(Libere) riflessioni sulla responsabilità organizzativa dell'impresa (di Andrea Stanchi)

(Libere) riflessioni sulla responsabilità organizzativa dell´impresa (di Andrea Stanchi)
 
1. Introduzione
Il tema di cui sono stato sollecitato a esporre qualche riflessione è in realtà un tema molto complesso che richiederebbe ben più di qualche parola e delle limitazioni di un intervento non programmato, che rischia di trasformarsi in mere affermazioni colloquiali, ma tant’è lo spazio e quindi cercherò di sembrare il meno approssimativo possibile. La riflessione prende le mosse da una constatazione evidente per chi, come il sottoscritto, sia abituato a doversi relazionare professionalmente nell’ambito dell’attività quotidiana con il contesto internazionale delle normative che regolano l’impresa ed il lavoro in essa. L’interrelazionarsi di un mondo divenuto piccolo a seguito del mutamento dei paradigmi informazionali, economici, sociali spinge in realtà gli ordinamenti nazionali e sovranazionali ad una evoluzione integrativa –lenta rispetto ai tempi del nuovo mondo, ma velocissima rispetto ai normali tempi della legiferazione (né è, a mio parere, un indice anche l’ampissimo ricorso che dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso si fa alla legislazione delegata, più snella, veloce e, per il governo di volta in volta in carica, “meno accidentata”, del normale percorso parlamentare in fase recettiva di norme comunitarie e in generale di matrice sovranazionale). Questa integrazione è –volendo leggere il fenomeno macro e non quello micro- una reazione difensiva necessitata degli ordinamenti normativi europei (per quel che a noi interessa) ad un fenomeno oggettivo, determinato dall’evoluzione del mondo globalizzato, cioè la perdita di capacità (o meglio di “effettività”) d’intervento della legislazione nazionale fondata sulla norma imperativa. Globalizzazione, da un lato, e la conseguente regionalizzazione dall’altro, determinata dall’economia a rete, sottraggono efficacia all’intervento autarchico degli stati nazionali. Questo fenomeno, molto ben descritto da studiosi stranieri ed italiani[1], è ormai di evidenza tale che osservatori d’oltreatlantico, con l’innato pragmatismo, hanno ben registrato che anche il diritto, o meglio la regolamentazione giuridica, è divenuto un bene e come tale è soggetto a competizione economica (per l’efficacia che esso ha sulla regolamentazione, a cui nessuno stato nazionale rinuncia, dei mercati)[2]. Laddove la regolamentazione statale dei fenomeni è fondata sulla norma imperativa –come certo accade e deve accadere nelle normative sulla sicurezza del lavoro e della persona del lavoratore (che sono oggi da ritenersi “norme di base” per la protezione collettiva delle società occidentali, sottoposte –socialmente- alla competizione con le “risorse umane” orientali, molto più numerose, meno educate alla protezione del valore umano nel lavoro, più attrezzate a competere per sopravvivere, in un meccanismo che non è evidentemente tragico come il conflitto armato, ma è ugualmente cruento in termine di costi umani)- solo laddove l’area di applicazione di essa è molto ampia si riesce ad imporne anche una applicazione efficace (ove per efficace si intende capace di condizionare i meccanismi della produzione e dell’economia[3]). La via è dunque quella (antichissima e già ben compresa dai nostri progenitori romani) di avere norme comuni, rese comuni dall’interpretazione (ormai riconosciutamente a valore sopranazionale ed efficacia immediata) delle corti europeee (Corte di Giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo)[4]. Da queste considerazioni, che mi sentirei di ritenere poco discutibili, credo (e questo invece è discutibilissimo) si possa trarre il fondamento di principi che dovrebbero –nell’equilibrio che sempre è responsabilità del giurista- presiedere all’interpretazione (anche evolutiva[5]) delle normative nazionali. E’ cioè, a mio parere, possibile individuare delle linee omogenee di lettura di sistemi complessi (normativi) ed è necessario leggerli (ed interpretarli) in modo integrato (i colti direbbero, sistemico).
 
2. La Corporate Social Responsibility (RSI)
Occorre ancora qualche riflessione di contesto. La consapevolezza del complessissimo sistema  tracciato in poche parole nel paragrafo che precede trova uno specifico riscontro nella scelta della Comunità cui apparteniamo, sulla linea tracciata dalle raccomandazioni del Consiglio di Lisbona (2000), di sostenere le linee della responsabilità sociale dell’impresa (Corporale Social Responsibility)[6], quale chiave di evoluzione proposta per la via europea alla globalizzazione[7]: “per essere un modello di successo, l’economia di mercato deve basarsi su alcuni presupposti essenziali: da un lato su disposizioni legislative e regolamentari efficaci e coerenti e dall’altro sull’autolimitazione e sull’autocontrollo, nonché su un clima proattivo di innovazione e imprenditorialità, lealtà e fiducia”. E’ in questa chiave che vanno letti, da un lato l’incentivato sviluppo di valutazioni di standard (ancora discutibili nella misurabilità oggettiva e nell’efficacia) come lo SA8000[8], o l’elaborazione in corso dell’ISO 26000 (che non sarà certificabile a quanto pare)[9], dall’altro alcuni interventi normativi, in particolare in materia di lavoro, ma anche di tutela della persona (come la privacy) e di tutela (anche economica) della collettività, del mercato, nell’accezione più ampia, di matrice europeista[10]. Ovviamente la CSR si fonda anche e specificamente sull’apporto volontario dell’impresa, ma credo non sia (più ragionevolmente) possibile non leggere nel detto contesto anche gli interventi invece cogenti della leslazione di matrice europea. Se la chiave di lettura proposta è condivisibile, ne risulta un quadro interpretativo molto chiaramente definito nelle sue linee di tendenza.
 
3. L’integrazione delle tutele e il fondamento della Responsabilità Organizzativa dell’impresa
L’ordinamento italiano conosce bene, specie quando si discute di sicurezza la logica della imputazione di responsabilità (almeno sul piano individuale: secondo i dettami dell’art. 27 della Costituzione) all’organizzatore incauto. Tale complesso normativo trae origine e si fonda sull’obbligo di garanzia dettato dall’art.2087 del codice civile e trova specificazione nei decreti degli anni ’50 e poi nella normazione di derivazione comunitaria sino al D.Lgs. n. 626/94, come modificato dal D.Lgs. n. 242/96. Si tratta di un ordinamento normativo che detta obblighi prevenzionali a tutela della sicurezza del lavoratore la cui violazione comporta l’applicazione di sanzioni amministrative e penali, oltre a responsabilità risarcitoria sul piano civile (art. 2043 c.c. e 2059 c.c). Il sistema descritto poggiava sulla responsabilità penale, in ottemperanza al principio del nostro ordinamento costituzionale fondato sulla personalità della responsabilità (art. 27 Cost.), del datore di lavoro e/o del dirigente. Talvolta prevedeva anche responsabilità concorrenti a carico del preposto, del medico competente, dei lavoratori secondo le reciproche aree di “attribuzioni e competenze”[11]. Con la recezione della normazione comunitaria, che amplia la logica originaria di tutela della sicurezza affermando principi specifici di organizzazione del sistema di tutela della sicurezza a fini di prevenzione individuale e collettiva (cioè interessata a prevenire gli effetti sociali dell’infortunistica sul lavoro intervenendo nella fase del rapporto di lavoro in relazione agli obblighi che a ciascuno degli attori competono), pur passandosi da quello che è stato definito un “modello di tutela eteroimposta ad un modello ‘mediato’ di autotutela, fondato sull’apporto partecipativo di ciascun lavoratore”[12], viene confermato il ruolo primario della responsabilità del datore di lavoro, in  quanto detentore –ai sensi della normativa costituzionale (art. 41) in conformità alle previsioni civilistiche (artt. 2082 e 2555)- del potere di organizzazione dell’impresa, del potere direttivo e dei mezzi economici, anche se la normativa interviene a definire la posizione di datore di lavoro (art. 2, D.Lgs. 626/94), con attenzione alla realtà organizzativa dell’impresa moderna, dedicando una previsione specifica alla possibilità di delega delle funzioni inerenti la sicurezza sul lavoro (art. 1, comma 4-ter D.Lgs. 626/94)[13]. Questa è una lettura, diciamo, semplice (non nell’accezione di semplicistica, ma di non integrata) del fenomeno. La prospettiva può complicarsi molto, quando si vada a considerare l’evoluzione dell’ordinamento seguente all’implementazione delle deleghe normative contenute nell’art. 11 della legge n. 300 del 29 settembre 2000, il quale, nel ratificare e recepire nell’ordinamento italiano svariate normative e convenzioni internazionali, ha demandato al Governo l’emanazione di legislazione delegata per introdurre responsabilità amministrative (anche se in realtà si discute di vere e proprie responsabilità penali[14], superando il principio societas delinquere non potest) delle persone giuridiche e degli enti in alcune materie; nell’ambito di esse vi era anche la materia della sicurezza sul lavoro. Ed il quadro assume contorni, agli occhi di chi scrive, abbastanza ben definiti quando si considera l’evoluzione della l.n. 675/96 in Codice della Privacy (a seguito del D.Lgs. n. 196/2003) e l’integrarsi dei tre (per quanto riguarda gli aspetti di rilievo per il rapporto di lavoro) ordinamenti normativi a seguito degli interventi su pedofilia (l.n. 228/2003), sicurezza sul lavoro (l.n.123/2007) e l’ultimo recentissimo intervento in corso di emanazione dopo l’approvazione (il 27 febbraio 2008) al Senato sul c.d. Cybercrime. Tutte queste normative, che si fondano sostanzialmente (semplice provarlo si pensi a: Documento programmatico sulla sicurezza nel trattamento dei dati, Documento di valutazione del rischio nella antinfortunistica, Modelli organizzativi nella responsabilità degli enti) sulla capacità valutativa da parte dell’imprenditore-organizzatore dei mezzi per la produzione (artt. 2083, 2086, 2104, 2555 del cod. civ.), al fine di identificare i rischi che la sua attività apporta a determinati beni (riservatezza, salute, economia di mercato, ambiente, ecc.), si integrano in una iper-normativa (il D.lgs. 231/2001) che sancisce la responsabilità anche dell’organizzazione come tale (cioè del soggetto giuridico risultante dall’attività di organizzazione prevista dal codice civile) se essa non si è data una strutturazione tale da impedire l’accadimento di determinati fatti (di reato) che l’ordinamento identifica come da evitare e demanda all’ente l’obbligo di evitare. In sostanza, mi pare difficile non leggere in questo una scelta (abbastanza chiara) per intraprendere la Via della Responsabilità Sociale dell’Impresa: è l’organizzazione che risponde per non avere assunto un modello di  strutturazione idoneo all’interno della collettività (e qui si badi non si tratta solo di quella italiana, ma di quella europea, quindi con un ambito di effettività che assicura una coerenza competitiva su un mercato ampio, addirittura al di là dei riferimenti dell’art. 41 Cost. ed in linea con il Trattato istitutivo) a sorvegliare sugli abusi che i soggetti per essa agenti (singolarmente e specificamente punibili aggiuntivamente) possono avere compiuto. C’è in sostanza –in linea con quelli che abbiamo visto essere i fondamenti concettuali della CSR- una delega all’organizzazione (impresa), tramite la sua gerarchia, del potere di sorveglianza dello Stato, del cui corretto esercizio l’organizzazione risponde sostanzialmente con la sua “attività personale” (tale è l’effetto delle sanzioni interdittive dell’attività: cfr. infra). Se si legge il fenomeno macro, nel complesso del contesto economico, sociale, giuridico, non si può non riconoscere in questo la consapevolezza che la mobilità, e ampiezza dei mercati (cioè del contesto specifico su cui agisce in gran parte la normativa considerata) ha determinato il legislatore (sopranazionale europeo, che ne ha maggiore consapevolezza) a delegare al soggetto che agisce nel (e sul) mercato la responsabilità per la tutela dei soggetti su cui il mercato globalizzato (di fatto) prevale: cittadini, subfornitori, concorrenti, mercati finanziari, consumatori, lavoratori, ordinamenti statali (che, sul piano della corruttibilità si sono scoperti/dichiarati negli ultimi decenni debolissimi e, per questa via, influenzabili), ecc.. E il quadro della lettura è completo, se si considera che la gran parte dell’efficiacia di queste norme è (nella stessa logica della Sarbanes Oxley[15]) extraterritoriale, cioè arroga una potestà punitiva anche se il fatto da punire ecceda i confini dello stato (e quindi della normale, tradizionale area di efficacia ed effettività della norma).
 
4. Gli emendamenti alla normativa italiana sulla Responsabilità Amministrativa degli enti. Cenni. Vale la pena di dedicare ancora qualche spazio a illustrare la normativa (D.lgs. 231/2001) ed i problemi che l’ultimo intervento (quello appunto in tema di sicurezza sul lavoro: l.n. 123/2007) in linea di principio solleva. Molto in sintesi, e salva qualche precisazione più analitica che segue, la normativa delegata di attuazione si struttura secondo un criterio che impone all’impresa di adottare un efficace modello organizzativo, assistito da un sistema di regolamenti idonei, nell’attribuzione di regole di comportamento specifiche (Codici Etici), a prevenire la commissione dei reati che la normativa individua, con uno specifico, dovuto, presidio autarchico di controllo e disciplinare. L’efficacia ed effettività del modello e della sua attuazione concreta condiziona la possibilità dell’impresa di sottrarsi all’applicazione del sistema sanzionatorio penale/amministrativo. Ragioni di gradualità nell’introdurre questa tipologia di normative e resistenze di alcuni dei soggetti interessati fecero sì (nel 2000) che la normativa delegata (D.Lgs. n. 231/2001) non si occupasse da subito anche dei reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio e di quelli legati all’infortunistica sul lavoro[16]. Il quadro della rilevanza della normativa richiede anche qualche cenno alle modifiche che il D.Lgs. n.6 del 2003 ha apportato al codice civile, nel rifomare il diritto societario. In particolare qui rilevano da un lato le previsioni che –con riferimento alle società per azioni- attribuiscono la gestione dell'impresa “esclusivamente” agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale (art. 2380bis c.c.) e dall’altro le previsioni (art. 2381 c.c.) che prevedono la delegabilità -se lo statuto o l'assemblea lo consentono- delle attribuzioni del consiglio di amministrazione ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti. Il consiglio di amministrazione “determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute valuta l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”. Gli organi delegati hanno dunque la responsabilità di curare che l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa e riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale. Gli amministratori sono poi tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società. Si tratta di previsioni penetranti anche ai fini della valutazione della struttura che l’impresa può assumere per l’adempimento degli obblighi relativi alla prevenzione ed alla sicurezza sul lavoro, ed ovviamente rilevanti ai fini dell’apprezzamento della funzionalità della struttura organizzativa delineata dal D.Lgs. 231/2001 come obbligo normativo indispensabile per sottrarre l’organizzazione-impresa alle sue censure.
 
4.1 Nella sua dichiarazione di principio “il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1 co. 1° D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231)[17] è racchiuso uno dei tre capisaldi sui quali si regge l’intero sistema: la responsabilità dell’ente sorge se ed in quanto (i) nel suo interesse o a suo vantaggio (ii) sia stato commesso un fatto di reato (iii) da parte di una persona fisica legata all’ente stesso da un rapporto funzionale meglio definito sub art. 5 co. 1 lett. a) e b) D.Lgs. n. 231/01 ([18]). La sussistenza di una fattispecie di reato (commessa da un soggetto tra quelli individuati dalla normativa: artt. 1228 e 2049 cod. civ., nell’interesse dell’ente ed a suo vantaggio) costituisce, dunque, condizione necessaria – sia pur non sufficiente – per l’imputazione della responsabilità in capo all’ente ai sensi del D.lgs. n. 231/01. L’esigenza, tuttavia, di circoscrivere l’area di tale responsabilità ha indotto il legislatore ad enucleare, nel vastissimo ambito delle condotte penalmente rilevanti previste dall’ordinamento, una precisa gamma di fattispecie di reato in relazione alle quali, soltanto, si è ritenuto opportuno ascrivere una responsabilità “personale” in capo all’ente ulteriore ed autonoma rispetto a quella “personale” dell’imputato[19]. Tale preciso scopo viene assolto dalla sezione III del capo I del D.lgs. n. 231/01 (artt. 24-26), così come oggi si presenta a seguito delle integrazioni apportate dagli interventi legislativi che si sono succeduti dopo l’entrata in vigore del decreto ed è quella su cui è intervenuta la l.n. 123/2007 (e su cui nuovamente interviene la recentissima disciplina in corso di definizione sul Cybercrime). Ne deriva, dunque, che una condotta penalmente illecita ma non riconducibile ad una delle fattispecie di reato indicate dal decreto (il cui novero, come abbiamo visto, è peraltro destinato ad ampliarsi), benché serbata nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di uno dei soggetti di cui all’art. 5 D.lgs. n. 231/01, non determina l’insorgere in capo al medesimo di alcuna responsabilità amministrativa ([20]). Ciò, del resto, è conseguenza di quanto espressamente affermato dall’art. 2 del decreto che, sotto la rubrica “Principio di legalità”, prevede: “L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto”. La sottrazione alla responsabilità presuppone dunque (la consapevolezza di) un antecedente normativo (il fatto da prevenire: cioè il reato che sia nel novero di quelli previsti dalla legge), una consapevolezza dei punti deboli dell’organizzazione rispetto a tale rischio (normativo) in considerazione dell’attività tipica svolta (c.d. “mappatura dei rischi”). La conseguente concezione e predisposizione di un modello organizzativo che attraverso l’esercizio dei poteri di organizzazione, direzione e controllo (artt. 2086, 2104, 2106) strutturi l’attività dell’impresa in modo da rispettare i vincoli legali dell’azione d’impresa. Senza approfondire, l’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore delegato per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (cfr. art. 9 comma 1 del D.lgs. n. 231/01) prevede quattro tipi di sanzioni: sanzioni amministrative pecuniarie; sanzioni interdittive; la confisca; la pubblicazione della sentenza. Nella definizione di concetti rilevanti, può essere interessante notare che, all’interno della cornice individuata dalla legge, il giudice è chiamato, a norma di quanto stabilito dall’art.11 D.lgs. n. 231/01, a commisurare la sanzione pecuniaria al caso specifico, determinando il numero delle quote (su cui si basa il meccanismo della sanzione economica) da applicare in concreto, tenuto conto della gravità del fatto, del grado di responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenire la commissione di ulteriori illeciti. Anche l’importo da attribuire a ciascuna quota è fissato dal giudice sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, allo scopo di graduare la sanzione al caso di specie e di assicurarne la massima efficacia specialpreventiva (logica che non può non richiamare quella d’oltreatlantico relativa ai c.d. punitive damages[21] e che pare confermare la chiave di lettura proposta). Molto più efficientemente afflittivo è il regime delle sanzioni interdittive che non si applicano ad ogni illecito amministrativo dipendente da reato ma soltanto in relazione ad alcune fattispecie espressamente indicate dalle legge (cfr. art. 9 citato).  
4.2 Con la legge n. 123/2007[22], tra altri penetranti interventi, il legislatore ha introdotto una modifica al D.Lgs. 231/2001, -art. 25-septies – che prevede l’irrogazione di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote nel caso di violazione delle norme antinfortunistiche  e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro con conseguente commissione dei delitti di omicidio colposo  e lesioni gravi o gravissime (artt. 589 e 590 cod.pen.)[23]. La disposizione è di fondamentale importanza poiché, a fianco della personale responsabilità penale del datore di lavoro (e dirigenti e preposti con poteri di direzione e sorveglianza) già prevista dal D.lgs 626/94 conseguente alla violazione di norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, sussiste ora una concorrente responsabilità dell’ente qualora la violazione delle norme (sulla sicurezza, tutela dell’igiene e salute sul lavoro) determini i reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime.  In altre parole, in caso di commissione dei reati indicati, la responsabilità non è più limitata alla sola persona fisica ritenuta responsabile quale datore di lavoro (inteso ai sensi dell’art. 2 d.lgs 626/94 quale soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa ha la responsabilità della stessa o dell’unità produttiva), dirigenti o preposti con funzioni direttive, ma  anche alla stessa impresa quale ente giuridico. La sanzione prevista (e non ne è chiaro il perché) è solo di natura pecuniaria e non interdittiva, come negli altri casi previsti dalla L. 231/2001. La norma ha sollevato problemi giuridici rilevanti (che sono discussi in ambito soprattutto penalistico ed alla base di proposte di emendamento[24]) derivanti dalla natura colposa dei reati che si vorrebbe prevenire, mentre la complessiva struttura sin’ora era stata specificamente diretta a prevenire reati dolosi, rispetto ai quali è facile comprendere come il funzionamento dei modelli organizzativi avesse uno scopo specifico (mi organizzo in modo da evitare l’atto elettivo, e se provo che ho fatto tutto quanto ragionevolmente prevedibile, sono esentato dalla responsabilità: meccanismo che rasenta invece la responsabilità oggettiva quando il reato da prevenire è già colposo; una sorta di meta-colpa). Insomma, i problemi sollevati dalla normazione agostana sono molteplici ed estremamente rilevanti, ma rispetto alle riflessioni che abbiamo introdotto e che vogliamo fare è evidentente che l’ingresso della infortunistica sul lavoro nello schema di disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 finisce per sancire definitivamente un nuovo fondamento della Responsabilità Organizzativa dell’impresa, che si articola variamente, ma la cui rilevanza è indiscutibile, essendo –suo malgrado- divenuta il centro dei sistemi di responsabilità prevenzionale degli obblighi (di attività etica e compatibile socialmente) dell’impresa per la sua azione economica all’interno dei mercati dell’europa comunitaria.
 
5.  Considerazioni conclusive: Modelli di Organizzazione e organizzazione del lavoro
Ciò di cui abbiamo parlato sin qui è l’esistente. Quello su cui i giuristi interverranno nel tempo che seguirà, secondo lo schema proprio (ma –a mio parere- forse non più solo adeguato) dell’attività del giurista: studiare la legge data (ma la capacità –obbiettiva- anche di comprendere il contesto, è oggi requisito indispensabile per il giurista, se vuole fornire un apporto reale all’interpretazione delle norme). Occorrono però alcune riflessioni conclusive. La logica della normativa, divenuta ormai (potremmo dire) Il Codice della responsabilità dell’impresa (l’iper-norma che funge da norma di chiusura dando un senso complessivo al sistema), è tutta incentrata sull’imposizione di una attività positiva all’impresa: lo studio della propria organizzazione in funzione di strutturazione di essa al fine di esteriorizzazione di un organizzazione verificabile nel suo “orientamento etico”, cioè conforme al raggiungimento dei meta-scopi che l’ordinamento (comunitario) assegna e delega ad essa come dovuti per l’esplicazione di una azione di impresa compatibile con le scelte sociali dello sviluppo economico della Comunità. Il Modello Organizzativo (attraverso codici etici, policy, sistemi di presidio disciplinare funzionali al rispetto ed alla verifica del rispetto di essi) è il cuore della normativa. Esso diviene il metro di valutazione della capacità dell’impresa di agire: in questo senso è, all’interno del sistema normativo così concepito (e con la relatività che ciò impone all’utilizzo del concetto), etico, cioè è il “dover essere” dell’impresa[25]. Se così è però, l’inserimento nella normativa della generica previsione antinfortunistica sui reati colposi, forse deve indurre (gli studiosi giuslavoristici) a porsi il quesito di quale possa divenire la funzione del Modello Organizzativo. E’ cioè sufficiente una integrazione tra Documento di valutazione del rischio e Modello organizzativo o il Modello Organizzativo deve anche essere un quid pluris? Alcuni, evoluti, gruppi internazionali hanno fondato su queste indicazioni di massima scelte organizzative moderne. Scelte di formazione e promozione delle risorse umane integrate ed integranti linee debite di comportamento, supplenti alle (gravi carenze delle) mere linee sociali di relazione. Le scelte di c.d. corporate compliance divengono strumenti di eticizzazione delle relazioni (umane) aziendali e finiscono per diventare strumenti di educazione della popolazione lavoratrice. Una sorta di (senza accezioni politiche, del resto del tutto estranee al contesto) rifondazione delle relazioni in funzione della necessità di attrezzare una collettività per un futuro complesso, in cui la capacità del singolo –come unità di base sia della collettività impresa, sia della collettività società-  di relazionarsi correttamente e non cedendo alle (più semplici, ma nefaste) tentazioni della sopraffazione competitiva, sia la scelta per l’educazione ad una competizione, anche economica, sostenibile e non traumatica. Insomma, forse la Responsabilità Organizzativa dell’impresa e la sua complessità racchiude anche un grande potenzialità di innovazione. Ai giuristi resta il compito di approfondire le potenzialità della normativa; ricordando che l’ottimismo nasce dalla cultura, dal continuo studio, libero, aperto e critico, si generano le idee e che le idee sono il solo patrimonio che –essendo insostituibile, ma condivisibile- può fondare l’evoluzione della società europea, alla quale inscindibilmente ormai apparteniamo e della quale condivideremo, che ci piaccia o meno, le sorti.    
 

[1] Cfr. Scott, Le regioni dell’economia mondiale. Produzione, competizione e politica nell’era della globalizzazione, Bologna, 2001, 19 e segg.. Cfr. Baldassarre,  Globalizzazione contro democrazia, Bari, 2002, 11 e seg.. Cfr. l’analisi di Galgano, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contratto ed Impresa, 2000, 189 e seg.,

[2] Cfr G. W. Florkowski Managing Global Legal Systems: International Employment Regulation and Competitive Advantage http://www.amazon.com/Managing-Global-Legal-Systems-International/dp/B000PUB7M0, è cioè divenuto possibile oggi gestire l’impresa multinazionale, orientandone localizzazione e investimenti anche a seconda di ciò che le varie giurisdizioni hanno da offrire in tema di convenienza nella regolamentazione giuridica di specifico rilievo (lavoro, antitrust, diritti di proprietà intellettuale, fiscale, ecc.).

[3]  Ovviamente per la nozione si richiama il fondamento: cfr. Bobbio, Teoria della norma giuridica e Teoria dell’ordinamento Giuridico, Milano, 1958-1960.

[4]  Il riconoscimento precettivo delle decisioni di queste corti anche all’interno dell’ordinamento nazionale e dei rapporti giuridici è dato acquisito: cfr. es. CGE C. LUCCHINI, 18.7.2007, CORRIERE GIURIDICO IPSOA, 1221; Cass. n.7923/2005, GC 2005, I, 2322.

[5]  Non c’è lo spazio di una riflessione su questo punto, del resto già fatta e rintracciabile in rete in Stanchi: L'utilizzo della Radio Frequency Identification (RFid) e le implicazioni giuslavoristiche anche in http://dielle.leonardo.it/Default.aspx?tabid=922.

[6]  Cfr. R. Edward Freeman nel suo saggio "Strategic Management: a Stakeholder Approach", Pitman, London 1984. [7]  Cfr. la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale Europeo - Il partenariato per la crescita e l’occupazione : fare dell’europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese. http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:52006DC0136:IT:NOT

[8]  Si tratta di una norma emanata dallaSocial Accountability International (SAI), organizzazione internazionale nata nel 1997, per assicurare nelle aziende eque condizioni di lavoro, un approvvigionamento etico di risorse ed un processo indipendente di controllo per la tutela dei lavoratori: lo standard SA 8000 (Social Accountability ovvero Responsabilità Sociale) è il primo standard diffuso a livello internazionale circa la responsabilità sociale di un’azienda ed applicabile ad aziende di qualsiasi settore merceologico, per valutare l’ottemperanza delle stesse ai requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali. In particolare, lo standard prevede otto requisiti specifici collegati ai principali diritti umani ed un requisito relativo al sistema di gestione della responsabilità sociale in azienda. Gli otto requisiti vertono su tematiche fondamentali, a livello internazionale, in materia di diritto del lavoro quali lavoro infantile, lavoro forzato, salute e sicurezza, libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva, discriminazione, pratiche disciplinari, orario di lavoro, remunerazione. Nella fattispecie, la conformità ai predetti requisiti si concretizza nella certificazione rilasciata da un Organismo indipendente volta a dimostrare la conformità dell’azienda ai requisiti di responsabilità sociale della norma, attraverso un meccanismo analogo a quello dei sistemi di gestione per la qualità ISO 9000 e per l’ambiente ISO 14000.

[9]  Si tratterebbe di una norma di standard elaborata sulla base delle considerazioni del Comitato economico e sociale europeo (CESE) secondo il parere sul tema "strumenti di misura e di informazione sulla responsabilità sociale delle imprese in un’economia globalizzata" per cui la CSR dovrebbe divenire la via planetaria allo sviluppo sostenibile, e i suoi strumenti di misura dovranno rispondere a requisiti di coerenza, pertinenza ed affidabilità, attraverso un approccio universalistico, ma rispettoso della diversità .

[10]  Anche qui il disegno è chiaramente rintracciabile nelle affermazioni del Parere?del Comitato economico e sociale europeo  ?sul tema  ?Sfide e opportunità per l'Unione europea nel contesto della globalizzazione, del 31 maggio 2007:

http://eescopinions.eesc.europa.eu/EESCopinionDocument.aspx?identifier=ces%5Crex%5Crex228%5Cces804-2007_ac.doc&language=IT .

[11]  Cfr. es. art. 4 del D.p.r. n. 547/55 e art. 4 del D.p.r. n. 303/56: cfr. per tutti Culotta, Obblighi prevenzionali del datore di lavoro e facoltà di delega a dirigenti e preposti nel quadro della nuova normativa di derivazione comunitaria, in D&L 1995, 253).

[12]  Cfr. Sciortino, Sicurezza sul lavoro e delega di funzioni prevenzionistiche alla luce del D.LGS.n. 626/94, in RIDL 2003, I, 359 e seg.. Esiste infatti un complesso articolato di norme che definisce specifiche responsabilità imposte dalla legge, a titolo originario, alle varie figure in cui si articola l’organizzazione: dirigenti, preposti, lavoratori: artt. 4 e 89 a 93 D.Lgs. 626/94.

[13]  Cfr. Furlan, Pistochini, Stanchi, Vallese, Sicurezza del lavoro e responsabilità dell’impresa, Inserto n.2, DPL, IPSOA, 2005, 109 sgg..

[14]  Cfr. De Maglie, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in Diritto Penale e Processo, 2001, 1348; Piergallini, Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, id. 1353; Paliero, Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi societas delinquere (et puniri) potest, in Corriere Giuridico 2001, 845 e seg..

[15]  Cfr. sul tema la guida all’url http://www.soxlaw.com/.

[16]  Cfr. Piergallini, cit.; nonché id. Responsabilità delle imprese: il decreto che “terrorizza” il ministro e la Confindustria, in www.dirittoegiustizia.it/giornale/0331017037artic.htm.

[17]  Un esame molto più esaustivo ed integrato tra gli aspetti penali, giuslavoristici, organizzativi e societari si ha in Stanchi e Furlan (a cura di) AA.VV. Responsabilità dell’impresa e potere organizzativo, Diritto e Pratica del lavoro ORO, IPSOA, n3/2005.

([18])Art. 5 D.lgs n. 231/01: “L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:

a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi”.

[19] Cfr. in Stanchi e Furlan, La Responsabilità .., cit. Pistochini e Lazzeri, Nuova responsabilità amministrativa delle società e Primi orientamenti giurisprudenziali, che approfondisce gli aspetti penalistici della disciplina, da cui sono tratte le considerazioni che seguono.

([20]) Semmai una responsabilità indiretta, ex art. 2049 c.c., per il fatto illecito del proprio dipendente ovvero altra forma di responsabilità civile indiretta.

[21]  In sintesi ed abbastanza ben strutturata, cfr. la voce Punitive Damages all’url di Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Punitive_damages.

[22]  Cfr. http://www.governoitaliano.it/GovernoInforma/Dossier/legge_sicurezza_lavoro/legge_123.pdf

[23]  Cfr. Benzi, Furlan, Stanchi, La responsabilità penale dell’impresa fa il suo ingresso nel diritto sanzionatorio del lavoro, in Quotidiano Giuridico Ipsoa, 2007.

[24]  Cfr. il lavoro della Commissione di riforma sulla normativa che va sotto il nome del responsabile, Francesco Greco: http://www.giustizia.it/commissioni_studio/commissioni/xvleg/comm_greco.htm  .

[25]  cfr. sinteticamente, il percorso Kantiano in http://www.filosofico.net/kant.htm .