A cosa servono le analisi (e le provocazioni) di Pietro Ichino (di Franco Scarpelli)

Nell’ambito di una recente polemica con la massima organizzazione confederale italiana, Pietro Ichino ha lamentato la disattenzione della stessa al volume sul sindacato che già da qualche mese egli aveva pubblicato (A che cosa serve il sindacato. Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino, Mondadori, 2005). Curiosamente, negli stessi giorni Alessandro Baricco sollevava una polemica contro i critici letterari che lanciano frecciate al suo ultimo romanzo senza però concedergli l’onore, quantomeno, di una stroncatura.

Io ho molto amato i primi romanzi di Baricco, e forse per questo mi sono astenuto dalla lettura dei più recenti, temendo la delusione di constatare un esaurimento della vena letteraria. Non posso dire di avere “amato” il primo libro divulgativo di Ichino (Il lavoro e il mercato, del 1996) ma, pur con mille dissensi sui contenuti, l’ho ritenuto un libro importante col quale, in quella fase del dibattito sulle riforme delle regole del lavoro, non si poteva non fare i conti. Era, quello, un libro nel quale il giurista affrontava un’inedita discussione dei temi del mercato del lavoro, rendendoli leggibili al grande pubblico al quale proponeva alcune tesi forti, tra cui quella più nota e discussa del ruolo delle regole nella produzione di distanze tra insiders e outsiders.

Confesso che anch’io non avevo letto il recente volume sul sindacato, forse perché un po’ anestetizzato dai frequenti interventi giornalistici del nostro autore, nei quali troppo spesso il rigore del giurista viene travolto dal gusto per la provocazione del polemista, che così – a mio parere, si intende - finisce per confondere il pubblico, più che aiutarlo.

L’ho letto ora, e molto attentamente, e confesso che mi ha abbastanza deluso.

C’è sempre un qualche pudore ad assumere le vesti del recensore, ma devo dire che in questa occasione mi sento particolarmente legittimato al ruolo, e credo che Ichino non possa disconoscere tale legittimazione. Non solo per il rapporto di reciproca stima che intratteniamo da tempo, ma anche perché in occasione della recente polemica che ricordavo sono stato il primo, pur dichiarandomi giurista assai vicino alla Cgil, a sostenere pubblicamente l’opportunità di un franco confronto nel merito. A quella polemica il Corriere della Sera ha dato molto risalto, ma non per caso ha enfatizzato gli elementi di dissenso, tacendo invece le voci di dialogo vicine alla stessa Cgil. Questa osservazione di contesto mi porta ad una prima riflessione, più di metodo che di merito.

Io credo che oggi, a differenza di quando scrisse Il lavoro e il mercato, Ichino stia giocando (e con lui il Corriere) non il ruolo del giurista/opinionista che contribuisce al dibattito culturale e politico, ma un ruolo direttamente politico; ciò sta avvenendo ad esempio con la finalità di condizionare (del tutto legittimamente, è ovvio) il dibattito dell’Unione sui contenuti dei programmi riformatori in materia di lavoro.

Ebbene, in questo ambito è funzionale alle tesi e alle finalità di Ichino (e del Corriere) configurare e schiacciare l’interlocutore sulle posizioni più radicali. Quello che voglio dire è che a mio parere Ichino ha oggi, per il metodo e per i contenuti, una posizione estremista (diciamo un moderatismo estremo, poco incline alla mediazione) e che per sostenere le sue tesi estreme muove da una ricostruzione spesso discutibile ed estrema dei fatti, da semplificazioni spesso errate dei termini giuridici dei problemi posti, e soprattutto delle posizioni degli interlocutori che critica. Utilizzando l’aggettivo in maniera non valutativa, all’Ichino estremista serve una Cgil estremista.

E’ a mio parere un metodo discutibile, che gli evita di confrontarsi con il panorama vasto e argomentato di posizioni più o meno radicali che si sviluppano nel campo della Cgil, del centro-sinistra così come dell’accademia progressista, e soprattutto con le tante posizioni genuinamente riformiste che si confrontano pragmaticamente con la complessità dei fenomeni, dei valori e degli interessi in campo, rifuggendo da risposte semplificanti: una complessità che invece, nelle analisi di Ichino, spesso non si coglie.

Nel volume odierno, tale metodo si svolge a partire dalla costruzione dell’analisi, con l’utilizzazione di una casistica empirica e di esempi che, a parte una loro lettura piuttosto orientata, sono rappresentativi di solo una parte, e decisamente particolare, dell’esperienza sindacale e dei conflitti nel lavoro: il caso dell’Alfa di Arese, gli scioperi nei trasporti, ecc.

Ichino si chiede a cosa serva il sindacato - come a suo tempo si era chiesto a cosa serva il diritto del lavoro - e sostanzialmente risponde: questo sindacato non serve, o cambia linea o sarebbe meglio per il Paese e gli stessi lavoratori che fosse ridimensionato. Ma ciò viene affermato costruendo un’immagine del sindacato un po’ parodistica, che trascura le esperienze negoziali di tanti settori e realtà (la stessa contrattazione decentrata di tante imprese metalmeccaniche; le esperienze più recenti di contrattazione territoriale confederale – si parla del fallimento del c.d. Patto per Milano, chissà perché attribuendone la responsabilità a chi non l’ha firmato invece che ai suoi sostenitori, e si trascurano decine di altre più significative e interessanti esperienze -; la tradizione negoziale anche a carattere “partecipativo” di alcuni settori industriali, come quelli chimico e tessile; i modelli innovativi sperimentati nella contrattazione del settore artigiano; l’esperienza degli enti bilaterali nel settore edile o di nuovo in quello artigiano, ecc.).

Insomma, l’oggetto della critica viene ricostruito e stigmatizzato un po’ secondo i propri comodi: con il che magari si fanno provocazioni più altisonanti, ma certamente non si aiuta il dialogo. Ne esce, mi scusi Ichino per la franchezza, un lavoro scarsamente attendibile e poco lineare, pieno di affermazioni indimostrate, e che dà di sé un’immagine persino più faziosa dei suoi reali contenuti.

Tra questi ultimi, si intende, compaiono anche valutazioni e proposte non prive di interesse, come quella in materia di regole della rappresentanza, che è una soluzione possibile di un tema ormai eterno del nostro dibattito, anche se forse troppo rigida e condizionata dalla pretesa di porsi come valida per ogni contesto (e con un altro grande limite, cui accennerò tra breve).

Le tesi di fondo e le proposte del volume si collocano, lo riconosce lo stesso Ichino, prima di tutto sul piano della politica sindacale. Qui il contributo tecnico del giurista passa in secondo piano, la riforma di legge è prevista come possibile ma non indispensabile, la polemica è tutta sulle politiche contrattuali. E dunque, su questo piano, Ichino non può sottrarsi alle conseguenze politiche delle sue posizioni, né lamentarsi troppo delle reazioni politiche, anche forti, che solleva.

Ichino ci dice che per favorire importanti operazioni imprenditoriali - ad esempio una scelta di insediamento industriale nel nostro territorio di una grande impresa estera - il sindacato dovrebbe essere disponibile alla scommessa, rinunciando in parte alle garanzie del contratto nazionale per realizzare più interessanti risultati per i lavoratori nel medio periodo. La proposta può avere un suo interesse, anche se, francamente, appare frutto di una semplificazione piuttosto brutale del problema. Essa si fonda sull’idea che il costo del lavoro definito dai contratti nazionali di categoria sia l’ostacolo principale alle scommesse produttive, mentre trascura il rilievo che in decisioni come quelle di una Nissan assumono le politiche pubbliche e fiscali, la condizione delle infrastrutture, ecc..

E tuttavia: quando si afferma che il salario definito a livello nazionale rappresenta un ingombro, “una porzione molto elevata del monte salari”, non c’è un clamoroso scollamento dalla realtà? Una realtà che da un lato ci dice dell’esistenza di un vero e proprio problema salariale, eredità scomoda di anni nei quali, mi pare, le organizzazioni sindacali hanno dimostrato di essere capaci di politiche assai responsabili; dall’altro, ci racconta di medie e grandi imprese che si riservano margini molto significativi per le politiche salariali individuali… e dunque, di cosa parliamo?

Ciò detto, io non escludo la possibilità che una seria operazione di investimento imprenditoriale, soprattutto in aree da sviluppare, possa essere sostenuta anche da scelte sindacali di parziale allentamento dei vincoli derivanti dal contratto nazionale, e mi pare che non manchino esperienze in tal senso. Ma ciò può essere già fatto, ora, sulla base appunto di scelte coordinate tra centro e periferia del sistema.

E’ questo ciò che non va all’autore, che alla fine sposa, sul piano del sistema sindacale, una visione aziendalista e tendenzialmente micro-corporativa e, sul piano delle regole istituzionali, concentra i suoi attacchi sull’inderogabilità della contrattazione nazionale (che tra l’altro, sul piano tecnico, è tutt’altro che scontata): anche nella proposta di riforma riportata in appendice, appare netta la scelta di svincolare il contratto aziendale dalla contrattazione nazionale, sulla quale prevale sempre purché stipulato da soggetti che ottengano una legittimazione maggioritaria dai lavoratori dell’impresa interessata.

Qui i miei motivi di critica si fanno più forti.

In primo luogo Ichino si muove come il cacciatore che per centrare una lepre (l’accordo aziendale partecipativo) utilizza un bazooka, colpendo (senza che ve ne sia necessità tecnica, ripeto) l’intero sistema del contratto nazionale.

Nessuno può negare, oggi, i problemi di funzionamento del sistema contrattuale regolato dal protocollo del 1993, e le necessità di un suo adeguamento (v. da ultimo, per l’analisi dei principali problemi e alcune proposte, T. Treu, Nuove proposte per nuovi contratti, in Eguaglianza e libertà on line, www.eguaglianzaeliberta.it). Ma appunto: adeguamento o scardinamento?

Il nostro Autore giunge ad esempio ad affermare che la libertà della contrattazione è “inibita o gravemente ostacolata” dalla disciplina che impone l’applicazione del contratto di categoria all’impresa che partecipa ad appalti pubblici. Ma si rende conto della responsabilità che comporta una simile affermazione? Ha Ichino un’idea concreta di cosa siano oggi gli appalti pubblici di opere e servizi, nella gran parte affidati a imprese medie o piccole, con il lavoro tra i più precari e sottotutelati (né insidersoutsiders, ma ormai lavoratori ai margini), e del fatto che il contratto di categoria rappresenta realmente la soglia di tutela minima in tale contesto, così come la garanzia di una qualità minima dei servizi e delle opere appaltate dagli enti pubblici?

In secondo luogo, Ichino non può ignorare che sono all’ordine del giorno una tensione e un dibattito inediti tra “categorialità” e “confederalità” dell’azione sindacale. Le potenti trasformazioni del tessuto produttivo creano articolazioni e separazioni sempre più complesse e conflitti oggettivi di interessi tra gli stessi gruppi di lavoratori che rendono più difficile praticare la logica confederale, proprio quando questa appare più necessaria (almeno per chi assegni rilevanza ad obiettivi di equità distributiva, di eguaglianza, di governo del sistema).

Le tesi di Ichino si inscrivono in una prospettiva microcorporativa, e sotto questo profilo contribuiscono ad aumentare le tensioni accennate allontanando dal controllo confederale il cuore del conflitto industriale. A me sembra polticamente e culturalmente sbagliato: non mi è chiaro se per l’Autore si tratti di una scelta consapevole.

Tale soluzione microcorporativa è destinata a ricadere con impatto certamente negativo sui contenuti e la forza dei contratti nazionali. Come Ichino ben sa, la contrattazione decentrata nell’industria privata interessa in realtà non più di un terzo delle imprese, che sono poi le medesime nelle quali si esprime un’apprezzabile forza sindacale in grado di determinare assetti ed esiti della stessa contrattazione nazionale: cosa sarà di quest’ultima quando i lavoratori delle imprese forti potranno andare del tutto per conto loro, giocare le scommesse di cui parla Ichino e, inevitabilmente, disinteressarsi del contratto nazionale? Cosa sarà a quel punto dei livelli di trattamento assicurati dal contratto nazionale ai lavoratori delle imprese minori?

La proposta di Ichino porta dunque, a mio parere, a scavare solchi tra nuove categorie di insiders (i lavoratori dentro i confini dell’impresa medio-grande sindacalizzata) e outsiders (i lavoratori sindacalmente deboli e con una copertura contrattuale nazionale sempre più scarsa): il risultato, per l’Autore che ha costruito buona parte della sua recente fortuna proprio sulla polemica contro la separazione tra insiders e outsiders, appare paradossale.

Infine, le tesi e le proposte del volume a me paiono abbastanza conservatrici e scarsamente innovative.

 

 

Sia il tema della contrattazione sia quello delle regole e verifiche della rappresentanza vengono sviluppati nei confini classici dell’impresa. Ma Ichino ben sa – essendone stato uno degli accompagnatori e promotori sul piano giuridico – che quei confini sono oggi alterati dall’articolazione dei processi produttivi di beni e servizi su una molteplicità di soggetti interrelati tra loro, dalla coesistenza di fasce di lavoratori che lavorano insieme indossando divise diverse, che hanno statuti giuridici e contrattuali diversi, ecc.

Ebbene, che senso ha in tale contesto proporre il contratto aziendale come strumento di governo delle nuove sfide produttive senza porsi anche il problema (che Ichino trascura) di un suo parallelo allargamento di confini (che, di nuovo, sollecita più confederalità sindacale, e qui sì un serio problema di coordinamento con le contrattazioni nazionali), e dunque della sua stessa funzione?

Siamo sicuri che il vero problema sul quale cercare soluzioni innovative - che certamente pone sfide nuove al sindacato e lo obbliga, come direbbe Ichino, a uscire da un sistema che rischia di restare bloccato - non sia tanto quello dei rapporti tra centro e periferia, quanto quello dei confini dell’area contrattuale, al centro ma soprattutto alla periferia, ovvero sia quello – per usare un’espressione che inizia a diffondersi – della “contrattazione di filiera”, del ritorno al contratto collettivo come strumento di governo e regolazione razionale dell’intero processo produttivo? (anche nell’interesse dell’impresa, e della qualità di tali processi)

E, in questo contesto, che senso ha discutere delle regole di verifica della rappresentanza senza porsi anche e prima di tutto il problema degli ambiti di verifica della stessa, e di come dare rappresentanza – come di recente ha sollecitato a fare Mimmo Carrieri – alle numerose fasce dei lavoratori marginali, interinali, dipendenti di sub-fornitori, collaboratori a progetto e via dicendo, che dai destini dell’impresa leader sono egualmente toccati nei loro interessi?

La proposta di Ichino, sul punto, appare appunto funzionale alla conservazione delle linee di un sistema imprenditoriale (ma anche della pubblica amministrazione) che ha trovato nello scaricare ai margini, e sul lavoro ai margini, i costi di una competitività giocata a livello basso. Mentre questo è il vero tema che oggi, a mio parere, sollecita alle organizzazioni confederali una riflessione più coraggiosa, ed anche la capacità di mettere in discussione assetti e logiche consolidate.

Sotto questo profilo, mi dispiace dirlo, il volume si rivela alla fine scarsamente interessante. Il volume su Il lavoro e il mercato, nonostante la opinabilità delle sue tesi e conclusioni, ha spinto tutti ad allargare lo sguardo sulle connessioni tra regole del lavoro e condizione dei lavoratori nel mercato. A cosa serve il sindacato, al contrario, mi pare dunque che, in relazione ai problemi attuali della realtà economica e sociale, restringa le prospettive del nostro ragionare.

 

L’amico Ichino/Baricco ci ha implicitamente sollecitato la discussione del suo lavoro, ed è stato giusto ed utile che la si sia fatta. Se la mia può apparire una stroncatura, mi creda Ichino che è mossa da un sentimento di amicizia.

Io penso infatti che l’Ichino migliore sia attualmente quello dei testi giuridici, e dei contributi giocati sul confine tra diritto ed economia, piuttosto che quello politico, che scrive sul Corriere o interviene nei dibattiti televisivi, o pubblica libri divulgativi. Questa osservazione non vuole, sia chiaro, invitarlo a tacere in quelle sedi, perché il prendere la parola, da parte chi è mosso da sincera passione (come certamente è Pietro Ichino) è fatto in sé positivo. E’ piuttosto una preghiera a farlo salvando maggiormente quella parte di sé che abituata a utilizzare la razionalità giuridica, e la dialettica che ne consegue, e se possibile ad evitare che fin dall’analisi dei fatti il fine politico lo induca a ricostruzioni parziali e faziose della realtà e del quadro giuridico.

Potrà forse costargli la rinuncia al gusto di qualche provocazione, ma sarà per tutti un contributo più utile.


Il presente intervento è in corso di pubblicazione su Quaderni di Rassegna Sindacale.