocazione”. (Ordinanza n. 9470/2008, con la quale la Sezione Lavoro ha consideratoinammissibili tre su quattro motivi “per mancanza dei quesiti di diritto” mentre ha ritenuto infondato il terzo motivo - “carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia” - in un’ipotesi di mancata offerta delle prestazioni in contratti a termine con clausola nulla. Nonostante che il datore di lavoro Poste Italiane avesse eccepito per la prima volta in appello la mancanza di “messa in mora”, la Corte ha sostenuto che “l’offerta delle prestazioni lavorative, essendo un elemento necessario della fattispecie di inadempimento su cui si fonda il diritto al risarcimento del danno, deve essere provato dal lavoratore, e la sua mancanza preclude al giudice, indipendentemente dall’eccezione di controparte, di accogliere la domanda”).

Da ultimo si osserva che, sotto il profilo formale, non viene richiesta una precisa veste grafica né una particolare collocazione topografica del quesito rispetto al testo del motivo, “purché esso sia espressamente riferito al motivo  cui accede  e che concettualmente conclude” (Ordinanza  n. 5073/2008).

Conclusivamente il lavoro di formulazione dei quesiti dovrà passare attraverso diverse strettoie, ma non è detto che, alla fine,  non si possa riuscire a formulare dei quesiti che portino all’enunciazione di importanti - per il giuslavorista -  principi di diritto come i seguenti:

 “La prestazione di attività lavorativa onerosa, all’interno dei locali dell’azienda, con materiali ed attrezzature proprie della stessa, e con modalità tipologiche proprie di un lavoratore subordinato, in relazione alle caratteristiche delle mansioni svolte (nella specie commesso addetto alla vendita), comporta una presunzione di subordinazione che è onere di controparte vincere.

Una volta provata la subordinazione, è onere del datore di lavoro provare i requisiti formali richiesti dalla legge per le tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato” (Sentenza 6 settembre 2007 n. 18692 con la quale Suprema Corte ha cassato la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro del 10.2.2004 n. 187/04 statuendo, tra l’altro  che “Alcune volte la volontà delle parti nulla può contro certe modalità esigite dal processo tecnologico applicato alla produzione del bene o servizio richiesto: il lavoro di fabbrica è il prototipo del lavoro subordinato, sarebbe vano nominare autonomo il lavoro alla catena di produzione;  analogamente l’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprie delle stessa costituisce un forte indizio, che concorre a dar luogo del giudizio di sintesi sulla subordinazione (…) Sembra opportuno ribadire che nel campo del diritto del lavoro (che comprende, ex art. 35 Cost., qualsiasi tipologia lavorativa), in ragione della disuguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell’immanenza della persona del lavoratore e del contenuto del rapporto e, infine, dell’incidenza che la disciplina di quest’ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi, le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all’autonomia individuale, cosicché il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. E la violazione del modello di contratto e di rapporto imposto all’autonomia individuale dà luogo, di regola, alla conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto (Corte Cost. 21 gennaio 1992, n. 210; Cass. 2 giugno 1999, n. 5411) per pervenire poi alla conclusione, riassunta appunto nel principio di diritto sopra riportato, che “È colui che oppone rapporti di lavoro diversi (rispetto al prototipo del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato: n.d.r.) che deve provare i requisiti formali richiesti dalla legge per il diverso rapporto.)

C. 2 Casi in cui il ricorso deve contenere il quesito

La Corte di Cassazione con la sua giurisprudenza ha individuato le ipotesi in cui deve considerarsi operante l’art. 366-bis.

a)                     ai ricorsi per regolamento per competenza  (Ordinanze n. 4064-4065/2007; n. 4071/2007; n. 6278/2007; n. 7402/2007; n. 13138/2007; n. 15584/2007);

b)                    all’impugnazione dell’ordinanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (Ordinanze n. n. 15108/2007; n. 7537/2008; n. 13194/2008);

c)                     ai ricorsi per revocazione delle sentenze di Cassazione, laddove deve essere chiaramente indicato il “fatto” oggetto dell’errore revocatorio (Ordinanze n. 4640/2007; n. 5075-5076/2008; Sentenza n. 6638/2008). Si evidenzia che certi vizi della sentenza, come ad esempio il “travisamento del fatto” sono da considerare motivi di revocazione, e non di cassazione.

d)                    ai ricorsi in materia elettorale (Sentenza n. 14682/2007; S.U. Sentenza n. 7258/2007));

e)                     alla prospettazione di una questione di costituzionalità (Ordinanza n. 4072/2007)

f)                      ai ricorsi nei confronti di sanzioni disciplinari irrogate a magistrati dalla Sezione disciplinare del C.S.M. (Sentenze S.U. n. 16615/2007 e n. 20603/2007) ovvero di sanzioni disciplinari nei confronti di notai (Ordinanza n. 10160/2008) o per le decisione del C.N.F. (Ordinanza n. 2272/2008);

g)                     ricorsi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 362 c.p.c. ritenendosi che “il mancato richiamo all’art. 362 c.p.c. (da parte dell’art. 366-bis: n.d.r.) va considerato frutto di un difetto di coordinamento dovuto a mera dimenticanza del legislatore e non di una consapevole differenziazione nella disciplina di fattispecie simili, le quali comportano, entrambe, la medesima richiesta rivolta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di individuare il giudice fornito di giurisdizione sulla controversia in corso” (S.U. Sentenze n. 7258/2007; conformi n. 2658/2008; n. 3519/2008).

C. 3  Casi in cui il ricorso NON deve contenere il quesito

Si è ritenuta l’inapplicabilità dell’art. 366-bis al ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c.  in considerazione della sua natura non di mezzo di impugnazione (S.U Ordinanza n. 22059/2007, n. 5924/2008; n. 3144/1008; n. 3171/2008) e al ricorso per conflitto di giurisdizione di cui all’art. 362 comma 2 c.p.c., anche perché in tale ricorso, che non costituisce mezzo di impugnazione, il quesito risulta già implicitamente formulato (Ordinanze n. 2280-2281/2008; S.U. Sentenza 10466/2008).

*

Cercando di tirare  per quanto possibile, le fila di quella che appare la parte più innovativa (e pericolosa, per noi avvocati) della riforma, e cioè l’obbligo di formulare i quesiti (e di formularli in un determinato modo) diamo conto dell’esistenza di due diversi approcci.

Il primo, più ottimista, ritiene che tale obbligo possa rivelarsi uno strumento adeguato allo scopo di promuovere una migliore tecnica forense, “poiché l’avvocato che ha redatto un motivo di ricorso su argomentazioni scadenti incontrerà, probabilmente, la difficoltà di formulare il quesito in modo corretto e plausibile, e ciò lo indurrà a rimeditare la motivazione per migliorarla. Dinanzi a questo risultato, che si aspira a conseguire sulla tecnica redazionale della massa di ricorsi, è modesto l’effetto collaterale di richiedere all’avvocato, che ha già scritto bene i motivi di ricorso, di aggiungere anche il quesito di diritto, poiché il compito sarà per lui modesto e facilmente dominabile”[14]

Invero, alla luce della severità ad oggi dimostrata dalla Corte nell’affrontare la novità legislativa, verrebbe da condividere il commento  un po’ ironico di un Autore che ha formulato, tra le altre, questa ipotesi: “Ma  se l’intento del legislatore del nuovo art. 366-bis fosse stato quello di aiutare la Corte a lavorare meglio nonostante l’overload, bensì quello di decimare magicamente i ricorsi ammissibili e poi, possibilmente, i ricorsi tout court, tanto valeva prescrivere qualcosa di più difficile del quesito: il ricorso va redatto in pentametri giambici: il che non aiuta minimamente la Corte a lavorare meglio, ma sicuramente è alla portata di pochissimi avvocati”[15]


[1] D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 in attuazione della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso sentenze rese pubbliche in data successiva al 2 marzo 2006.

[2] Andrea Proto Pisani: Novità nel giudizio civile di Cassazione, in Foro It, 2005, V, 254.

[3] Istituita dalla legge n. 89/2001.

[4] L’art. 380-bis c.p.c. prevede che quando il relatore ritenga che vada adottato il rito camerale depositi una relazione con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi per cui ritiene che il ricorso possa essere deciso con ordinanza in camera di consiglio; in questa ipotesi, almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza il decreto e la relazione sono comunicati al PM e notificati agli avvocati, per consentire loro di presentare, rispettivamente, conclusioni scritte e memorie (cinque giorni prima) e chiedere di essere sentiti.

[5] Roberto Pessi: Il giudizio di cassazione nelle controversie di lavoro, Relazione all’Incontro di  Studio organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza - Università La Sapienza il 3 marzo 2008 in ADL, 2008 p. 683.

[6] Corrado Guglielmucci: Crisi del sistema nomofilattico e Struttura centralizzata  per l’esame preliminare dei ricorsi civili presso la Corte di Cassazione, in IL NUOVO GIUDIZIO DI CASSAZIONE, a cura di G. Ianniruberto e U. Morcavallo, Giuffrè, 2007, p.73

[7] Giovanni Canzio: Le due riforme processuali del 2006 a confronto (…)., in IL NUOVO GIUDIZIO DI CASSAZIONE, cit., p.84

[8] Relazione di accompagnamento del D.lgs n. 40 del 2006 in Guida al diritto, 2006, n. 8, VII.

[9] Sergio Vacirca, Il nuovo giudizio di cassazione: supplenza zero, in Riv. Giur. Lav., 2008, 576.

[10] Aldo Carrato, I motivi di ricorso, in IL NUOVO GIUDIZIO DI CASSAZIONE, cit., p. 226

[11] Sergio Vacirca, cit., pag. 581.

[12] Cfr. Aldo Carrato, cit., pag. 220.

[13] Aldo Carrato, cit., pag. 236.

[14] Remo Caponi : Il nuovo giudizio di cassazione civile: quesito di diritto, principio di diritto, massima giurisprudenziale. in Foro It., I, 2007, c. 1387

[15] Antonio Briguglio: La Cassazione e i quesiti, Giust. Civ. 2007, 12.