Le proposte di riforma del processo del lavoro (di Mario Fezzi)

A. Premesse – B. Il processo del lavoro diventa (talvolta) processo d’urgenza – C. Il processo previdenziale – D. Riforma del tentativo di conciliazione – E. Altre modifiche – F. Considerazioni conclusive

 

A. Premesse

Chi pratica sul campo il processo del lavoro sa che, da qualche tempo, i tempi del processo si sono dilatati, e ciò anche presso alcune sezioni lavoro che tradizionalmente definivano le controversie in tempi rapidi.

La dilatazione dei tempi ha sicuramente un primo, importante impatto negativo sulla parte (normalmente il lavoratore) che chiede tutela ai propri diritti, perché la tutela giungerà solo dopo lungo tempo e, talvolta, quando il rapporto di lavoro ha subito mutamenti, a fronte dei quali la sentenza, per quanto favorevole, diventa inutile. Non si può pensare però che il datore di lavoro sia del tutto indifferente a questa situazione: si pensi al caso di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento che, dopo anni dal fatto, condanni il datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni arretrate: è evidente che una simile situazione comporta per il datore di lavoro un costo ingente, che un processo definito in tempi normali avrebbe evitato.

Ma anche l’operatore del processo (l’avvocato, ma anche il giudice) ha motivo di dolersi di questa situazione, e non solo perché le pratiche giacciono per periodi sempre più lunghi sulla propria scrivania. Il fatto è che il rinvio a un anno, per esempio, per la discussione fa perdere all’operatore del processo il diretto contatto con la problematica; soprattutto, in questo modo la causa viene spersonalizzata ed è inevitabilmente destinata a ridursi a mera questione giuridica, quasi che dietro quella questione non ci fossero persone che per quella situazione patiscono.

 

Per motivi simili a quelli appena indicati, qualsiasi tentativo di snellire il processo del lavoro deve essere giudicato positivamente, quanto meno nel senso che l’obiettivo è certamente condivisibile. Ciò però non toglie che, condiviso l’obiettivo, sia anche sempre e necessariamente condivisibile il percorso scelto per raggiungerlo.

 

Per questo motivo è tanto più opportuno analizzare i progetti di riforma, attualmente allo studio del Parlamento e all’onore delle cronache, che ipotizzano nuove regole per il processo del lavoro, con l’intento – appunto – di renderlo più veloce. Si tratta in particolare del disegno di legge n. 1047, d’iniziativa di alcuni senatori (tra cui Salvi e Treu), nonché del Progetto Foglia realizzato dalla Commissione per lo Studio e la Revisione della Normativa Processuale del Lavoro, istituita con DM 28/11/06 e presieduta da Raffaele Foglia.

 

I due progetti di riforma, sebbene con alcune differenziazioni, tendono al segnalato obiettivo di velocizzare il processo del lavoro attraverso le seguenti linee guida:

  • sostituzione (limitatamente ad alcune categorie di controversie) dell’ordinario processo di cognizione con una sorta di processo cautelare;
  • modifica del processo previdenziale;
  • modifica del tentativo di conciliazione.
B. Il processo del lavoro diventa (talvolta) processo d'urgenza

Come si è detto, dunque, la prima linea guida consiste nel rendere cautelare il processo di cognizione ordinaria o, almeno, il primo grado di esso. Questa trasformazione in realtà non interessa tutte le controversie di lavoro, ma solamente le seguenti, per le quali diventa anche superfluo il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione:

 

Ø      licenziamenti;

 

Ø      qualificazione del rapporto di lavoro (per esempio, accertamento della natura subordinata del rapporto, accertamento della instaurazione del rapporto in capo all’utilizzatore), ma solo se questo accertamento costituisce il presupposto dell’accertamento della legittimità del licenziamento;

 

Ø      legittimità di apposizione del termine al contratto (qui bisogna subito segnalare una prima differenza tra le due proposte di cui si parla: infatti, mentre il disegno di legge n. 1047 considera l’ipotesi in questione solo se costituisce il presupposto per l’accertamento della legittimità del licenziamento, il Progetto Foglia contempla questa come ipotesi autonoma e senza alcuna condizione, con la conseguenza che la nuova procedura sarebbe applicabile anche in corso di rapporto);

 

Ø      i trasferimenti ex artt. 2103 c.c. e 2112 c.c.;

 

Ø      il disegno di legge n. 1047 contempla anche il caso del recesso del committente dai rapporti di parasubordinazione ex art. 409 c. 1 n. 3 cpc, nonché dalle collaborazioni a progetto di cui all’art. 61 e ss. D. Lgs. 276/03 (limitatamente ai casi in cui il recesso avvenga per motivi diversi dalla realizzazione del progetto, dalla giusta causa o dal verificarsi del motivo di recesso contemplato nel contratto). Poiché – come si è visto – il licenziamento porta sempre al processo d’urgenza, anche quando abbia come presupposto la qualificazione del rapporto, si deve ritenere che l’ipotesi di cui si sta parlando ora riguardi i casi in cui oggetto della contestazione non sia la qualificazione del rapporto, ma solo il recesso da un rapporto pacificamente autonomo.

 

Solo apparentemente i due progetti di riforma contemplano sostanzialmente le stesse controversie. Infatti, il Progetto Foglia, a differenza del disegno di legge n. 1047, limita il ricorso alla procedura sommaria, nell’ambito dei casi contemplati, solo ai rapporti di lavoro soggetti alla disciplina di cui all’art. 18 S.L.. Si tratta di una limitazione comprensibile con riguardo alle cause relative al licenziamento, perché in questo caso solo la tutela reale giustifica un procedimento di tipo cautelare; al contrario, con riferimento alle rimanente ipotesi, l’esclusione dei rapporti di lavoro assistiti da tutela meramente obbligatoria è incomprensibile.

 

Altra importante differenza tra i due progetti di riforma riguarda il carattere, obbligatorio o facoltativo, del nuovo rito d’urgenza. Infatti, mentre il disegno di legge n. 1047 dispone l’obbligatorietà del nuovo rito (tanto che il giudice, se adito per una delle menzionate questione con le forme ordinarie, dispone con ordinanza che la causa proceda con le forme d’urgenza descritte dal progetto), il Progetto Foglia lascia alle parti la possibilità di agire, in alternativa, secondo le ordinarie forme di cui agli artt. 414 e ss. cpc. Resta in questo caso da comprendere, anche perché il Progetto Foglia non lo prevede, cosa accadrebbe qualora il datore di lavoro agisse in via ordinaria per chiedere l’accertamento della legittimità del licenziamento e, contestualmente, il lavoratore agisse con il rito speciale formulando la domanda simmetrica. Trattandosi di due procedure differenti, è difficile ipotizzare la loro riunione; più probabilmente, si dovrebbe sospendere il procedimento ordinario in attesa che si definisca quello sommario, peraltro con il rischio di giudicati contrastanti. E’ pertanto auspicabile che il punto venisse chiarito.

 

I due progetti disciplinano invece in maniera sostanzialmente identica il primo grado del procedimento. Infatti, viene stabilito che il giudice, convocate le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede all’istruzione della causa nel modo che ritiene più opportuno, infine accogliendo o rigettando la domanda con ordinanza. Sulla scorta di questa formulazione si deve ritenere che, in questa fase del processo, non vi siano preclusioni relative al deposito dei documenti e alle richieste istruttorie, in quanto si tratta di questioni non strettamente attinenti alla regolarità del contraddittorio. In ogni caso, la peculiarità del procedimento dovrebbe emergere in sede istruttoria, giacché il giudice potrebbe ritenere più opportuno istruire la causa sommariamente, magari esaminando i testimoni senza il vincolo del giuramento. In ogni caso, restando in tema di istruzione della causa, entrambi i progetti precisano opportunamente che grava sul datore di lavoro l’onere di provare il numero dei dipendenti.

 

Norme particolari sono previste nel caso di ordinanza di reintegrazione. In questo caso, il giudice deve anche stabilire l’importo dovuto dal datore di lavoro in ipotesi di ritardata reintegrazione, da un minimo di due a un massimo di quattro retribuzioni globali di fatto giornaliere per ogni giorno di ritardo, tenuto conto delle dimensioni dell’organizzazione produttiva. Al riguardo, il Progetto Foglia introduce limitazioni non previste nel progetto n. 1047: infatti, il primo dispone che la somma in questione è dovuta solo a decorrere dal decimo giorno dalla messa a disposizione delle energie lavorative, prevedendo altresì che, in caso di riforma dell’ordine di reintegrazione, il lavoratore è tenuto a restituire l’importo di cui si parla (il progetto n. 1047 prevede invece l’irripetibilità dell’importo). Quest’ultima in particolare è una scelta discutibile, dal momento che all’evidenza incentiva la non ottemperanza all’ordine di reintegrazione, nella speranza di ottenerne la riforma.

 

I due progetti si differenziano anche con riguardo ai mezzi di impugnazione contro l’ordinanza che definisce la prima fase del procedimento di cui si parla. Infatti, il disegno di legge n. 1047 prevede il ricorso alla sezione lavoro della Corte d’appello, nelle forme di cui all’art. 414 e ss. cpc, e ciò nel termine – previsto a pena di decadenza – di 30 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza alle parti.

 

Invece, il Progetto Foglia prevede che, nel termine di 15 giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione, l’ordinanza è reclamabile avanti il Tribunale in composizione collegiale, che tratterà la causa con le forme già descritte per la prima fase del procedimento di cui si parla. L’ordinanza del collegio è opponibile entro 30 giorni innanzi alla Corte d’appello, nelle forme di cui agli artt. 414 e ss. cpc. In ogni caso, l’ordinanza non reclamata avanti il Collegio o non opposta avanti la Corte d’appello è destinata a diventare definitiva.

 

Come si vede, entrambi i progetti di legge spostano in grado d’appello il processo del lavoro a cognizione piena.

 

In ogni caso, entrambi i progetti stabiliscono in maniera sostanzialmente identica la priorità del procedimento in questione, che deve essere trattato dal giudice con priorità, con la sola eccezione dei procedimenti cautelari e del procedimento per repressione della condotta antisindacale.

 

I due progetti di riforma apportano anche modifiche alla disciplina sostanziale del licenziamento. Quella che ha sicuramente maggiori ripercussioni sul processo riguarda l’abrogazione della impugnazione, anche stragiudiziale, del licenziamento, nel termine di 60 giorni ex art. 6 L. 604/66: si dispone infatti che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, nel termine di 120 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi non contestuali, mediante ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il Progetto Foglia precisa anche che il termine in questione decorre da ogni altro atto o fatto che manifesti l’inequivoca intenzione del datore di lavoro di porre termine al rapporto.

 

A prescindere da quest’ultima precisazione, dagli esiti imprevedibili (cosa succede se il datore di lavoro prova di aver anticipato a voce la sua intenzione di licenziare? e se il licenziamento non avviene nel termine di 120 giorni, il lavoratore deve ugualmente depositare il ricorso? e, in caso positivo, cosa impugna e, soprattutto, sulla scorta di quali motivazioni?), si vede che i progetti di riforma, se da un lato prorogano il termine di impugnazione anche stragiudiziale, dall’altra comprimono in maniera decisamente eccessiva i termini entro cui esercitare l’azione giudiziaria, introducendo il rischio che l’azione diventi, se non tardiva, quanto meno affrettata.

 

L’altra modifica, di minor impatto processuale, è la riforma della nozione di licenziamento discriminatorio ex art. 3 L. 108/90: infatti, ai casi già previsti dalla norma (artt. 4 L. 604/66 e 15 S.L.), viene aggiunta anche l’ipotesi contemplata dall’art. 54 D. Lgs. 151/01 (licenziamento della lavoratrice madre). Restano ferme la nullità del provvedimento (con applicazione delle conseguenze ex art. 18 S.L., a prescindere dal numero dei dipendenti) e l’applicabilità ai dirigenti.

 

Il disegno di legge n. 1047 prevede anche esplicitamente l’applicabilità della procedura ex art. 7 S.L. in caso di licenziamento disciplinare, attualmente fondata solo su un orientamento giurisprudenziale, per quanto ormai pacifico.

 C. Il processo prevdenziale

Entrambi i progetti di riforma si propongono di intervenire, modificandolo, anche sul processo previdenziale. La prima novità riguarda le cause definite, da entrambi, seriali: si tratta di controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie aventi a oggetto analoghe questioni e riguardanti, anche solo potenzialmente, un numero consistente di soggetti. In questo caso, le amministrazioni interessate devono informare i Ministeri competenti, promuovendo incontri anche con gli istituti di patronato che hanno fornito assistenza nelle medesime controversie, e ciò al fine di chiarire gli aspetti delle questioni in discussione, individuando se possibile ipotesi risolutive. In attesa di questi incontri, il giudice può – su istanza di parte – rinviare la trattazione della causa. Come si vede, si tratta di una riforma che, più che snellire il singolo processo (che, anzi, rischia di dilatarsi), mira a risolvere il contenzioso alla radice, così snellendo in prospettiva i ruoli del giudice.

 

In merito alla riforma del processo previdenziale, per il resto, i due progetti si differenziano in maniera sostanziale. Infatti, il progetto n. 1047 si limita a ipotizzare una modifica relativa alle cause previdenziali e assistenziali che presuppongano accertamenti sanitari. In questi casi, l’amministrazione competente che abbia ricevuto un ricorso, e sempre che non intenda accoglierlo, sottopone l’accertamento a un collegio medico, composto da un rappresentante dell’amministrazione, da uno del ricorrente e da un terzo nominato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Il collegio, espletati gli accertamenti medico – legali, tenta la conciliazione; in caso di esito negativo, il presidente del collegio redige una relazione medico – legale nella quale viene dato atto degli accertamenti effettuati, delle conclusioni e dei motivi di dissenso.

 

Ben più articolato è invece il progetto di riforma del processo previdenziale delineato dal Progetto Foglia che, addirittura, prevede due ipotesi, rispettivamente definite soft e forte. In ogni caso, il progetto prevede una delega al Governo per l’emanazione di norme di razionalizzazione del contenzioso amministrativo in materia previdenziale, in sintesi informato ai principi della armonizzazione e unificazione delle procedure e dei termini, nonchè della sua articolazione in unico grado. Inoltre, sono previste modifiche alle norme del cpc che disciplinano il processo previdenziale, soprattutto al fine di rendere più celere la consulenza tecnica.

 
 D. Riforma del tentativo di conciliazione

Entrambi i progetti di riforma modificano in maniera significativa il tentativo di conciliazione delle controversie di lavoro, incidendo sia sul tentativo obbligatorio ex art. 410 cpc (sostanzialmente soppresso), sia su quello da effettuarsi a opera del giudice in prima udienza (radicalmente modificato). La riforma è destinata a operare su tutte le cause di lavoro, a eccezione di quelle per cui siano stabiliti procedimenti sommari o d’urgenza e di quelle previdenziali (queste ultime, secondo il Progetto Foglia, limitatamente a quelle aventi a oggetto accertamenti sanitari). Il progetto n. 1047 prevede, tra le eccezioni, anche le controversie relative ai contratti a progetto.

 

Il nuovo tentativo di conciliazione viene disciplinato in maniera sostanzialmente simile dai due progetti. In entrambi i casi si stabilisce che le cause di lavoro, fatta eccezione per le ipotesi già segnalate, devono essere precedute dal tentativo di conciliazione. A tal fine il giudice, ricevuto il ricorso, fissa l’udienza di comparizione delle parti avanti a sé per il tentativo di conciliazione; qualora egli non possa trattare personalmente il tentativo di conciliazione, fissa l’udienza di comparizione delle parti avanti il conciliatore, liberamente scelto tra quelli contenuti in un apposito albo (infatti, le riforme prevedono l’istituzione, presso ogni tribunale, di un albo dei conciliatori, composto da esperti in materie giuslavoristiche). Il decreto di fissazione dell’udienza, insieme al ricorso, deve essere notificato a cura dell’attore al convenuto, che deve costituirsi almeno 10 giorni prima della data fissata per il tentativo di conciliazione, depositando memoria ex art. 416 cpc (l’eventuale domanda riconvenzionale determina lo spostamento dell’udienza).

 

Gravi conseguenze derivano dalla mancata comparizione delle parti, personalmente o a mezzo di procuratore, all’udienza in questione. Infatti, se entrambe le parti non compaiono, o non compare l’attore, viene dichiarata l’estinzione del processo (salvo il caso di assenza giustificata). Nel caso di mancata comparizione del convenuto, il giudice – su istanza di parte – può emettere un’ordinanza che disponga, in via provvisoria, il pagamento totale o parziale delle somme domandate e/o disporre ulteriori provvedimenti anticipatori della decisione di merito.

 

All’udienza di conciliazione, il giudice o il conciliatore devono svolgere un ruolo attivo al fine pervenire alla conciliazione, potendo anche avanzare proposte conciliative. Inoltre, il tentativo di conciliazione si deve svolgere in un’unica seduta, che può essere rinviata una sola volta entro un termine non superiore a 30 giorni dalla data iniziale.

 

In caso di esito positivo del tentativo, si redige il relativo verbale, che costituisce titolo esecutivo. Il solo progetto n. 1047 stabilisce che, con riferimento alle somme riconosciute a favore del lavoratore, operi un abbattimento del 50% delle aliquote previdenziali e fiscali. In ogni caso, la conciliazione deve anche disciplinare il riparto dell’indennità dovuta al conciliatore; in caso contrario, la stessa è a carico di entrambe le parti, ciascuna per la metà.

 

Nel caso in cui il tentativo di conciliazione abbia esito negativo, si redige verbale di mancata conciliazione, dove le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, quando è possibile precisando l’ammontare del credito che spetta al lavoratore (in quest’ultimo caso, e limitatamente a questo effetto, il verbale acquista efficacia di titolo esecutivo). Nel verbale, il conciliatore espone gli estremi del tentativo, le eventuali proposte indirizzate alle parti e quant’altro ritenga utile per il prosieguo del processo.

 

Nel caso in cui il tentativo si sia svolto avanti il conciliatore appositamente nominato, il verbale di mancata conciliazione viene trasmesso entro 5 giorni al giudice, che fissa con decreto l’udienza avanti a sé entro i 15 giorni successivi, attribuendo a una o a entrambe le parti il pagamento dell’indennità dovuta al conciliatore. Questo decreto deve essere notificato al convenuto rimasto contumace.

 

Il Progetto Foglia prevede anche un’ulteriore conseguenza dalla mancata conciliazione, che infatti può produrre effetti sulla liquidazione delle spese. In altre parole, se la parte vittoriosa ha irragionevolmente rifiutato una proposta conciliativa, il giudice può porre a suo carico le spese o, secondo una diversa ipotesi alternativa, può compensarle.

 

Bisogna infine segnalare che il Progetto Foglia prevede anche la radicale equiparazione del tentativo di conciliazione tra tutte controversie di lavoro, ivi comprese quelle relative al pubblico impiego, e ciò mediante la soppressione della disciplina ex art. 66 D. Lgs. 165/01. Da parte sua, il progetto n. 1047 abroga la procedura relativa all’accertamento sull’efficacia, validità e interpretazione dei contratti e accordi collettivi ex art 420 bis cpc.

 

 

 

 

 

 

E’ evidente il tentativo di sfoltire i processi mediante la tecnica del tentativo di conciliazione. Da un lato, infatti, il giudice può non dedicare il proprio tempo al tentativo di conciliazione, demandando l’incombente a un conciliatore; dall’altro lato, la riforma mira a incentivare la conciliazione, al punto da introdurre benefici fiscali (nella versione di cui al progetto n. 1047) o da prevedere conseguenze anche gravi sulle spese (nella versione del Progetto Foglia).

 

In ogni caso, entrambi i progetti tengono ferma la possibilità di tentare la conciliazione presso le sedi previste dai contratti collettivi, nonché presso le direzioni provinciali del lavoro. Inoltre, entrambe introducono la facoltà delle parti di demandare al conciliare la soluzione arbitrale della controversia (il relativo lodo può essere impugnato avanti la Corte d’appello per qualsiasi vizio, ivi compresa la violazione e la falsa applicazione di norme di legge o di contratti o accordi collettivi).

 
 E. Altre modifiche

Soprattutto il Progetto Foglia contiene altre modifiche processuali che è bene ricordare, sia pur sinteticamente:

 

Ø      modifiche al procedimento monitorio, mediante l’introduzione di un n. 4 all’art. 633 cpc per i crediti riguardanti il corrispettivo in denaro per prestazioni di lavoro autonomo, ovvero alle dipendenze di soggetti pubblici o privati (in questo caso, la domanda deve essere accompagnata da elementi atti a far presumere l’esistenza del rapporto e dal conteggio delle prestazioni, corredato dal parere del competente sindacato o associazione professionale);

 

Ø      modifica della competenza in materia di controversie tra soci lavoratori e cooperative che, secondo il progetto, devono tutte e indistintamente essere assegnate al tribunale in funzione di giudice del lavoro;

 

Ø      modifiche all’art. 420 bis cpc. Mentre, come si è già visto, il progetto n. 1047 prevede l’abrogazione della norma, il Progetto Foglia la conferma, parzialmente modificandola. In particolare, il testo proposto estende la procedura all’interpretazione di leggi che possano coinvolgere, anche solo potenzialmente,  un numero consistente di soggetti. Inoltre, nel caso in cui si verta sull’interpretazione di un contratto o di un accordo collettivo, il giudice dispone, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e osservazioni, orali o scritte, alle associazione sindacali che l’hanno sottoscritto;

 

Ø      riduzione del termine lungo per impugnare ex art. 327 cpc, ridotto della metà nel caso di controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria;

 

Ø      modifiche alla procedura fallimentare: nel caso di pretese retributive e contributive discendenti da preventivo accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il giudice delegato dispone la previa convocazione, all’udienza di verifica dei crediti, dell’istituto previdenziale che, in caso di opposizione ex art. 99 L.F., assumerà il ruolo di litisconsorte necessario;

 

Ø      modifica del procedimento per repressione della condotta antisindacale ex art. 28 S.L.: evidentemente al fine di consentire l’emersione del lavoro sommerso, è previsto infatti che il procedimento in questione si applica anche nelle ipotesi di mancata regolarizzazione contrattuale e previdenziale, non risultante da scritture o altra documentazione obbligatoria;

 

Ø      estensione del rito del lavoro al rapporto di lavoro dei detenuti con soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria;

 

Ø      modifiche in materia di atti discriminatori, mediante l’introduzione di un art. 15 bis S.L. che, con riferimento alle azioni individuali o collettive per il riconoscimento della sussistenza di atti discriminatori ex art. 15 S.L., pone sul convenuto l’onere di provare che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento, e ciò nel caso in cui il ricorrente abbia fornito elementi di fatto da quali si possa presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta;

 

Ø      modifiche in materia di decisione della causa, attraverso l’introduzione di un art. 429 bis cpc. Ai sensi di questa norma il giudice, esaurita la discussione orale, pronuncia la sentenza, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Nel caso di particolare complessità, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza. In ogni caso, la sentenza può essere motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi.

 
 F. Considerazioni conclusive

Come si diceva, se è lodevole il tentativo di snellire il processo del lavoro, riducendo tempi che talvolta sono diventati anche lunghi. Tuttavia, bisogna preliminarmente ricordare che il processo del lavoro già attualmente si fonda sui validi principi di sintesi, oralità e immediatezza, che hanno consentito per molto tempo (e talvolta tuttora consentono) di ottenere una rapida ed efficace risposta giudiziaria. Pertanto, se talvolta il processo del lavoro non funziona ciò dipende non da limiti processuali intrinseci, ma da fattori esterni quali la disorganizzazione, la carenza di organici e di strutture, l’inadeguatezza delle piante organiche, il consolidarsi di prassi difformi dal modello processuale, talvolta anche da scarsa produttività e/o professionalità di giudici e avvocati.

 

Tuttavia, sarebbe superficiale nascondersi dietro l’intrinseca validità del processo del lavoro perché, come già si diceva, i problemi ci sono, sono seri e rischiano di snaturare il processo del lavoro. Per di più, il fatto che un modello funzioni, non impedisce di apportarvi miglioramenti.

 

Ciò detto, bisogna subito segnalare che i progetti di riforma contengono qualche importante e condivisibile novità. Basti pensare alla riforma relativa al processo dei soci di cooperativa, destinata a porre definitivamente chiarezza sull’argomento. Ancora, si pensi all’estensione della procedura ex art. 28 S.L. al fine di consentire l’emersione del lavoro sommerso: è evidente che solo attribuendo legittimazione processuale in capo alle associazioni sindacali è possibile portare alla cognizione del giudice tali questioni, giacché il lavoratore direttamente interessato, di regola, tende a posticipare la questione al momento di cessazione del rapporto. Meno condivisibile, per motivi già illustrati in altra sede, è la scelta del Progetto Foglia di estendere addirittura la portata dell’art. 420 bis cpc: da questo punto di vista, è preferibile l’abrogazione secca adottata dall’altro progetto in commento.

 

Quanto alla trasformazione di alcune categorie di processo del lavoro in processo d’urgenza, qualche perplessità suscita il fatto che alcuni processi siano destinati a essere risolti, almeno in prima istanza, a cognizione non piena, così non necessariamente garantendo congrui termini a difesa e approfondite istruttorie. Da questo punto di vista, sembra preferibile il sistema ipotizzato dal Progetto Foglia che, come si è visto, lascia alla parte la facoltà di decidere, di volta in volta, se agire con il procedimento ordinario o con quello d’urgenza.

 

Criticabile appare la scelta di deferire al secondo grado la cognizione piena del giudizio: in questo modo, i problemi non si risolvono ma vengono semplicemente spostati alla fase d’appello, con l’aggravante che gli organici delle Corti non sono attualmente strutturati per far fronte alla necessità sistematica di istruire le cause. Questo problema potrebbe essere almeno attenuato se si prevedesse che, già nella fase sommaria, il giudice esamini i testimoni sotto giuramento.

 

Criticabile è anche la scelta operata dal Progetto Foglia che, come si è visto, e a differenza dell’altro progetto di riforma, sottopone l’ordinanza d’urgenza al reclamo collegiale prima che all’opposizione avanti il giudice dell’appello: in questo modo, infatti, si crea un affollamento di procedimenti davanti al giudice di primo grado, senza apprezzabili vantaggi.

 

Per concludere sulla prima linea guida della riforma, è infine criticabile (ma la questione veniva già accennata) la proposta di imporre, a pena di decadenza, l’impugnazione giudiziale del licenziamento nel termine di 120 giorni, in quanto in questo modo diventerebbe più difficile risolvere in via stragiudiziale molte controversie; inoltre, l’impugnazione giudiziale diventerebbe generalizzata, con una moltiplicazione del contenzioso, per di più impostato in fretta e male, con la conseguenza di rendere vano lo snellimento auspicato dai progetti di riforma.

 

 Quanto alle novità in tema di processo previdenziale, le stesse appaiono nel complesso condivisibili. Tuttavia, da questo punto di vista sarebbe preferibile prevedere una gestione processuale separata delle questioni previdenziali, sia per quanto riguarda gli organi decisori che i termini della procedura, e ciò almeno dove non siano coinvolti diritti sostanziali ma aspetti meramente tecnici o acclaratori (questioni mediche, differenze di interessi, eccetera).

 

Quanto agli aspetti relativi alla riforma del tentativo di conciliazione non si può mancare di accogliere positivamente la soppressione dell’attuale sistema improntato al tentativo obbligatorio di conciliazione. Infatti, il sistema attualmente vigente ha certamente fallito nell’intento deflattivo del contenzioso del lavoro, e ciò per la semplice ragione che il successo del tentativo di conciliazione presuppone la conoscenza approfondita della lite e – soprattutto – la prospettazione, ad opera del soggetto che concretamente deciderà quella lite, degli ambiti di possibile sviluppo della controversia e dei relativi rischi. Pertanto, è certamente positivo che il tentativo di conciliazione sia interamente ricondotto all’interno del processo, come pure è positivo che venga incentivata la serietà del tentativo (per esempio imponendo la presenza delle parti, o limitando i casi di rinvio, con ciò impedendo la possibilità che il tentativo di conciliazione venga artificiosamente protratto a meri fini dilatori).

 

E’ invece criticabile che la funzione di conciliatore sia assegnata, a discrezione del giudice, a un soggetto non necessariamente proveniente dalla magistratura o dall’avvocatura, potendo egli provenire anche da categorie professionali che, pur esperte in genere in questioni di lavoro, non necessariamente presentano un’approfondita conoscenza giuridica delle questioni. Non è poi condivisibile che il costo del conciliatore venga, per così dire, privatizzato, rendendolo addirittura oggetto della conciliazione, quasi che una parte dell’onere economico dello snellimento del processo debba essere sopportata dai fruitori del processo stesso. E’ anche discutibile che il rifiuto di proposte conciliative ragionevoli (in base a quali parametri?) possa avere ripercussioni sulla liquidazione delle spese, soprattutto nel caso in cui la parte vincitrice sia al contempo la parte attorea: non si capisce infatti perché chi abbia subito la lesione di un diritto, accertata dalla sentenza, debba necessariamente accontentarsi della minor somma offerta in via conciliativa.

 

 

Quanto all’abbattimento fiscale e previdenziale dell’aliquota da applicare sulle somme riconosciute ai lavoratori in sede di conciliazione, la scelta è certamente da valutarsi positivamente se vista nella prospettiva di incentivare le conciliazioni. Tuttavia, non si può mancare di segnalare la possibilità che la regola porti ad abusi, dal momento che le parti potrebbero preventivamente accordarsi di seguire questa strada al mero fine di sortire un risparmio previdenziale e fiscale. Pertanto, sarebbe stato preferibile prevedere agevolazioni collegate a situazioni oggettive (età, anzianità contributiva, altri eventi particolari), non rimesse alla discrezionalità delle parti o alla possibilità di introdurre contenziosi pretestuosi.

 

Mario Fezzi