Federalismo e lavoro pubblico regionale (di Alessandro Bellavista)

Sommario: 1. Premessa.- 2. Le varie letture della riforma costituzionale.- 3. Lo spazio per la legislazione regionale.- 4. La contrattazione collettiva.- 5. La Corte costituzionale.- 6. Le Regioni a statuto speciale.- 7. Conclusioni.

 

1. L’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione -  varato con la legge di riforma costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - ha comportato un profondo mutamento in ordine alla ripartizione del potere legislativo tra Stato e Regioni.

Il novellato testo costituzionale - e in particolare l’attuale art. 117 che contiene la suddivisione del potere legislativo - non brilla certo per chiarezza e semplicità, a causa probabilmente della frettolosità con cui è stato elaborato. Il che ha determinato il sorgere di notevoli problemi interpretativi in relazione a quale tipologia di potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva statale, potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, potestà legislativa esclusiva o residuale regionale) siano riconducibili molteplici materie.  L’intera area del diritto del lavoro privato e pubblico è stata massicciamente interessata da tale dibattito.

In questa sede, l’analisi si concentrerà sugli effetti della riforma costituzionale sulla competenza legislativa delle Regioni (a statuto ordinario) per la regolazione dei rapporti di lavoro alle proprie dipendenze. Ma è evidente come la soluzione della questione sia strettamente legata allo scioglimento del dubbio più ampio che riguarda l’identificazione della competenza legislativa per la disciplina dell’area scientifica e normativa tradizionalmente riconducibile al diritto del lavoro.

Va infatti osservato che il nuovo art. 117, comma 2, Cost. tra le materie ricadenti nell’ambito della potestà legislativa esclusiva dello Stato non menziona espressamente il diritto del lavoro o il settore dei rapporti di lavoro, ma contiene alcune voci o espressioni che possono legittimare un ampio intervento statale in tale ambito: si parla di “ordinamento civile”, “tutela della concorrenza”, “previdenza sociale”, e di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Poi, l’art. 117, comma 3, Cost. stabilisce che “sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: … tutela e sicurezza del lavoro, … professioni, previdenza complementare e integrativa”. E conclude affermando che “nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato”. Infine, l’art. 117, comma 4, Cost. dice che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

E’ evidente che, più si ampli il significato delle voci indicate nel comma 2 dell’art. 117 Cost., più si restringe la possibilità di esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni. Il che è accaduto soprattutto per quanto concerne l’espressione “ordinamento civile”, che è stata identificata, dalla dottrina prevalente, con il campo del diritto privato e quindi in grado di abbracciare gran parte del diritto del lavoro: specie il suo corpo classico, quello concernente il diritto del contratto/rapporto di lavoro. Per converso, l’enunciato “tutela e sicurezza del lavoro” può essere letto in vari modi a seconda se si voglia o meno estendere la potestà legislativa concorrente della Regione, con inevitabili ripercussioni sullo spazio normativo del legislatore statale. Inoltre, va considerato che la potestà legislativa esclusiva/residuale delle Regioni può essere fortemente intaccata e compressa quanto più si dilati il significato delle materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Ma la scena del diritto del lavoro storicamente è stata dominata dalla presenza di un attore principale, costituito dalla contrattazione collettiva. Pertanto, ogni discussione sulla ripartizione di potere legislativo in materia tra Stato e Regioni, deve tener conto del fatto che, alla stregua della Costituzione e specie dell’art. 39 Cost., la contrattazione collettiva ha un riconoscimento ed una legittimazione difficilmente comprimibile. E che, in forza dell’opinione dominante, anche avallata dalla Corte costituzionale, limiti alla contrattazione collettiva possono essere giustificati dall’esigenza del perseguimento di interessi generali, purché non si spingano fino al punto di estrinsecarsi nella totale compressione della libertà contrattuale. Tutto ciò deve far riflettere, perché v’è il rischio che l’estensione della potestà legislativa regionale in ordine ai rapporti di lavoro possa determinare la riduzione della sfera d’azione della contrattazione collettiva.

 

2. Secondo la posizione prevalente, la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, specie sotto il profilo del sistema delle fonti della disciplina, operata con le trasformazioni avviate con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, comporta che anche la regolazione del contratto/rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (eccetto ovviamente i rapporti restati in regime di diritto pubblico) rientrerebbe nell'espressione “ordinamento civile”, e perciò sarebbe oggetto della competenza legislativa esclusiva dello Stato. E’ necessario su quest’aspetto però spendere qualche parola in più, anzitutto segnalando che sul punto si sono manifestate opinioni alquanto diverse[1].

Tuttavia, pare opportuno anche qui limitarsi a fissare le coordinate generali delle varie questioni, rinviando ad altra sede un’analisi più accurata. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che le novità della riforma avranno bisogno di tempo per consolidarsi e attualmente non sembra che vi siano istituzioni (legislatori nazionale e regionali, contrattazione collettiva) che vogliano effettuare repentini balzi in avanti, almeno proprio negli ambiti del lavoro pubblico.

Beninteso, bisogna ricordare che la lettera g) del comma 2 dell'art. 117 Cost.  prevede che lo Stato eserciti competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”. Da ciò si desume che l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali (in quanto non rientranti nell’elenco espresso di materie su cui opera la legislazione concorrente) sono materie su cui le Regioni possono esercitare, alla stregua del comma 4 dell'art. 117 Cost., potestà legislativa esclusiva, ovvero residuale. E poi va considerato l’assetto della disciplina del lavoro pubblico come risultante dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Per il comma 3 dell’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 “le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione” e che “le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti”. Sicché, a seguito dell’assorbimento del lavoro pubblico privatizzato nel concetto di “ordinamento civile”, si potrebbe sostenere che l’effetto della modifica costituzionale sarebbe quello di eliminare la possibilità per le Regioni di adattare la disciplina nazionale, quantomeno proprio con riguardo al rapporto di lavoro pubblico privatizzato: e questo perché ora lo Stato appare qui dotato di potestà legislativa esclusiva. Di conseguenza, in forza della riforma costituzionale, lo spazio legislativo regionale di cui al comma 3 dell’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 verrebbe notevolmente ridotto se non del tutto eliminato. Per giunta, si porrebbe l’ulteriore problema di capire se la privatizzazione della micro-organizzazione trasporti tale materia nell’area dell’ordinamento civile, e quindi la sottragga alle Regioni.

In questa direzione si può arrivare a ritenere che la scelta del legislatore nazionale di privatizzare il lavoro pubblico sia stata costituzionalizzata al momento del varo del nuovo art. 117 Cost. O che, comunque, vada applicato il criterio oggettivo-contenutistico, utilizzato dalla Corte costituzionale nell’individuare le materie di cui al vecchio art. 117 Cost., e che perciò la nozione di “ordinamento civile” possa assorbire lo spazio di adattamento concesso alle Regioni dal d.lgs. n. 165/2001. L’aspetto singolare di tale soluzione è quello che, in questo modo, resterebbe affidato al solo legislatore nazionale il potere di tracciare la linea tra l’area privatizzata e l’area rimasta in regime pubblicistico, avendo così quest’ultimo la possibilità di decidere a proprio piacimento quale sia l’area di influenza della legislazione regionale.

Però, un’altra lettura parte dall’idea che l’organizzazione abbraccia anche la disciplina del personale, e giunge a sostenere che le Regioni potrebbero essere ritenute del tutto svincolate dalla legislazione nazionale, in quanto la disciplina del personale, come l’organizzazione, ricadrebbe nella loro competenza esclusiva/residuale. Questa tesi però non trova adeguata audience. Ciò perché pare muoversi in controtendenza rispetto alla spinta verso l’assoggettamento del lavoro pubblico e privato ad uno status comune, caratterizzato dall’applicazione dei principi privatistici. Inoltre, il riconoscimento della competenza regionale, in relazione alla disciplina dei rapporti di lavoro, potrebbe porre il problema sia della differenziazione delle regole su base territoriale, e cioè del rispetto del principio di eguaglianza, sia quello di un’influenza sul regime giuridico del rapporto. In sostanza, seguendo questa linea di pensiero, v’è il rischio che le Regioni potrebbero, a propria discrezione, scegliere di incidere sul diritto privato vigente, tramite la pubblicizzazione di alcuni pezzi della disciplina del rapporto di lavoro per assoggettarli, di conseguenza, formalmente alla loro competenza residuale/esclusiva. Con il ritorno ad una dimensione pubblicistica che si pensava ormai travolta dalla dura lezione dei fatti.

Un’ulteriore proposta interpretativa fa leva su una visione della materia “ordinamento civile” più ristretta di quella prevalente e limitata ai cosiddetti principi ordinamentali del contratto/rapporto di lavoro. Così, gli aspetti regolativi di dettaglio, non coperti dalla potestà legislativa esclusiva dello Stato, potrebbero ricadere o nella competenza esclusiva/residuale delle Regioni ovvero nella loro potestà legislativa concorrente in ordine alla “tutela e sicurezza del lavoro”.Ovviamente questa è una posizione che, per quanto in apparenza più moderata rispetto a quella appena citata, aprirebbe estesi spazi alle Regioni e ha trovato accoglimento nel documento del 21 marzo 2002 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni dal titolo “impatto della legge costituzionale n. 3/2001 su ‘rapporto di lavoro pubblico e ruolo delle Regioni nella contrattazione collettiva’ con particolare riferimento al comparto Regioni-Autonomie locali”.

Comunque, è evidente che al momento la giurisprudenza della Corte costituzionale manifesta forti ambiguità. Infatti, nella sentenza 24 luglio 2003, n. 274, la Corte arriva a sostenere che la materia dello stato giuridico ed economico del personale ricade nella competenza legislativa esclusiva/residuale delle Regioni a statuto ordinario. Tale conclusione serve alla Consulta per svincolare l’esercizio della potestà legislativa esclusiva, nella stessa materia, della Regione a statuto speciale della Sardegna, dal limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale, alla stregua dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001. Però qui, com’è stato bene osservato, l’affermazione della Corte è eccessiva rispetto al caso da decidere: perché veniva in discussione una legge regionale della Sardegna che toccava un istituto, come il concorso pubblico per l’accesso ai ruoli regionali, da sempre rientrante nella potestà legislativa esclusiva della Regione a statuto speciale in questione. E quindi non v’era bisogno di utilizzare tale ragionamento per fondare una competenza della Regione Sardegna, da essa già posseduta in virtù del suo Statuto speciale. Ciò è confermato dal fatto che, nella successiva decisione 21 ottobre 2003, n. 314, la stessa Corte ribadisce la persistenza del suddetto limite (delle nome fondamentali di riforma economico-sociale) nei confronti della potestà legislativa della Regione Siciliana, anch’essa a Statuto speciale.

Inoltre, l’argomentazione, contenuta nella sentenza n. 274/2003 della    Corte costituzionale, appare sovrabbondante, in quanto l’istituto del concorso pubblico, ovvero la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale, resta senza dubbio una materia non privatizzata alla stregua del d.lgs. n. 165/2001: la cui regolazione rimane pertanto in regime di diritto pubblico e, poiché afferente alla sfera dell’organizzazione, su di essa può dispiegarsi la potestà legislativa esclusiva/residuale, di cui al comma 4 dell’art. 117 Cost., pur rispettando i principi costituzionali e principalmente gli artt. 51 e 97 Cost. Sicché, per riconoscere la competenza legislativa delle Regioni a statuto ordinario su tale materia, la Corte costituzionale si sarebbe potuta arrestare nel ricondurla alla potestà legislativa esclusiva/residuale della Regione sul proprio ordinamento e sulla propria organizzazione amministrativa, senza dovere arrivare a riconoscere che essa abbia analoga competenza legislativa sullo stato giuridico ed economico del relativo personale. 

Semmai, va detto che questa decisione appare certo ambigua e che essa risulta influenzata da quella “giurisprudenza inerziale” della medesima Consulta, precedente alla privatizzazione del lavoro pubblico, che, sebbene fortemente criticata dalla dottrina, leggeva la materia “ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione”, di cui al vecchio art. 117 Cost. (affidata alla competenza legislativa concorrente delle Regioni a statuto ordinario), come comprensiva pure dello stato giuridico ed economico del personale regionale. E la stessa critica può essere estesa anche a quel passaggio della sentenza 19 dicembre 2003, n. 359 della Corte costituzionale, laddove si lascia intendere che, qualora il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale, la disciplina del rapporto di lavoro venga attratta dalla competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, comma 2, lettera g), Cost. 

 

3. Sul piano pratico, pare logico ritenere che, se v’è una competenza legislativa esclusiva/residuale delle Regioni in relazione al proprio ordinamento e alla propria organizzazione amministrativa, l’interprete non possa prescindere da questo dato, e quindi debba sforzarsi di ritagliare uno spazio operativo del legislatore regionale utile per garantire l’effettività del principio di autonomia. Sicché, la competenza legislativa regionale esclusiva/residuale dovrebbe estendersi fino a toccare tutta l’area dell’organizzazione amministrativa sia macro sia micro, purché ciò avvenga nel rispetto delle norme costituzionali che concernono l’organizzazione dei pubblici uffici e quindi, soprattutto, l’art. 97 Cost. Questo può avvenire fino a quando non si introducono regole che, come si vedrà tra poco, possono interferire con competenze legislative statali esclusive (per esempio la giurisdizione) o con i principi fondamentali fissati da leggi statali nelle materie di legislazione concorrente. Rimane aperto il dubbio se vi sia uno spazio legislativo regionale proprio in ordine alla disciplina del personale.

Qui è inutile nascondersi dietro argomentazioni apparentemente rigorose. Come s’è visto, le soluzioni sono molteplici. La scelta per l’una o per l’altra è sicuramente influenzata dalle pregiudiziali ideologiche. In questa sede, pare opportuno ribadire, per evitare il rischio di una balcanizzazione delle regole, la necessità del mantenimento della competenza in materia alla legislazione esclusiva dello Stato, accogliendo una nozione ampia di “ordinamento civile”. Semmai, l’adattamento della disciplina base alle specificità regionali potrebbe avvenire tramite la contrattazione collettiva integrativa. Una contrattazione collettiva integrativa però alla quale va riconosciuta una libertà d’azione più ampia di quella attuale. Si potrebbe pensare ad un aumento delle materie delegate ai livelli inferiori da parte del contratto nazionale, specie di quelle fortemente vicine alle esigenze dell’organizzazione micro e macro (come gli incarichi, la produttività) a condizione del rispetto di un grappolo di rigorosi principi e linee guida stabiliti a livello centrale. E inoltre andrebbe assicurato un adeguato coordinamento tra centro e periferia tramite appositi organismi unitari. Da questo punto di vista, è denso di suggestioni il già citato documento del 21 marzo 2002 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni. 

Riguardo al rapporto di lavoro dirigenziale le questioni che si pongono sono ancora più controverse. Infatti, alla stregua del comma 1 dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001, “le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare adeguano ai principi dell’articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità”; e, come aggiunge il successivo periodo della disposizione, “gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione”. Intanto, va ricordato che l’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001 attua il principio di separazione tra politica e amministrazione: e cioè, la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa. Mentre, il capo II del Titolo II del d.lgs. n. 165/2001 – richiamato dall’appena citato art. 27 del d.lgs. n. 165/2001 – riguarda la disciplina del lavoro dirigenziale: funzioni, incarichi, responsabilità, trattamento economico, accesso alla qualifica.

A prima vista si potrebbe ritenere che, a causa della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”, le Regioni resterebbero oggi integralmente vincolate alla legislazione statale sulla dirigenza pubblica; e tale vincolo sarebbe più stringente rispetto al passato, laddove, in base all’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001, i limiti erano costituiti solo dai “principi” deducibili dalla normativa dello stesso d.lgs. n. 165/2001. La portata di tale soluzione – che comporta una forte riduzione dell’autonomia regionale rispetto al sistema dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001 – può essere attenuata richiamando la competenza residuale/esclusiva della Regione in ordine all’organizzazione amministrativa regionale. Infatti, tale competenza permetterebbe di assorbire una parte della disciplina della dirigenza.

Insomma, è sostenibile che la riforma costituzionale travolga l’efficacia dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001 nei confronti delle Regioni. Così, sarebbe possibile tracciare una nuova linea di separazione tra organizzazione e gestione del rapporto di lavoro dirigenziale, in modo tale da affidare alla legislazione residuale/esclusiva regionale una parte significativa degli oggetti di cui al capo II del Titolo II del d.lgs. n. 165/2001 - vale a dire quelli riconducibili all’organizzazione amministrativa: sicuramente i modi del reclutamento, il ruolo e gli incarichi di funzioni -, lasciando al legislatore statale (e solo ad esso) gli aspetti della normativa dirigenziale più strettamente legati al rapporto di lavoro. E’ evidente, inoltre, che disegnare una linea netta e condivisa tra organizzazione e rapporto di lavoro risulta estremamente complesso proprio nel caso della dirigenza in cui raggiunge il livello di intensità massima l’intreccio tra profilo organizzativo e profilo lavoristico. Peraltro, va aggiunto che la recente legge 15 luglio 2002, n. 145, contenente l’ennesima riforma della dirigenza pubblica, appare costruita in modo da ignorare del tutto il nuovo Titolo V della Costituzione, ed apre altre e complesse questioni di coordinamento tra legislazione nazionale ed autonomia regionale. In via di riflessione teorica, si arriva a sostenere, da parte di un’autorevole dottrina, che “al limite, sul piano giuridico-formale, non sarebbe precluso alle Regioni di reintrodurre il regime pubblicistico per (tutta o parte del) la dirigenza”, anche perché “la Costituzione lascia ampia libertà in ordine agli strumenti da adottare per il raggiungimento degli obiettivi indicati dall’art. 97 Cost.”[2]. Comunque, secondo questa condivisibile dottrina, la portata di tale eventuale innovazione non potrebbe scalfire l’attuale riparto di giurisdizione come consacrato dall’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, anche tenendo conto del fatto che lo Stato mantiene la potestà legislativa esclusiva, in forza dell’art. 117, comma 2, lettera l), Cost., in materia di “giurisdizione” e “giustizia amministrativa”. E come ha affermato la Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 274/2003, la potestà legislativa esclusiva/residuale delle Regioni deve rispettare i limiti di cui al comma 1 dell’art. 117 Cost., nonché “quelli indirettamente derivanti dall’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in ‘materie’ suscettibili, per la loro configurazione, di interferire” proprio con quelle ricadenti nella stessa potestà legislativa esclusiva/residuale delle Regioni.

Per completare il quadro, va segnalato che pure le amministrazioni locali appaiono ora dotate di una sorta di potestà regolamentare esclusiva, alla stregua dell’art. 117, comma 6, Cost., secondo cui “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Il che apre un possibile spazio agli enti locali di regolare autonomamente la propria organizzazione amministrativa, sollevando interrogativi sull’attuale vincolatività del testo unico per gli enti locali di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nonché sulla circostanza se tale autonoma regolazione possa arrivare a lambire la disciplina del personale locale. 

 

4. Problemi ermeneutici simili a quelli appena affrontati si pongono anche per l’area della disciplina della contrattazione collettiva, in considerazione della sua regolazione tramite un diritto “misto” (privato e pubblico insieme), facendo alcuni dubitare anche della sopravvivenza della competenza dell’ARAN per la contrattazione del comparto Regione e Autonomie locali. Al tempo stesso vi sono molteplici vincoli e regole comunitarie e costituzionali che giustificano il mantenimento dell’attuale sistema della rappresentanza contrattuale delle pubbliche amministrazioni e della disciplina della contrattazione collettiva di comparto: come i parametri comunitari del “Patto di stabilità e di crescita” e il conseguente “Patto di stabilità interno”; il potere legislativo statale di fissare i principi fondamentali circa il “coordinamento della finanza pubblica”, che risulta dall’art. 117, comma 3, e dall’art. 119, comma 2,  Cost.; l’attribuzione allo Stato, alla stregua dell’art. 117, comma 2, lettera e), della potestà legislativa esclusiva nella materia della “perequazione delle risorse finanziarie”; il compito esclusivo dello Stato di legiferare per determinare “i livelli essenziali delle prestazioni”, di cui all’art. 117, comma 2, lettera m), Cost.; nonché il potere sostitutivo del Governo, sancito dall’art. 120, comma 2, Cost., da esercitare “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Come s’è già accennato in precedenza, al momento attuale, adottando un atteggiamento prudente, le pressioni autonomiste potrebbero essere soddisfatte, allargando gli spazi per la contrattazione integrativa regionale, modificando l’impostazione del contratto collettivo nazionale di comparto. Ciò in modo tale da ribadire il ruolo privilegiato della contrattazione collettiva in ordine alla regolazione dei rapporti di lavoro. Forti perplessità determina, in virtù dei vincoli poc’anzi menzionati, la tesi che le Regioni possano del tutto sganciarsi dal contratto collettivo nazionale e soprattutto dalla rappresentanza dell’ARAN. Semmai, andrebbe ripensata la struttura di tale organo, valorizzando al massimo la presenza effettiva delle istanze e delle voci delle Regioni. Inoltre, ricadendo la materia nella sfera dell’organizzazione, nulla impedisce alle Regioni di conformare a propria discrezione le strutture regionali deputate alla contrattazione. E, in relazione a tutti questi profili, un utile punto di partenza per disegnare un nuovo assetto del sistema di contrattazione collettiva appare rappresentato dal citato documento del 21 marzo 2002 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni.

 

5. La più recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha assunto un atteggiamento fortemente ambiguo, ma, nei casi più rilevanti, in sostanza riduttivo delle competenze regionali. Ciò è probabilmente dovuto alla volontà di soddisfare l’esigenza di evitare eccessive e disarticolate fughe in avanti da parte delle Regioni. Però, il rischio è quello che, attraverso lo sfruttamento delle competenze legislative statali nelle materie di potestà legislativa esclusiva e in relazione alla fissazione dei principi fondamentali, si arrivi di fatto ad annullare ogni spazio di azione delle Regioni.

Per avere una prova di tutto ciò, basti esaminare la sentenza 13 gennaio 2004, n. 4 della Consulta. Intanto, va detto che, in primo luogo, la Corte affronta il problema della legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, della legge 28 dicembre 2001, n. 448. Secondo il ricorso, la disposizione impugnata “ledendo la competenza legislativa esclusiva della Regione in materia di impiego presso la Regione stessa e gli enti locali, inciderebbe irragionevolmente sull’autonomia organizzativa regionale con il precludere la possibilità di una diversa articolazione delle disponibilità di bilancio ovvero di ricorrere a nuove forme di finanziamento e con il vincolare l’azione dei comitati di settore agli atti di indirizzo previsti dall’art. 47 del d.lgs. n. 165/2001”.

La Corte ritiene la censura infondata in quanto “erroneamente la Regione” ricorrente riconduce la norma impugnata alla materia, ritenuta di sua competenza esclusiva, del pubblico impiego del personale da essa Regione dipendente”. Invece, “la prima parte della norma de qua ha ad oggetto esclusivamente ‘gli onorari derivanti dai rinnovi contrattuali per il biennio 2002-2003’, e, ponendo (rectius, ribadendo) il principio secondo il quale tali oneri “sono a carico delle amministrazioni di competenza nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci’, rientra nella materia, di competenza concorrente (art. 117, comma 3, Cost.), della armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica”. E “lo stesso è a dirsi della seconda parte della norma in questione, volta a stabilire, con riguardo alla contrattazione integrativa, che i comitati di settore, in sede di deliberazione degli atti di indirizzo, si attengono ai ‘criteri indicati per il personale’ dipendente dello Stato e provvedono alla quantificazione delle risorse necessarie; anche in tal caso curando il ‘coordinamento della finanza pubblica’ cui già mirava l’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001”.

Altra disposizione impugnata è l’art. 17, comma 2, della legge n. 448/2001, “assumendo che tale norma (introduttiva dell’art. 40-bis nel d.lgs. n. 165/2001) – con il prevedere verifiche congiunte tra comitati di settore e Governo in merito alle implicazioni finanziarie della contrattazione integrativa di comparto; con il definire metodologie e criteri di riscontro anche a campione; con l’imporre agli organi di controllo interno l’invio al Ministro dell’economia di informazioni sui costi della contrattazione integrativa secondo un modello di rilevazione predisposto dal medesimo Ministro d’intesa con la presidenza del consiglio dei Ministri – violerebbe l’art. 117, comma 4, Cost., nonché l’art. 119, comma 1, Cost.”. Anche qui la Corte afferma che le censure sono destituite di fondamento. Ciò perché “la norma in questione detta regole (verifiche congiunte; metodologie e criteri di riscontro anche a campione; invio di informazioni secondo un unitario modello di rilevazione) che, lungi dal costituire normativa di dettaglio, sono strumentali rispetto al fine – legittimamente perseguito dalla legislazione statale in sede di coordinamento della finanza pubblica – di valutare la compatibilità, con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale, della spesa in materia di contrattazione integrativa: l’accennata strumentalità esclude, altresì, ogni violazione del principio – che si pretende desumere dall’art. 119 Cost. – secondo il quale l’autonomia di spesa riconosciuta alle Regioni implicherebbe l’esclusione di ogni ingerenza statuale anche sotto forma di procedure e criteri di controllo della spesa pubblica regionale”. Infine, la Consulta rigetta le censure mosse all’art. 19, comma 1, della legge n. 448/2001 rivolta a porre forti limiti agli enti locali (diversi dalle Regioni), che non abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l’anno 2001, a procedere ad assunzioni di personale. Qui la Corte riconduce l’intervento del legislatore nazionale al “fine di dare effettività al patto di stabilità interno” e sostiene la “stretta attinenza di tali precetti con il fine del coordinamento della finanza pubblica sub specie del contenimento della spesa corrente”.

Benché la stessa Corte costituzionale lo neghi espressamente, emerge la sensazione che la competenza legislativa statale (seppure concorrente, e quindi limitata ai soli principi fondamentali) in relazione al coordinamento della finanza pubblica  possa essere usata dal legislatore statale quale “grimaldello per garantire allo Stato un potere di coordinamento in materia di competenza (anche esclusiva) regionale”. Nel caso di specie ciò sembra che non sia avvenuto. Ma per garantire l’effettività della riforma costituzionale, e quindi per evitare che le nuove competenze regionali rimangano lettera morta, è necessaria anche qui una piena valorizzazione del principio della leale collaborazione tra Stato e Regioni: e perciò occorre realizzare meccanismi di coordinamento della finanza pubblica innovativi e che vedano la reale partecipazione delle Regioni alla loro predisposizione.

 

6. Il caso affrontato dalle citate sentenze n. 274/2003 e 314/2003 della Corte costituzionale impone, prima di concludere queste brevi osservazioni, di soffermare l’attenzione sugli effetti della riforma costituzionale nei confronti delle Regioni a statuto speciale. Infatti, è noto che tali Regioni, tra cui in particolare la Sicilia, la Sardegna e il Friuli Venezia Giulia hanno riconosciuta dai rispettivi Statuti, una competenza legislativa esclusiva sullo stato giuridico ed economico del personale regionale. Tale competenza incontra i suoi limiti nella Costituzione e nelle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali”. Ci si è chiesti se tale competenza abbia subito modifiche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V. In particolare il dubbio ha riguardato la persistenza del limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale. Va condivisa la dottrina secondo cui il limite è ancora vitale, almeno per quanto concerne la suddetta materia. Infatti, va ricordato quanto affermato dall’art. 10 della legge di riforma costituzionale n. 3/2001, secondo cui le disposizioni di siffatta legge “si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Quindi, delle due l’una. O si ritiene che la materia dello stato giuridico ed economico del personale rientri oggi nella competenza legislativa esclusiva/residuale delle Regioni a statuto ordinario, e allora si potrebbe sostenere che il suddetto limite sia venuto meno. Oppure, si opta per la tesi prevalente, in base alla quale le Regioni a statuto ordinario non posseggono l’anzidetta competenza nemmeno nel mutato quadro costituzionale. Di conseguenza il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale continuerebbe a persistere nei confronti della competenza legislativa esclusiva delle Regioni a statuto speciale in ordine al proprio personale; competenza che rimarrebbe una peculiarità di queste ultime Regioni[3].

Va ricordato che, alla stregua dell’art. 1, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 165/2001, “i principi desumibili dall’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica”. L’esperienza dimostra che il suddetto limite non ha impedito alle Regioni a statuto speciale di darsi un’organizzazione amministrativa e un ordinamento del personale differenziati rispetto alla disciplina statale e, almeno formalmente, più adeguati alle peculiari esigenze regionali. La medesima esperienza mette in luce come talvolta il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale abbia costituito l’argine nei confronti di tentativi di utilizzare l’autonomia regionale per soddisfare esigenze lontane dal perseguimento dell’interesse pubblico. Questo è il caso esaminato dalla sentenza n. 314/2003 della Corte costituzionale. Infatti, qui era in discussione la legittimità costituzionale di un disegno di legge della Regione siciliana che estendeva un particolare trattamento economico e normativo, previsto per il personale regionale, ai dipendenti di altri enti. La Consulta blocca tale tentativo censurando la legge regionale sulla base dell’affermazione secondo cui “la disciplina dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche…, disciplina alla quale intende concorrere per le fattispecie particolari previste la normativa impugnata, è attualmente oggetto di contrattazione collettiva”. E “questo metodo di disciplina costituisce norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica, alla stregua dell’art. 1, comma 3, della legge n. 165/2001, il quale rinvia in proposito ai principi desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, che, al comma 1, lettera a), stabilisce per l’appunto come principio la regolazione mediante contratti individuali e collettivi dei rapporti di lavoro e di impiego nel settore pubblico”. Così, per questi motivi la Corte dichiara la fondatezza della suddetta questione di legittimità costituzionale.

   

7. Orbene, anche rispetto al lavoro pubblico, il nuovo quadro costituzionale pone molti interrogativi che restano ancora insoluti, e permette di escogitare le più disparate (e tra loro contraddittorie) soluzioni. E’ logico auspicare che sarà la Corte costituzionale a fissare coordinate più precise. Anche se alcune argomentazioni contenute nelle decisioni già esaminate in queste pagine lasciano all’osservatore più dubbi che sicurezze. Però, non va trascurato di considerare che la Consulta, molto spesso, non è in grado di offrire soluzioni generali, ma risponde alla specifica domanda oggetto della decisione. E quindi alcune pronunce rispondono all’urgenza del momento, rendendo difficile una loro applicazione più estesa. La diffusa incertezza sulla portata della riforma, peraltro, non può non contagiare la stessa Corte costituzionale: tutto ciò spiega, probabilmente, alcuni passi contraddittori e criticabili, come quelli, per esempio, della già citata decisione n. 274/2003.

Inoltre, è anche vero che la Consulta tende a non affrontare di petto le questioni sollevate di fronte ad essa e a censurare le disposizioni impugnate (sia regionali sia statali) solo quando non via sia altra soluzione più accomodante e compromissoria. Tuttavia, la scelta verso una lettura soft del nuovo assetto costituzionale può non costituire la migliore soluzione, perché le parole del Giudice delle leggi, anche nelle sentenze di rigetto, hanno la capacità di destare ulteriori e più gravi interrogativi. Ciò è confermato dalla sentenza 13 gennaio 2004 n. 2. In questa complessa decisione viene, tra l’altro, esaminata la questione di legittimità costituzionale, ex art. 117, comma 2, lettera l), Cost., dell’art. 50, comma 5, dello statuto della Regione Calabria, secondo cui “nell’esercizio della potestà statutaria, legislativa e regolamentare, la Regione provvede a disciplinare il regime contrattuale dei dirigenti, l’attribuzione e la revoca degli incarichi, l’accertamento della responsabilità e la comminazione delle sanzioni, nonché ad istituire il ruolo dei dirigenti della Regione e il ruolo dei dirigenti del Consiglio regionale”. Come osserva la Consulta, “il Presidente del Consiglio dei Ministri impugna tale disposizione dello statuto solo ‘nella parte in cui attribuisce alla potestà statutaria, legislativa e regolamentare della Regione la disciplina del regime contrattuale dei dirigenti’, poiché in tal modo riconoscerebbe alla Regione stessa competenze riservate allo Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera l), della Costituzione (materia ‘ordinamento civile’), atteso che gli aspetti fondamentali del rapporto di lavoro privato e quindi del rapporto di lavoro pubblico, oltre che la disciplina del rapporto sindacale, rientrerebbero nella nozione di diritto civile”. Aggiunge la Corte che “la Regione Calabria riconosce in modo espresso che sicuramente la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, quella contenuta nelle leggi civili, può essere attratta alla competenza legislativa dello Stato nell’ambito della materia ‘ordinamento civile’; peraltro la resistente sostiene che andrebbe escluso che a questa materia siano riconducibili le procedure e le modalità della contrattazione collettiva, da ritenersi riservate all’autonomia degli enti direttamente interessati. In ogni caso – sempre secondo la resistente – già oggi parte della contrattazione collettiva si svolge in sede regionale ed in ambito locale. La norma statutaria si limiterebbe quindi a richiamare questa realtà, e cioè che la Regione disciplina con provvedimenti normativi il regime procedimentale della contrattazione con i propri dirigenti, ovviamente per la parte di sua competenza; ma anche se si affermasse la contrattazione a livello nazionale dei dirigenti regionali, ‘la norma manterrebbe la sua validità relativamente agli aspetti della disciplina contrattuale che restano affidati alla competenza regionale’.”.

A questo punto la Consulta svolge una serie di considerazioni estremamente interessanti, benché  non del tutto lineari. E cioè sostiene che “una interpretazione del genere della norma statutaria deve essere considerata non implausibile e compatibile con la disciplina costituzionale, nonché con la stessa legislazione statale vigente in materia di ordinamento della dirigenza pubblica; se, infatti, la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le Regioni (da ultimo, le sentenze n. 314 e 274 del 2003), le quali pur sono dotate, ai sensi del quarto comma  dell’art. 117 Cost., di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale, deve rilevarsi che la stessa legislazione statale in materia di ordinamento della dirigenza non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia, dal momento che anzi prevede espressamente che ‘le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare… adeguano ai principi dell’art. 4 e del presente Capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità’.”. E qui viene appunto citato l’art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001.

Diversi passaggi dell’argomentazione della Corte, però, lasciano perplessi. In primo luogo, il richiamo all’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001 appare forzato, in quanto, come s’è già accennato, secondo l’opinione dominante, sarebbe venuta meno l’efficacia di tale disposizione nel nuovo quadro costituzionale. La precedente sentenza n. 274/2003, è erroneamente richiamata, perché essa non esamina le questioni inerenti alla privatizzazione e alla contrattualizzazione del lavoro pubblico, bensì la compatibilità di varie disposizioni di una legge della Regione Sardegna con le norme costituzionali. Poi, la Consulta non è del tutto chiara nello stabilire ciò che è di sicura competenza legislativa regionale. Se solo “il regime procedimentale della contrattazione con i propri dirigenti”: e su questo non dovrebbero esservi dubbi. Ovvero se anche “la disciplina del regime contrattuale dei dirigenti”; inteso questo come includente (non solo gli aspetti riconducibili all’organizzazione amministrativa: modi e forme di reclutamento, il ruolo, l’incarico di funzioni, bensì perfino) i profili privatistici di regolazione del rapporto: i diritti e gli obblighi delle parti, il recesso e così via. E qui, se si arrivasse a riconoscere la competenza legislativa regionale proprio in relazione a tali ultimi aspetti, vi sarebbe un indubbio sconfinamento nell’area della potestà legislativa esclusiva dello Stato.

E’ vero comunque che l’integrale esame del ragionamento della Corte e della stessa norma impugnata fa propendere per l’accoglimento della prima soluzione. Però è anche vero che a favore della seconda lettura può essere utilizzata la frase della Corte in forza della quale Regioni sarebbero dotate, “ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale”. Ma pure questo periodo risulta contraddittorio con la precedente affermazione della Corte sulla persistente vitalità dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001. Insomma, sorge il problema di come possa essere compatibile una potestà legislativa esclusiva/residuale delle Regioni in materia di “ordinamento del personale” con il mantenimento dell’efficacia dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001, che appunto si pone come ostacolo alla suddetta potestà legislativa.       

 In considerazione di tale andamento della giurisprudenza della Consulta, al momento, quindi, pare opportuno aderire alla realistica osservazione, secondo cui “anche se l’ultima parola spetta alla Corte costituzionale, è auspicabile che Stato e Regioni trovino una soluzione compromissoria di reciproca soddisfazione; e la trovino nello spirito di quella leale collaborazione destinata ad assurgere a regola aurea di prevenzione e soluzione delle jurisdictional disputes di una neo-Repubblica ‘federalista’ priva di qualsiasi camera istituzionale di compensazione, a cominciare da un Senato delle Regioni”[4].

Sotto questo profilo, bisogna dire che le Regioni hanno cercato di suggerire l’adozione di soluzioni morbide e interlocutorie. Infatti, è istruttiva la lettura del documento del 21 marzo 2002 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni. Qui, al di là di qualche affermazione troppo drastica, ma comprensibile, visto il ruolo politico della Conferenza dei Presidenti, è percepibile la tendenza a non forzare la mano e ad auspicare un ampliamento degli spazi di azione a livello regionale, realizzabile attraverso una riduzione del ruolo del contratto nazionale e un’estensione delle competenze della contrattazione integrativa. Questa soluzione sarebbe la migliore, perché di fatto ridurrebbe le pressioni verso un esercizio incontrollato della potestà legislativa regionale, lasciando alla contrattazione collettiva il compito di trovare gli equilibri più adeguati. Peraltro, un utile meccanismo volto a garantire il contemperamento tra autonomia ed esigenze unitarie potrebbe essere rappresentato, seguendo il suggerimento di una condivisibile dottrina, dalla istituzione di organismi di coordinamento tra Stato e Regioni che fissino requisiti minimi comuni rispetto ai quali possa poi esplicarsi in pieno la competenza legislativa e contrattuale delle amministrazioni regionali[5]. 

Orbene, si apre una stagione in cui collaborazione e coordinamento dovrebbero diventare i punti cardinali di orientamento dell’azione dei molteplici poteri che operano a livello istituzionale, per garantire un adeguato equilibrio tra differenziazione, rispetto delle autonomie, eguaglianza e progresso sociale ed economico del Paese.

La strada appare lunga e incerta. Non è dato intravedere il futuro. Ma il compito del giurista è appunto quello di cercare di contribuire, per quanto possibile, ad illuminare tale percorso.

 

 

[1] Per un quadro generale cfr. F. CARINCI, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2003, pag. 17 ss.; A. GARILLI, Profili dell’organizzazione e tutela della professionalità nelle pubbliche amministrazioni, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2004, pag. 134 ; ID., Diritto del lavoro e nuovo assetto dello Stato, in Riv. Giur. Lav., 2004, I, pag. 343 ss.;  L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, in Diritto del lavoro, Commentario, diretto da F. CARINCI, vol. V, tomo I, Torino, 2004, pag. 54 ss; ASTRID, La legislazione del lavoro fra Stato e Regioni, Roma, 2002; R. SALOMONE, Il lavoro pubblico regionale e il nuovo art. 117 Cost all’esame della Corte costituzionale, in Lav. Pubb. Amm., 2003, pag. 595 ss.

[2] A. GARILLI, Profili dell’organizzazione, cit., pag. 134.

[3] Cfr. M. MARINELLI, Federalismo e diritto del lavoro: il caso della Sicilia, in Lav. Pubb. Amm., 2004, pag. 412 ss.

[4] F. CARINCI, Regola maggioritaria, alternanza e bulimia riformatrice, in Lav. Pubb. Amm., 2002, pag. 850.

[5] Cfr. A. GARILLI, Diritto del lavoro, cit., pag. 361.