****Profili della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese: tra ordinamento comunitario e prassi applicative nazionali (di Alessia Gabriele)

1. Preliminari osservazioni sul concetto di partecipazione

2. Normativa comunitaria in tema di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese

3. La direttiva n. 94/45 sui Comitati Aziendali Europei

4. Il recepimento in Italia della dir. 94/45: il d. lgs. n. 74/2002 e l’adeguamento al canale unico di rappresentanza

5. Il coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali delle nuove strutture societarie europee

6. I diritti di informazione e consultazione e la garanzia di una partecipazione debole e generalizzata: la direttiva 2002/14/ce

7. Valutazioni generali sul modello di partecipazione emergente

 

1. Preliminari osservazioni sul concetto di partecipazione

Il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese[1] ha assunto un valore quanto mai attuale nell’ultimo decennio, soprattutto alla luce dei recenti interventi comunitari che ne hanno promosso un generale riconoscimento[2].

Preliminarmente occorre individuare quali siano state le motivazioni che hanno fatto sorgere l’esigenza di un’affermazione diffusa dei diritti di informazione e consultazione, senza trascurare le forti implicazioni ideologiche che l’argomento in questione involge; oltre che accertare se l’obiettivo prevalente di un’introduzione di pratiche partecipative più o meno istituzionalizzate corrisponda al riconoscimento di effettivi vantaggi ai lavoratori.

Rispondere al quesito “perché partecipare?” richiede pertanto un’attenta osservazione dei sistemi di relazioni industriali dei Paesi dell’Unione, uno studio dei provvedimenti comunitari di nuova generazione, nonché una verifica delle prassi concrete che da questi verranno generate, posto fin d’ora che difficilmente si potrà pervenire all’individuazione di un unico standard partecipativo.

L’esigenza di riconoscere e garantire ai lavoratori diritti di partecipazione, ovvero di informazione e consultazione, trae origine in primo luogo dalla diffusa convinzione che pratiche collaborative tra lavoratori e management possano incentivare il dialogo e favorire la composizione di interessi divergenti, al fine di raggiungere e mantenere la c. d. paix sociale[3].

Se non vi sono dubbi su tale effetto benefico, in quanto direttamente connesse alla diffusione di una cultura della partecipazione vi sono la crescita di un’economia aziendale più stabile, una maggiore produttività nonché una fideilizzazione degli stessi dipendenti agli obiettivi ed alle strategie dell’impresa[4], le vie alla partecipazione tuttavia sono molteplici.

Non sempre, infatti, i risultati concreti assumono un valore all’altezza delle aspettative programmate; decisiva influenza in tal senso rivestono i sistemi di relazioni industriali di ogni singolo ordinamento ed in particolare i sistemi di rappresentanza dei lavoratori, distinti tra modelli a canale unico e modelli a canale doppio.

All’interno dei vari Paesi dell’Unione i rapporti tra management e rappresentanze dei lavoratori sono regolati o da una disciplina di fonte legale e, quindi, in via istituzionale (come per la codeterminazione tedesca), oppure mediante procedure non istituzionalizzate, ma generalmente diffuse, quali la contrattazione collettiva (come è accaduto in Italia). E si suole distinguere inoltre tra forme partecipative deboli (o procedimentali) e forti (o organiche), secondo livelli di coinvolgimento dei lavoratori più o meno penetranti, che vanno dal mero riconoscimento dei diritti di informazione e consultazione al coinvolgimento istituzionale delle rappresentanze dei lavoratori negli organismi societari[5].

Pertanto una prima considerazione da cui non si può prescindere nell’ambito di una valutazione del fenomeno orientata in ambito europeo, è che nessun modello emergente può apparire più adeguato degli altri, una volta che lo si sia estrapolato dal suo contesto, sia a causa degli specifici sistemi di rappresentanza sia per le differenti gradazioni dei diritti di informazione e consultazione[6].

Le iniziative della Comunità Europea sono state numerose[7], ed a partire dal 1970 hanno rappresentato una costante della scena politica delle istituzioni comunitarie[8].

Il primo e più immediato effetto di un simile interesse è stata la graduale diffusione di una c.d. “cultura della partecipazione”.

 

 

A fronte, infatti, di un diffuso e progressivo sviluppo dell’innovazione tecnologica, che condurrà gradualmente anche ad una diversa organizzazione del lavoro in azienda, il coinvolgimento dei lavoratori diventa strumentale ad un buon funzionamento del mercato e dell’economia, con evidenti riflessi e conseguenze sugli interessi della collettività e degli stessi lavoratori, “grazie all’instaurazione di relazioni stabili fra direzione e dipendenti sul luogo di lavoro”[9].

 

 

Tuttavia ci si è sempre chiesti se l’interesse per lo sviluppo di un diritto uniforme, in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, traesse origine direttamente da istanze di tutela dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori[10], o se in un primo momento sia stato volto esclusivamente a garantire un perfetto funzionamento del mercato. Non si può ad ogni modo tacere come in origine vi sia stata una funzionalizzazione delle problematiche della partecipazione alle esigenze di un’integrazione economica, per evitare effetti di dumping sociale distorsivi della concorrenza.

 

 

Ma nuove letture del fenomeno sono da considerare alla luce dei recenti traguardi normativi e del valore ufficiale acquisito dalla Carta Sociale, nonostante la “sua dimessa veste giuridica iniziale” di dichiarazione solenne e non di atto normativo[11].

 

 

A quest’ultima, infatti, si deve il merito di aver affermato per la prima volta il riconoscimento dei diritti in parola come diritti sociali fondamentali dei lavoratori, da proiettare in un ambito di efficacia generalizzata, conferendo loro il carattere di adempimenti stabili e costanti del datore di lavoro (artt. 17 e 18)[12]. La necessità di affermare modelli e schemi partecipativi omogenei, quindi, nasce non solo come una condicio sine qua non della realizzanda riforma del diritto societario, ma anche come valore autonomo nel più ampio quadro di costruzione e consolidamento della c.d. Europa sociale. A fortiori, se si pone mente alla circostanza che la partecipazione ai sistemi di impresa è stata parimenti riconosciuta quale istanza sociale fondamentale dei lavoratori dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza nel 2000, ed ora anche dalla nuova Costituzione Europea (art. II - 87 ex 27 Carta di Nizza)[13].

 

 

2. Normativa comunitaria in tema di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese

 

 

Si possono individuare due linee tematiche di politica del diritto seguite dal legislatore comunitario, che hanno condotto a distinti tipi di intervento: il primo, in materia di diritto societario; il secondo che riguarda la più ampia area delle relazioni industriali [14].

 

 

Nell’ambito di una disciplina del diritto societario si individuano il Regolamento 2001/2157 relativo allo Statuto di una Società Europea; e la direttiva 2001/86, che completa lo stesso Statuto, in relazione al coinvolgimento dei lavoratori all’interno di tali società; ed inoltre il Regolamento 1435/2003 sullo Statuto di una Società Cooperativa Europea e la connessa direttiva n. 2003/72 che disciplina il coinvolgimento dei lavoratori in seno alla medesima.

 

 

Gli interventi che si collocano in un ambito strettamente connesso con le relazioni industriali sono stati, da principio, circoscritti a particolari situazioni o momenti del rapporto di lavoro con l’effetto di procedimentalizzare i poteri decisionali dell’imprenditore[15].

 

 

Solo in un secondo momento sono stati varati provvedimenti che hanno disciplinato l’introduzione di procedure per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese o nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie (direttiva 94/45/CE istitutiva dei Comitati Aziendali Europei) e l’istituzione di un quadro generale relativo all’informazione e consultazione dei lavoratori in tutte le imprese europee (direttiva 2002/14/CE).

 

 

E’ possibile individuare un fil rouge sotteso ai diversi tipi di intervento legislativo, seguendo il quale emerge un reticolato normativo che afferma i diritti di informazione e consultazione in ogni vicenda d’impresa, ordinaria o straordinaria, che coinvolga, anche in via indiretta, gli interessi dei lavoratori.

 

 

Viene riconosciuta rilevanza agli strumenti partecipativi in quanto ad essi è attribuito un ruolo di argine sia nei confronti degli eccessi liberistici sia nei confronti degli atteggiamenti eccessivamente conflittuali[16], con il concreto risvolto di incrementare la produttività delle aziende e migliorare gli standard lavorativi dei dipendenti. Questo almeno nelle lodevoli intenzioni del legislatore, poichè è lecito chiedersi quali saranno le conseguenze applicative all’interno delle singole realtà nazionali, posto che la maggior parte dei provvedimenti sono caratterizzati da un impianto normativo “flessibile” e di tipo procedurale, che non vincola rigidamente i singoli Stati, al fine di garantire l’autonomia delle parti sociali.

 

 

3. La direttiva n. 94/45 sui Comitati Aziendali Europei

 

 

L’esigenza di un riconoscimento dei diritti di partecipazione in via autonoma da una riforma del diritto societario, in un contesto specificamente giuslavoristico, nasce con il progetto Vredeling nel 1980; e si conclude in parte con la direttiva 94/45, e poi, da ultimo, nel 2002, con la direttiva 2002/14 sull’informazione e consultazione dei lavoratori.

 

 

La direttiva n. 94/45 (c.d. Vredeling II), approvata nel settembre del 1994, prevede l’istituzione di un Comitato aziendale europeo o di una “procedura” per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese, o in ciascun gruppo di imprese di dimensione comunitaria.

 

 

Elemento centrale della normativa è il nuovo organismo di rappresentanza ad hoc, il Comitato aziendale europeo, costituito per l’esercizio della funzione d’informazione e consultazione dei lavoratori; ovvero, in alternativa a tale opzione strutturale, è possibile prevedere l’istituzione di una procedura che assolva la medesima funzione, senza alcun organo tipizzato[17].

 

 

L’ambito soggettivo di applicazione viene individuato attraverso le definizioni dei controversi concetti di “imprese di dimensioni comunitarie”, di “gruppo di imprese” e di “impresa controllante”[18], con l’esclusione dei datori di lavoro non imprenditori[19].

 

 

L’iniziativa per la negoziazione è, in prima istanza, attribuita alla parte datoriale; ma è parimenti garantito ai lavoratori (non meno di 100), o ai loro rappresentanti (di almeno due imprese o stabilimenti situati in un minimo di due Stati membri diversi), di dare avvio alla procedura mediante una richiesta scritta.

 

 

L’ambito di efficacia soggettivo da parte datoriale viene delineato indicando le direzioni delle imprese a carattere transnazionale (ossia con impianti e filiali in più paesi comunitari anche se la direzione centrale è in un paese extracomunitario), quali organismi obbligati a dare attuazione alle disposizioni della direttiva; mentre non ha effetto nei confronti di un’impresa presente in un solo Stato membro, in quanto questa rientra nell’ambito di applicazione della disciplina nazionale. In tal merito, la Corte di Giustizia ha puntualizzato come l’obbligo di collaborare con l’organo rappresentativo dei lavoratori, per l’istituzione del CAE, non sussista solo in senso verticale nei confronti della direzione centrale, ma anche in orizzontale tra direzioni centrali di diversi Stati membri, nel senso che tutte le imprese del gruppo sono tenute a cooperare e a fornire qualsiasi informazione utile[20].

 

 

Quale organo di rappresentanza dei lavoratori, il compito di gestire la procedura negoziale con la direzione centrale viene assegnato ad un agente negoziale istituito ad hoc (la delegazione speciale di negoziazione), le cui modalità di elezione o di designazione dei componenti vengono rimesse agli Stati membri, fermo restando quelle legislazioni o prassi nazionali che prevedono limiti alla costituzione di un organo simile.

 

 

Una formula di apertura di tale portata non vincola gli ordinamenti nazionali in materia di relazioni industriali, nel rispetto di una precisa strategia di non interventismo. Non si può infatti ignorare come dalla locuzione adoperata, ed in particolare dai termini “designazione o elezione”, il legislatore abbia inteso prescindere dalle differenze che possono sussistere all’interno dei singoli sistemi nazionali[21], ed abbia altresì tenuto conto della presenza dei sindacati e del ruolo istituzionale di attori della contrattazione che ad essi viene riconosciuto in alcune realtà nazionali. In merito alla natura giuridica della delegazione speciale di negoziazione si è sostenuto che essa possa qualificarsi come uno speciale soggetto transnazionale di rappresentanza[22]; se pur vero, tuttavia non si può ignorare che sia un organo occasionale la cui istituzione è finalizzata all’espletamento del mandato, ossia la negoziazione e la conclusione dell’accordo istitutivo del CAE.

 

 

Tra le motivazioni che hanno determinato il consenso necessario per l’approvazione di questa direttiva vi è stata proprio la particolare tecnica normativa adoperata, definita di carattere flessibile, in ossequio ad un’esemplare applicazione del principio di sussidiarietà (art. 5 del Trattato CE).

 

 

Così come dichiarato nel 16° considerando tale criterio di ripartizione delle competenze rileva per una duplice accezione e per la pluralità di fonti cui fa rinvio[23].

 

 

In ordine al principio di sussidiarietà verticale, il legislatore comunitario ha predisposto una disciplina minima per garantire ai singoli Stati di procedere ad un’attuazione della normativa, tenendo conto delle condizioni e delle normative interne; ha inoltre attribuito loro numerosi profili della regolamentazione, tra cui: le disposizioni sui rappresentanti dei lavoratori; il criterio di calcolo del numero dei dipendenti impiegati nell’impresa; la determinazione della posizione di controllo; le disposizioni che obbligano al segreto sulle informazioni riservate; la protezione e le garanzie da riconoscere ai rappresentanti dei lavoratori.

 

 

In conformità al principio di sussidiarietà orizzontale, invece, la direttiva predispone un contesto di sostanziale interazione tra fonte autonoma ed eteronoma, temperato invero dalla previsione di interventi suppletivi della prima alla seconda (cfr. prescrizioni accessorie) ogniqualvolta possano essere compromessi i risultati attesi[24].

 

 

Per il suo impianto strettamente procedurale, è stata definita una “disciplina quadro”[25], con l’obiettivo di costruire un livello di diritti dei lavoratori che si aggiunga, e non si sostituisca, a quello già predisposto dai singoli Stati.

 

 

E’ di tutta evidenza, infatti, come, più che una normativa di conte