Legge Biagi: una normativa apparentemente inutile (di Mario Fezzi)

A due anni dall’entrata in vigore della cosidetta Legge Biagi (Legge 30/2003 e D.Lgs.276/2003) è possibile tracciare un primo bilancio, necessariamente provvisorio, sul suo impatto nell’ordinamento.

Restano valide le critiche svolte a suo tempo sul fatto che si trattasse di una legge brutta e mal fatta, ma ora è anche possibile dire che si è trattato di una legge che sin qui si è dimostrata assolutamente inutile.

La legge infatti è stata applicata in misura ridottissima.

Alcune figure previste dal decreto 276 quali il job sharing e il job on call non sono state minimamente nemmeno prese in considerazione dalla imprese; i contratti di apprendistato e di inserimento sono stati scarsamente utilizzati, a fronte di un precedente uso massiccio dei CFL; la somministrazione è ancora al palo ed è forse meno utilizzata (anche per i problemi che comporta) di quanto non fossero i rapporti di lavoro interinale; gli appalti non sono mutati; il distacco è numericamente inesistente; il lavoro occasionale e accessorio è irrilevante; l’associazione in partecipazione praticamente non esiste; la certificazione non è stata utilizzata (a Milano, in 2 anni, è stata richiesta la certificazione di una trentina di contratti, quasi tutti a progetto). L’unico istituto ampiamente sfruttato è stato il contratto a progetto, ma si è trattato di una semplice opera di cosmesi giuridica, che ha semplicemente portato alla trasformazione dei contratti di cococo in contratti a progetto. L’art.2112 c.c. infine non è stato in alcun modo utilizzato nella sua nuova nozione.

La flessibilità che stava tanto a cuore alle imprese è stata realizzata con altri strumenti: ricorso massiccio ai contratti a termine, esternalizzazioni e uso disinvolto dei contratti a progetto.

a). I contratti a termine rappresentano una parte significativa delle nuove assunzioni e sono spesso molto al di sopra delle percentuali stabilite dalla contrattazione collettiva e molto al di fuori dai casi ammessi dalla legge, venendo utilizzati in situazioni che nulla hanno a che vedere con ipotesi temporanee di attività. E ciò è stato ed è possibile grazie a una sorta di connivenza sindacale. Il sindacato ha accettato situazioni di uso illegale e massiccio di contratti a termine, nella convinzione e, a volte, nella promessa, che buona parte di questi contratti sarebbero stati –prima o poi- trasformati in contratti a tempo indeterminato.

b). Le esternalizzazioni, che sono una costante di questi anni, sono state ottenute attraverso lo strumento della cessione di ramo d’azienda, ma secondo la vecchia nozione dell’art.2112 c.c., evitando accuratamente di rischiare di addentrarsi nella interpretazione del nuovo quinto comma dell’articolo.

c). I contratti a progetto hanno di fatto semplicemente sostituito le vecchie cococo, pur nelle maggiori e comprensibili difficoltà di individuare un Progetto o un Programma credibile e sostenibile in giudizio.

 

 

Sorge allora spontanea la domanda del perché questa legge a suo tanto reclamata sia rimasta sostanzialmente inapplicata, salvo che nelle parti in cui era obbligatorio procedere ad una sostituzione di contratto per eliminazione della tipologia precedente (interinale diventa somministrazione a termine, CFL diventa apprendistato o inserimento e cococo diventa co.pro).

E la risposta è semplice: la flessibilità richiesta dalle imprese si ottiene con una riduzione al minimo della regolazione normativa, non con un apparato normativo di 86 articoli, per di più complessi, involuti e spesso incomprensibili.

Rispetto alla semplificazione, indispensabile, di un corpo normativo già ampio e ridondante, si è andati nella direzione opposta, complicando ancor di più le regole e aggiungendone ulteriori.

L’unico tipo di attività che il decreto 276 ha prodotto è stato quello di avvocati e giuristi, impegnati a cercar di comprendere cosa volesse dire in molti casi il legislatore.

 

 

Il contratto a progetto, ad esempio, nelle intenzioni del legislatore delegato doveva produrre l’emersione dei cococo fasulli e portare all’assunzione dei collaboratori fissi. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Da una recente indagine IRES, per conto del NIDIL, risulta che su 100 vecchi cococo solo il 6.5% è stato assunto; il 23% è rimasto cococo nella PA, il 6% ha aperto (è stato costretto ad aprire) la partita IVA, il 7% ha smesso di lavorare (nell’ambito di un ricambio generazionale fisiologico) e il restante 53% è passato da cococo a co.pro. Cioè non è cambiato assolutamente nulla. La nuova disciplina è semplicemente stata aggirata con Progetti e Programmi fantasiosi e spesso fumosi.


 

In sostanza, non è cambiato veramente nulla con l’introduzione della legge Biagi: alcuni istituti ne hanno sostituiti altri, senza che la sostanza ne fosse alterata; altri istituti non sono stati utilizzati per i troppi rischi connessi alla loro adozione, altri ancora non hanno avuto alcun richiamo sulle imprese.

 

In conclusione quando si sente dire che uno dei principali obiettivi dello schieramento di centrosinistra, ove approdasse al Governo del Paese, deve essere quello della immediata abrogazione della legge Biagi, ci si domanda se valga veramente la pena di porre come priorità una cosa del genere, visto che tante e tante altre sono le priorità del Paese. Abrogare una legge inutile come questa, salvo che per il suo valore simbolico,rischia infatti di essere solo un’opera meritoria, ma tutt’altro che urgente.

Anche nel settore del diritto del lavoro, del resto, ci sarebbero ben altre priorità. Innanzitutto la modifica della (vecchia) nozione di trasferimento di ramo d’azienda, per ridurre e limitare le esternalizzazioni indiscriminate. Poi una revisione della legge 223/91 sui licenziamenti collettivi, introducendo l’onere, per l’impresa che licenzia, di dimostrare che solo attraverso quella riduzione di personale è possibile salvare l’azienda e consentendo ai dipendenti licenziati di contestare la congruità e la necessità della scelta operata. Vanno poi riformate le dimissioni per giusta causa, parificandole –quanto ad effetti- al licenziamento giudicato illegittimo, essendo ambedue le ipotesi la conseguenza di un comportamento illecito del datore di lavoro ed avendo invece –oggi- un trattamento esageratamente differenziato. Andrebbero infine reintrodotte le norme sul part time modificate dal decreto 276.