***Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro (di Mario Meucci)

Sommario: 1. Il nuovo assetto dei danni risarcibili - 2. Lo sganciamento del danno morale risarcibile dal riscontro dell’illecito penale - 3. Il danno esistenziale nel nuovo assetto dei danni risarcibili - 3.1. Segue: Danno esistenziale e prova per presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c. - 4. La rilevanza del danno esistenziale nel campo delle lesioni dei diritti della personalità del lavoratore: pregiudizio alla professionalità e prova per presunzioni - 5. Oneri probatori e attenzioni contro le duplicazioni risarcitorie.

 

1.      Nel periodo compreso tra i mesi di maggio/luglio 2003 e gennaio 2004 sono state redatte alcune importanti decisioni della Corte costituzionale ([1]) e della Corte di Cassazione ([2]) ? condivise e richiamate da una recentissima sentenza di merito ([3]) sul mobbing nella pubblica amministrazione ?, tutte emesse sul tema della responsabilità risarcitoria da atto illecito, che hanno indicato e delineato un nuovo orientamento rispetto al precedente assetto del risarcimento del “danno ingiusto” (assetto notoriamente riposante sulla tripartizione nelle tradizionali tre componenti del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale – cioè a dire del danno morale soggettivo – e del danno biologico, attinente eminentemente alla lesione dell’integrità dello stato di salute psico-fisica, ma dalla giurisprudenza pregressa della Corte costituzionale e della Cassazione dilatato a copertura di altri danni di natura relazionale e sociale).

 

Seppure fosse già stata da tempo elaborata in sede dottrinale (con recepimento da parte di isolata giurisprudenza di merito e di sporadiche sentenze della Cassazione) la figura di un nuovo tipo di danno, denominato “esistenziale”, le intervenute decisioni (della Consulta e della Cassazione) hanno accolto pienamente la nuova fattispecie ed hanno stabilito che una lettura costituzionalmente orientata delle nostre norme codicistiche (art. 2059 c.c., in particolare) fa sì che si debba riconoscere nell’ordinamento una più moderna o nuova ripartizione dei danni risarcibili da atto illecito, facente perno sulla dicotomia tra a) danno patrimoniale (consistente nella perdita di un bene o utilità monetariamente quantificabile) e b) danno non patrimoniale, slegato da oggettive quantificazioni monetarie. A sua volta il danno patrimoniale sub a) è suddivisibile nelle due specie del a.1) danno emergente e del a.2) danno da lucro cessante. Il danno non patrimoniale sub b) è a sua volta strutturato nelle tre sottospecie del danno morale soggettivo (c.d. pretium doloris o patema d’animo), inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo o transeunte, turbamento dello stato d’animo della vittima, di cui si afferma ora espressamente la risarcibilità indipendentemente dal vincolo o collegamento all’ipotesi del reato, sganciando il danno de quo dal collegamento a fatti o atti con riconosciuta rilevanza penale ex art. 185 c.p. (b.1); del danno biologico inteso in senso stretto, come sola lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, lesione accertata da una valutazione medica (art. 32 Cost.), in armonia con la nuova definizione di tale interesse rinvenibile anche nell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 di riassetto dell’INAIL e nell’art. 5 della l. n. 57/2000 (che introduce la griglia degli importi risarcitori del danno biologico di lieve entità da incidenti stradali; il danno biologico è anche qui qualificato come lesione all’integrità psico-fisica “suscettibile di accertamento medico legale”) (b.2); del danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (b.3).

 

Esemplificativamente - ma non esaustivamente - per la migliore comprensione del lettore, la lesione di interessi di rango o rilevanza costituzionale, rifluenti nella fattispecie (ad ampia portata) del danno esistenziale, è stata riconosciuta in dottrina ed in giurisprudenza nei casi: di danno alla reputazione per effetto di diffamazione; di danno alla professionalità da dequalificazione (o demansionamento) lesiva del diritto costituzionale del lavoratore all’autorealizzazione nel lavoro e nella comunità d’impresa e, più in generale, nella società (art. 2 Cost.); nel danno da infortunio per mancata adozione dei presidi di sicurezza; nel danno alla riservatezza per violazione della privacy e per modalità scorrette nella raccolta di dati personali; nel danno da mancata promozione per violazione delle norme concorsuali o di procedure di procedimentalizzazione contrattualmente concordate nei c.c.n.l. o in accordi aziendali; nel danno da estromissione da concorsi; nel danno da mancata collocazione in graduatorie per l’impiego; nel danno da molestie e/o violenze sessuali; nel danno da irragionevole durata del processo; nel danno da privazione della libertà personale cagionata dall’esercizio di funzioni giudiziarie; nel danno da atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; nel danno alla sfera sessuale preclusiva dei normali rapporti; nel danno da elisione dei rapporti parentali a seguito di perdita di congiunto; nel danno al diritto alla procreazione per interruzione di gravidanza; nel danno da asfissia neonatale determinante la condizione di cerebroleso; nel danno per la mancata fruizione della quiete e del riposo notturno (per immissioni e rumori eccessivi); nel danno per la mancata fruizione delle ferie (c.d. vacanza rovinata) o del riposo settimanale; nel danno da mancata protezione e difesa della persona, e così via. Danni, tutti quanti compendiabili nella lesione dell’interesse alla bontà o normalità della “qualità della vita” - nei suoi vari aspetti di svolgimento - sia a livello individuale, sia in ambito familiare e sociale.

 

In ordine alla rilevata nuova configurazione o assetto sistematico, si esprimono nello stesso senso Cendon e Ziviz ([4]), secondo i quali « la mappa generale del danno aquiliano sarebbe …da articolare, per il futuro, secondo una scansione intonata al 2+3 o al 2+2 » (quest’ultimo caso ricorre qualora il danno biologico venisse ricondotto nell’ambito del danno esistenziale, cosa che noi, allo stato, non ci sentiamo di condividere).

 

 

 

2.   L’occasione per la delineazione del nuovo assetto dei danni risarcibili da fatto illecito si è presentata in sede di esame del danno morale, in due vertenze giudiziarie decise dalla Cassazione civile nello stesso giorno 31 maggio 2003 (nn. 8827 e 8828), in cui si eccepiva, ad es. nella fattispecie più monetariamente corposa costituita da Cass. n. 8827, la (presunta) duplicazione risarcitoria reperibile nella liquidazione equitativa operata con somma indennitaria onnicomprensiva, a fronte di danno morale da acuta sofferenza dei genitori e di danno esistenziale perenne per gli stessi (che la Corte d’appello di Bologna aveva, erroneamente - ma correttamente secondo il pregresso orientamento - ricondotto nell’alveo “dilatato” del danno biologico) i quali, per effetto di convivenza ed accudimento del figlio cerebroleso a seguito di asfissia neonatale indotta dai medici, si erano ritrovati “frustrati nell’aspettativa di una normale vita familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale conduzione di vita, ad una serena vecchiaia, …privati del rapporto genitore-figli, unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle necessità del figlio ridotto in condizioni pressochè vegetative”. L’eccezione della Compagnia di assicurazione - in ordine alla liquidazione di un danno morale in assenza di un riscontro di reato da parte dei sanitari, reato richiesto dalla lettera dell’art. 2059 c.c. - è stata disattesa, così come è stata disattesa (nella decisione n. 8828/2003) analoga eccezione, in fattispecie di danno morale da perdita di congiunto in un incidente automobilistico in cui, mancando l’accertamento della responsabilità di uno dei conducenti, la stessa è presunta dall’art. 2054 c.c. e ripartita in pari misura tra i due conducenti.

 

L’art. 2059 c.c., invocabile in presenza di danno non patrimoniale, è stato da queste sentenze della Cassazione (finalmente) depenalizzato - o, come altri hanno detto, “normalizzato, costituzionalizzato, ‘duemilaquarantatreizzato’ ([5]) - , sganciando il risarcimento del danno morale (la sofferenza interiore più o meno acuta e di varia durata, comunque transeunte) dal riscontro del reato, correlandolo invece al riscontro dell’essere la sofferenza stata causalmente conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti (nel caso: il rapporto familiare e parentale, riposanti sul riconoscimento costituzionale, ex art. 29, 1 c., Cost., dei “diritti di famiglia” latamente intesi). Ed è stato “depenalizzato” con queste incisive, convincenti, argomentazioni: « Si deve quindi ritenere ormai acquisito all'ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".

 

«Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all'interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell'ammissione al risarcimento, in riferimento all'art. 2059, è l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.

 

«Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l'art. 2059 del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l'art. 89 c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (… ).

 

«D'altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.» (Cass. n. 8828/03, cit.).

 

 

 

3.   Alla nuova elaborazione - o nuovo assetto dogmatico dei danni ingiusti, delineato al par. 1 del presente articolo - si è pervenuti dal lato e sul versante della enucleazione e valorizzazione del danno esistenziale, dopo che è stata notata l’insufficienza della vecchia tripartizione (danno patrimoniale, biologico, morale derivante da illecito penale) a coprire ipotesi di danno da lesione di diritti della personalità costituzionalmente garantiti, diversi dalla compromissione medico-legale della salute e dal danno psichico clinicamente accertato, nel caso in cui tali pregiudizi - riconducibili sempre e comunque al danno ingiusto ex art. 2043 c.c.- non sfociavano o non si accompagnavano a comportamenti penalmente rilevanti (ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.), tali da occasionare la soluzione risarcitoria attraverso la fattispecie del danno morale.

 

Poiché la Corte costituzionale e la Cassazione avevano da tempo affermato a chiare note che «la vigente Costituzione, garantendo principalmente i valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli della Carta fondamentale (che tutela i valori predetti) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi subiscono a causa dell’illecito» ([6]), «l’art. 2043 c.c. …deve essere necessariamente esteso a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni patrimoniali in senso stretto, ma con eccezione del danno morale, tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana» ([7]).

 

Conseguenza di tali pregresse notazioni fu la nascita (e ora l’accreditamento pacifico) del cd. danno esistenziale – come categoria o sottospecie del danno non patrimoniale (distinto dal danno biologico, soggetto al riscontro dei c.t.u. e dei medici legali) -, tramite il quale il magistrato dovrà prendere in considerazione, a fini risarcitori, tutte le lesioni, riconducibili a fatto ingiusto, inferte ai diritti della personalità costituzionalmente protetti, che nel campo lavoristico rilevano in forma di garanzia della personalità morale e della dignità del lavoratore (ex art. 41, secondo comma, Cost.). I valori della libertà e dignità del prestatore d’opera sono affermati costituzionalmente come  incomprimibili dalle esigenze della libertà di inziativa privata d’impresa, e si attualizzano in forma di autorealizzazione nel lavoro e nella comunità di lavoro o in altre aggregazioni ove si sviluppa la personalità del cittadino-lavoratore (artt. 1, 2, 3, 4, 35 Cost.), in forma di rispetto della personalità, il che implica l’ assoluto divieto di inflizione di mortificazioni e vessazioni tanto sistematiche e volontarie (spesso sorrette, anche se non necessariamente, dall’animus nocendi) quanto ingiustificate, unitamente (al) e in conseguenza del diritto al rispetto in quanto persona.

 

Questi pregiudizi non potevano rientrare (se non forzatamente e irragionevolmente) sotto l’ombrello del danno biologico – nonostante ci si sia sforzati in dottrina ed in giurisprudenza a coprire con esso oltre alla lesione della salute, l’aspetto estetico, quello dell’efficienza sessuale, quello edonistico o della normale vita di relazione – giacché il danno biologico è stato, dalla più condivisibile dottrina, collegato di necessità e correttamente alla salvaguardia della salute, ex art. 32 Cost., e quindi copre (unitamente al danno psichico invalidante che ne è una sfaccettatura) le sole lesioni all’integrità psico-fisica, suscettibili di essere acclarate dalla scienza medica, con i suoi strumenti diagnostici.

 

E’ stato giustamente osservato che il danno esistenziale copre, invece, quelle situazioni esemplificativamente riconducibili al diritto a che la propria quotidianità non peggiori per effetto di calunnie, al diritto a non essere insidiati nei propri segreti, al diritto del bimbo a non essere dimenticato da chi dovrebbe mantenerlo, del recluso a non essere colpito nei suoi diritti di recluso, a non essere molestati sessualmente, e - nel campo del lavoro - a non essere licenziati ingiustamente, a non essere demansionati e professionalmente degradati, a non essere costretti a lavorare in condizioni e senza presidi di sicurezza, a non essere mortificati e vessati ingiustificatamente come avviene nelle varie ipotesi di mobbing.

 

Seguendo questa posizione dottrinale, il danno esistenziale, quale categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali diversi da quelli morali, fagociterebbe (semplificando i giudizi e conferendo maggiore chiarezza all'ordinamento) il danno biologico, quello alla vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, ecc.; ma, secondo altra e diversa prospettazione, il danno esistenziale andrebbe ad affiancarsi a quello biologico di matrice medico-legale (posizione allo stato da noi condivisa).

 

La nozione di danno esistenziale andrebbe, poi, ad assolvere la funzione di riempire uno spazio vuoto, ovvero un'intera area di danni privi, di fatto, di tutela risarcitoria. Si osserva, in particolare, che il nostro sistema risarcitorio - prima dell’attuale riassetto bipolare - era fondato sulla tricotomia danno biologico/danno morale/danno patrimoniale: il danno biologico (recte, la lesione della salute conseguente ad un danno biologico) costituisce un peggioramento della qualità della vita del danneggiato, causalmente dovuto a una lesione in corpore (intendendo per tale anche la compromissione dell'integrità psichica ); il danno morale costituisce una mera sofferenza morale, una prostrazione dell'animo, un abbattimento dello spirito; il danno patrimoniale, infine, costituisce una deminutio patrimonii.

 

Questi tre tipi di danno, tuttavia, non coprono l'intera gamma dei pregiudizi che il danneggiato può risentire in conseguenza dell'altrui illecito; se infatti questo non integrava - secondo la superata lettura dell’art. 2059 c.c. ora depenalizzato - gli estremi di alcun reato, ovvero non ha causato una riduzione delle entrate o del patrimonio, o ancora non ha causato una compromissione dell'integrità psicofisica, parrebbe non sussistere alcuna ipotesi di danno. In realtà così non non è - come ha rilevato da tempo anche la Cassazione -, in quanto sono assai frequenti le ipotesi in cui l'atto illecito del terzo, pur non incidendo né sulla salute, né sul patrimonio della vittima, gli preclude lo svolgimento di attività non remunerative, sino ad allora abituali e gratificanti: in questa perdita risiede il danno esistenziale, che può essere definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell'integrità psicofisica.

Il danno esistenziale si differenzierebbe, quindi, dai tre consueti tipi di danno: da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche o del corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza (la quale ovviamente può essere indotta dal danno, ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad un'attività concreta; dal danno patrimoniale, in quanto non consiste in una diminuzione reddituale.

 

 

3.1.         Questi diritti costituzionalmente protetti ed ingiustamente lesi debbono essere riconosciuti ed indennizzati, a prescindere dalle difficoltà in cui potrà imbattersi il magistrato nel loro riscontro, e per i quali il danneggiato dovrà fornire indizi semplici ma concludenti in ordine alla durata, entità ed intensità del pregiudizio subito, al fine di far azionare al magistrato il ricorso (non disinvolto ma ponderato) alle presunzioni - che gli artt. 2727-2729 c.c. legittimano quale mezzo prudente di prova atto a far dedurre da un fatto noto, tramite indizi precisi, gravi e concordanti, un fatto ignoto altrimenti destinato a restar tale in presenza di situazione implicante la c.d. probatio diabolica, presunzioni cui spesso si é ricorsi usualmente nel campo lavoristico ed addirittura in quello più delicato del riconoscimento di paternità ([8])- integrabili o surrogabili, a fini della formazione del convincimento del magistrato, con l’uso del comune buon senso o del fatto notorio per nozione di comune esperienza ex art. 115 c.p.c..

 

Non è superfluo ribadire più incisivamente che le presunzioni costituiscono uno dei mezzi di prova affidati alla “prudenza” del giudice, legittimate dal codice nel processo del lavoro e nel processo civile, in specie su eventi o danni a connotazione intrinsecamente probabilistica (quali la perdita di chance promotiva e di ricollocazione esterna per obsolescenza da demansionamento o forzata inattività). Come affermato dalla S.C. in una pronuncia in tema di licenziamento discriminatorio desunto per concordanti presunzioni (sfocianti nel brocardo id quod plerumque accidit), nel processo del lavoro vi sono prove ardue o diaboliche da superare dal lavoratore e «proprio per temperare tali effetti, da tempo la giurisprudenza ammette che in simili fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri conferitigli dall'art. 421 c.p.c., facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui agli artt. 2727-2729 c.c. In base all’art. 421 c.p.c., nel processo del lavoro il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto» ([9]). Secondo il corretto insegnamento della Cassazione ([10]), «nella prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto (quale ad esempio la perdita di chance promotiva e di riallocazione esterna per obsolescenza, n.d.r.)sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare possa essere desunto dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, ossia che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto venga accertato alla stregua dei canoni di probabilità» - come potrebbe essere la chanche della mancata promozione per il demansionato, giacchè il datore di lavoro che lo “mobbizza” deliberatamente gli infligge anche la vessazione della mancata promozione: e la prova al magistrato della discriminazione indebita potrà esser data evidenziando concludentemente che i colleghi di pari anzianità e con similari o identiche mansioni l’hanno invece ricevuta -, con la precisazione che «l’apprezzamento del giudice di merito circa l’inesistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e la loro rispondenza ai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici» ([11]).

 

Per la tutela di situazioni di danno “in zona grigia” è stata elaborata già da tempo – ed ora recepita dalla stessa Consulta nella decisione n. 233/2003 - la categoria del “danno esistenziale”. Come si era fatto notare, nel passato prossimo, in dottrina: «più volte gli stessi giudici si sono trovati di fronte a situazioni sicuramente ingiuste, per lo meno rispetto alla sensibilità sociale che il magistrato impersona e concretizza nel momento interpretativo/applicativo della norma, tuttavia senza la possibilità di condannare il responsabile al risarcimento del danno, a causa della mancanza di una condotta di tipo penale in grado di ammettere l’esistenza del danno morale» ([12]).

 

Si era anche condivisibilmente osservato che per essere coerenti con le indicazioni della Corte costituzionale che ha legittimato nel 1986 il danno biologico in relazione a lesioni della salute, se altri diritti sono assistiti da pari garanzie costituzionali, ed è questo il caso dei diritti inviolabili della personalità, non può non essere fatto valere nei confronti delle lesioni di essi lo stesso ragionamento fatto per le lesioni del diritto alla salute: vale a dire, anche in questi casi (in precedenza esemplificati e ricondotti nella categoria del danno esistenziale) il danno non patrimoniale deve essere risarcito ex art. 2043 c.c. come species di danno ingiusto ([13]).

 

Nello svolgimento evolutivo della tematica ha prevalso la tesi – affermata ora esplicitamente da Corte cost. n. 233/2003 e da Cass. n. 2050/2004 – dell’autonomia della nuova figura del danno esistenziale, quale fattispecie di danno non patrimoniale.

 

Tale species di danno è quello conseguente alla lesione di un “diritto della personalitàdi rango costituzionale, in grado di contenere anche tutte quelle figure risarcitorie che, seppure sorte nell’ambito del danno biologico, tuttavia non concernono direttamente il diritto alla salute, quanto piuttosto il profilo relazionale-sociale. Il danno esistenziale, così come è stato prospettato e recepito autorevolmente, verrebbe – pertanto - a tutelare interessi diversi ed ulteriori rispetto a quelli del “danno biologico” (perché non circoscritti al solo diritto alla salute), dal momento che assicurerebbe una salvaguardia risarcitoria a fronte di ogni modificazione peggiorativa patita dal danneggiato nell’esplicazione della propria personalità, intesa come valore fondamentale dell’individuo, cui l’ordinamento deve tendere e perciò tutelare adeguatamente.

 

L’esigenza di riconoscimento del danno esistenziale, d’altra parte, si imponeva in quanto un eventuale disconoscimento avrebbe finito per realizzare una disparità di trattamento del tutto ingiustificata ove si consideri la perfetta assimilabilità – dal punto di vista ontologico – tra danno biologico e danno esistenziale, derivante dalla lesione di altre situazioni costituzionalmente garantite.

 

E’ stato ancora condivisibilmente ricordato - da attento autore prima ([14]) e da Cass. n. 2050/2004 poi - che alla contrapposta critica ([15]), secondo cui il riconoscimento della nuova figura di danno avrebbe alimentato quel processo di incontrollata estensione del raggio applicativo dell’art. 2043 c.c., si può replicare sottolineando come il criterio selettivo per valutare la portata dell’interesse leso dal fatto illecito altrui non può che essere dato dai valori affermati nella Carta fondamentale, «al fine di evitare [...] che germoglino richieste di tutela risarcitoria in relazione a posizioni soggettive che l’ordinamento giuridico non eleva a diritti inviolabili dell’uomo costituzionalmente tutelati» ([16]). La tutela risarcitoria non è dunque invocabile nel caso di generici pregiudizi esistenziali – quelli che Cass. n. 2050/2004 definisce ironicamente “bagatellari” - conseguenti alla lesione di un qualsivoglia interesse, bensì soltanto nel caso di lesione di beni-interessi che godano di una copertura, diretta o indiretta, di rango costituzionale. In tali casi soltanto, riconosciuto il valore assoluto dei diritti inviolabili come beni e valori personali, garantiti dalla Costituzione come diritti fondamentali dell’individuo, al pari della salute, il pregiudizio alla sfera esistenziale cagionerà un danno riparabile in quanto suscettibile di valutazione patrimoniale, attraverso il ricorso al potere equitativo del giudice.

 

Questa nuova figura di danno, attraverso la quale si riconosce un autonomo spazio di salvaguardia anche sul terreno risarcitorio ai valori della persona (diversi dal diritto alla salute ex art. 32 Cost.) si viene così ad inserire – nel nuovo assetto delineato dall’orientamento della Corte costituzionale e della Cassazione - nell’ambito del danno non patrimoniale, quale sottospecie ad ampio raggio contenutistico. Riteniamo poi - come fu osservato ([17]) - che dalla avvenuta legittimazione di tale nuova figura di danno (esistenziale) non discenda consequenzialmente un’indebita duplicazione delle poste attive nella sfera giuridica del soggetto leso, perché anche laddove per effetto della lesione ingiusta concorrano le diverse voci di danno, il giudice dovrà pur sempre procedere ad una valutazione complessiva del pregiudizio subito, con un procedimento logico-giuridico motivato e sindacabile (in tal senso si è espressa la giurisprudenza della S.C.). In questi casi, trattandosi comunque di risarcimento equitativo, il giudice sarà obbligato a operare «un’allocazione globale delle somme che sia equa» ([18]), contemperando a tal fine le diverse somme dovute per le singole voci di danno, che se considerate autonomamente potrebbero portare alla quantificazione di una somma complessiva non equa rispetto al caso in questione, se costituite dalla mera sommatoria aritmetica di titoli non sempre autonomi di per sé, ma correlati concausalmente nella determinazione dell’effetto pregiudizievole per la persona. Inoltre, se e in quanto ne ricorrano i presupposti di legge, può essere riconosciuto addizionalmente al danno esistenziale il risarcimento del danno biologico per lesione – sanitariamente accertata con ricorso o no a c.t.u. e individuazione del grado di invalidità permanente (desumibile dalla tabella allegata al d.m. Sanità del 5 febbraio 1992 emessa per la valutazione dell’invalidità civile, ovvero, in caso di malattia professionale o infortunio, dalla “tabella per le menomazioni” emessa dal Ministero del lavoro con d.m. 12 luglio 2000 in applicazione del d. lgs. n. 38 del 2000 di riforma dell’INAIL) – nonché il danno morale ex art. 2059 c.c. ([19]).

 

In passato per coprire la molteplicità dei danni, in specie quelli correlati alla sfera psichica, di carattere transitorio e suscettibili di remissione (ansia, disturbi post-traumatici da stress, depressione, e simili) è stata “superutilizzata” la figura o fattispecie del danno biologico, anche quando le alterazioni non erano tali da determinare una patologia cronica e invalidante (secondo le varie misure percentuali tabellate). Questo “necessitato” abuso d’utilizzo - in mancanza di una pacifica accettazione del danno esistenziale - mette ora in chiara evidenza una carente valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 2087 c.c. ([20]), con evidente pregiudizio per le ragioni del prestatore di lavoro, in particolare, nelle ipotesi in cui il danno collegato alla lesione dei diritti della personalità finiva per costituire l’unica voce di danno possibile. In casi di questo genere la giurisprudenza si è a lungo sforzata di rintracciare comunque nella lesione della professionalità, della dignità e della personalità del lavoratore una sindrome psichica, vale a dire una vera e propria lesione della salute, piuttosto che ammettere la risarcibilità del danno collegato alla compromissione della sfera esistenziale-personale del prestatore di lavoro ([21]).

 

Non v’è dubbio alcuno che l’introduzione della figura del danno biologico nel sistema abbia generato effetti creativi o di trascinamento nel diritto vivente della nuova figura del danno esistenziale, per aver rappresentato  l’introduzione del danno biologico «un cambiamento di approccio nei confronti della protezione della persona complessivamente intesa» ([22]), favorendo la «rifondazione di un sistema di ‘diritto civile costituzionale’, imperniato sulla ‘funzionalizzazione’ delle situazioni soggettive patrimoniali alle situazioni esistenziali, cui si riconosce, per l’appunto in ossequio ai canoni costituzionali, una indiscutibile preminenza» (