La certificazione nei rapporti di lavoro (di Antonio Ianniello)

1 - La finalità dichiarata dell’istituto della certificazione dei rapporti di lavoro, come espressamente indicato in apertura dell’art. 5 della legge di delega 14 febbraio 2003 n. 30, è quella di “ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro”, evidentemente per una maggiore certezza che dalla certificazione può derivare.

 

Lo sfondo in cui si colloca l’iniziativa è quello di una giustizia del lavoro che, pur con qualche miglioramento negli ultimi due anni, presenta tempi di durata che si avvicinano a quelli del processo civile ordinario: vale dire tempi medi di due anni per l’esaurimento di una causa di lavoro in primo grado e di tre in grado di appello; ancora peggiore è poi la situazione del processo previdenziale.

 

Quali le cause del progressivo appesantimento nel tempo dei risultati di una tecnica processuale che si presenta ed è tuttora valutata, anche nei progetti di riforma del processo civile, come la più adeguata per il tipo di controversie in parola?

 

Il discorso delle cause si farebbe lungo ed ha costituito e costituisce oggetto di studi, dibattiti e iniziative di interventi legislativi e nelle prassi giudiziarie.

 

Qui basti ricordare la pesante incidenza delle cause previdenziali, tra le quali prevalgono quelle la cui soluzione è affidata ad un medico e in cui la presenza del giudice gioca un modesto ruolo sul piano del controllo.

 

Ancora, si può ricordare l’incremento delle cause di lavoro dovuto all’ampliamento delle competenze (FF.SS, Poste, P.I., etc.) cui non ha corrisposto un adeguato aumento degli organici.

 

Una ulteriore causa è rinvenibile nella formazione, soprattutto in alcune regioni italiane, di comportamenti e prassi di uso distorto dello strumento giudiziale da parte di cittadini, di sindacati e di avvocati, non sempre sufficientemente contrastati dai giudici del lavoro.

 

In questo quadro di affollato contenzioso lavoristico, devo dire che quello in materia di qualificazione del rapporto, se cioè si tratti di lavoro autonomo o subordinato, ha per la verità una certa qual consistenza in termini percentuali sul totale delle controversie, ma per esperienza personale direi che si tratta prevalentemente di contenzioso relativo ad un lavoro francamente… in nero, piuttosto che di problematiche connesse alla valutazione di lavori nuovi e di incerto confine tra autonomia e subordinazione.

 

 

 

2 - Nel dibattito dottrinale e politico-sindacale che ha preceduto l’introduzione dell’istituto della certificazione erano state ipotizzate anche altre possibili funzioni della stessa.

 

In particolare, una funzione che si inserisce nel solco del dibattito corrente relativo ad una maggiore valorizzazione dell’autonomia individuale rispetto alla eteronomia per norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, che nel diritto del lavoro costituiscono uno e forse il più importante degli strumenti pensati per riequilibrare le posizioni delle parti, solo formalmente paritarie all’interno del rapporto.

 

In tale ottica, e per valorizzare l’autonomia individuale in quei rapporti in cui si ipotizza che il potere contrattuale del lavoratore sia maggiore rispetto ad altri casi, era stato infatti proposto di introdurre la possibilità di deroga individuale di alcune di tali norme inderogabili, ma allora con l’assistenza per il lavoratore di un soggetto imparziale, che certifichi l’autenticità della volontà derogatoria; assistenza estesa, in tale proposta, anche alla fase della scelta del tipo di contratto.

 

Vediamo ora come l’istituto è stato disciplinato oggi, dopo varie proposte di legge succedutesi nel tempo, quale sia la sua natura giuridica e in che misura assuma le possibili funzioni indicate e con quale efficacia.

 

 

 

3 - L’articolato relativo è contenuto agli artt. dal 75 all’84 del decreto delegato 10 settembre 2003 n. 276, che apre esplicitando ancora una volta la finalità di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione di contratti di lavoro, precisando che intende far riferimento specifico a quelli di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e a progetto, nonché dei contratti di associazione in partecipazione.

 

In successivi articoli del decreto, in conformità a quanto disposto dalla legge delega, la procedura di certificazione è poi estesa anche alle rinunce e transazioni di cui all’art. 2113 cod. civ., all’atto di deposito del regolamento interno delle cooperative riguardante la tipologia dei rapporti di lavoro attuatio che si intendono attuare con i soci lavoratori nonché con riguardo all’appalto di servizi, anche ai fini della distinzione di questo rispetto alla somministrazione di lavoro.

 

Sia la legge delega che il decreto di attuazione della stessa indicano anzitutto i caratteri volontario e sperimentale dell’istituto.

 

Volontario, in quanto la procedura può essere attivata unicamente con istanza scritta comune alle parti del contratto (o con atto unilaterale per le cooperative) e non può invece essere imposta da norme collettive, regolamenti aziendali etc.

 

E’ chiaro che tale pretesa volontarietà, per quanto riguardarapporti di lavoro, vale quello che vale, dato che normalmente i rapporti di forza contrattuale sono notevolmente squilibrati a favore del datore di lavoro.

 

Il carattere sperimentale della procedura deriva da ciò che la legge prevede la verifica della sua attuazione concreta dopo 24 mesi da parte del Ministero del lavoro, sentite le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

 

La legge nulla dice direttamente in proposito, ma si ritiene da una parte della dottrina che la certificazione circa la natura del rapporto di lavoro possa essere richiesta anche in corso di rapporto.

 

Gli organi preposti sono le commissioni di certificazione istituite presso:

a) gli enti bilaterali, istituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, ai diversi possibili livelli territoriali;

 

b) le direzioni provinciali del lavoro e le province;

 

c) le università pubbliche e private nonché le fondazioni universitarie che si registrino in un apposito albo.

 

Quindi, commissioni di varia origine e quindi probabilmente anche coesistenti nel medesimo ambito territoriale e in concorrenza tra di loro, tra le quali può peraltro essere messo ordine con l’iniziativa da parte delle stesse (o degli enti nel cui ambito sono costituite?) di concludere convenzioni per la costituzione di una commissione unitaria nel livello territoriale considerato.

 

Peraltro, in materia di certificazione del regolamento delle cooperative di cui si è detto, competenti sono unicamente le commissione istituite presso la direzione provinciale del lavoro e presso la Provincia.

 

Invece in materia di certificazione della volontà abdicativa o transattiva di diritti del lavoratore, competenti in via esclusiva sono le commissioni istituite presso gli enti bilaterali.

 

Il decreto delegato detta poi alcune regole in ordine alla competenza di tali commissioni, senza peraltro precisare esplicitamente le conseguenze delle eventuali violazioni, quando la commissione incompetente non rifiuti tuttavia l’incarico.

 

Al riguardo può peraltro ipotizzarsi l’applicabilità delle regole di impugnazione della certificazione per violazione del procedimento, di cui si dirà, con la conseguenza della piena efficacia della certificazione fino al suo possibile annullamento giudiziale.

 

 

 

4 - Le procedure da seguire per la certificazione dovranno essere determinate in sede di costituzione delle singole commissioni, ma nel rispetto di alcune regole stabilite direttamente dal decreto delegato.

 

Tra queste, mi sembrano particolarmente interessanti:

 

a) anzitutto il fatto che sono coinvolte nella procedura anche le autorità pubbliche nei confronti delle quali l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti, le quali possono presentare proprie osservazioni alle commissioni di certificazione, dopo aver ricevuto dalla direzione provinciale del lavoro notizia dell’inizio del procedimento. Penso che si tratti degli enti previdenziali e del Ministero dell’economia e delle finanze, per gli effetti che la certificazione produce anche nei loro confronti.

 

b) La seconda regola importante è quella secondo cui le procedure devono svolgersi nel rispetto di “codici di buone pratiche” che verranno adottati in futuro con decreto del Ministro del lavoro “per l’individuazione”, dice il decreto delegato, “delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi”. Tali codici recepiscono, ove esistano le indicazioni contenute negli accordi interconfederali stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

 

Ma, qual è il significato preciso della norma?Si riferisce a norme collettive indisponibili o anche a norme di legge? E quale utilizzazione è prevista: servono per valutare il rapporto da certificare oppure come sembra più logico, assolvono il diverso compito, attribuito dall’art. 81 alle commissioni di certificazione, di orientare l’attività di consulenza e assistenza effettiva delle parti contrattuali in sede di stipula del contratto di lavoro o di modifica della relativa disciplina? o addirittura, come ritenuto da una dottrina minoritaria, per definire, indirettamente, quali norme siano derogabili in sede di certificazione?

 

c) infine il decreto stabilisce che il Ministro del lavoro definisce con proprio decreto anche i moduli e formulari per la certificazione del contratto che tengano conto degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato.

 

 

 

5 - Qual è l’efficacia giuridica della certificazione?

 

La stabilisce l’art. 79 del decreto delegato, secondo cui “gli effetti dell’accertamento… permangono anche verso terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito”, ma “fatti salvi i provvedimenti cautelari” evidentemente anche di tipo anticipatorio, uno dei due possibili ricorsi nei confronti dell’atto di accertamento previsti dal successivo art. 80.

 

Un primo possibile ricorso è quello che può essere proposto, dalle parti e dai terzi nei cui confronti l’atto stesso è destinato a produrre effetti, al giudice del lavoro per sostenere l’erronea qualificazione del contratto oppure la difformità, rispetto a quanto certificato, della successiva attuazione del contratto oppure per vizi del consenso. In caso di accoglimento della prima censura la certificazione cessa di avere affetto ex tunc, dal momento della conclusione del contratto, nel secondo caso dal momento in cui si è verificata la difformità rispetto al programma certificato.

 

Questo ricorso al giudice del lavoro può essere poi proposto anche per vizi del consenso, evidentemente non della certificazione, cui pure letteralmente il vizio sembra riferito e neppure dell’istanza comune rivolta alle sedi di certificazione (al ricorso seguirebbe infatti un processo sostanzialmente inutile, l’interesse del soggetto agente essendo quello di una diversa qualificazione e non semplicemente quello di eliminare la certificazione). Più probabilmente si tratta del consenso espresso in sede di contratto certificato.

Un secondo ricorso può essere rivolto al T.A.R. per violazione del procedimento e per eccesso di potere. Anche questa pronuncia di accoglimento ha evidentemente effetti ex tunc.

 

 

 

6 - A che serve allora la certificazione, se la sua efficacia può essere spazzata via e retroattivamente da una sentenza, esattamente come avverrebbe, anche in mancanza di certificazione, con riguardo al contratto erroneamente qualificato dalle parti o che abbia avuto una attuazione diversa dal suo contenuto?

 

Del resto, il condizionamento della certificazione all’accertamento giudiziale era obbligato, dati i principi derivanti dalla Costituzione da tempo affermati dalla Corte costituzionale in ordine all’indisponibilità del tipo contrattuale, particolarmente in materia di lavoro, quando il rapporto presenti in concreto i connotati della subordinazione.

 

Alla stregua delle pronunce di tale Corte del 29 marzo 1993 n. 121 e del 31 marzo 1994 n. 115, non è infatti “consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’Ordinamento.. e a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato”. Né evidentemente sarebbe consentito dall’Ordinamento costituzionale il conferimento di una tale autorizzazione ad organismi sindacali o amministrativi come le commissioni di certificazione.

 

Resta allora che l’unica efficacia della certificazione risiederebbe nell’impedire, temporaneamente, un comportamento delle parti e dei terzi contrastante con la stessa.

 

Che non ha quasi alcun significato anzitutto tra le parti, comunque tenute, anche senza certificazione e salvo diverso accordo successivo,ad osservare il contratto stipulato, fino a che il giudice non lo qualifichi diversamente con effetto sui rispettivi obblighi e diritti.

 

Salvo forse il dato, meramente formale, che per richiedere una diversa qualificazione del contratto, occorre passare per l’impugnazione dell’atto di certificazione.

 

Comunque non può pensarsi che la certificazione impedisca la richiesta di decreto ingiuntivo, anch’esso provvedimento giudiziario che pronuncia nel merito della controversia, suscettibile di diventare definitivo se non impugnato e quindi equiparabile alla sentenza di merito che per legge travolge la certificazione.

 

Per cui l’unica vera, ma modesta, conseguenza per le parti è legata non alla certificazione, ma al comportamento complessivo tenuto in tale sede (ma anche in sede di definizione della controversia nel corso del tentativo obbligatorio di conciliazione) valutabile successivamente dal giudice in sede di liquidazione delle spese di giudizio o di risarcimento danni per responsabilità processuale aggravata.

 

E i terzi? Anche per essi vale la regola della possibilità di richiedere al giudice l’emissione di un decreto ingiuntivo.

 

Sarebbe poi contrario alle regole di buona amministrazione, ma anche di logica,che fosse impedito agli enti previdenziali e agli organi ispettivi Ministeriali di procedere ad ispezioni per accertare eventuali difformità nei fatti rispetto alla certificazioni, accertamenti necessari per attivare poi le misure giudiziarie previste avverso l’atto di certificazione.

 

Dovrebbe allora escludersi che gli enti previdenziali o anche l’Amministrazione finanziaria possano far ricorso, contro la certificazione, all’emissione di una ordinanza-ingiunzione o all’iscrizione a ruolo degli obblighi contributivi conseguenti ad una diversa qualificazione.

 

Probabilmente è proprio a questo che la legge vuole riferirsi coll’imporre gli effetti dell’accertamento anche ai terzi.

 

Peraltro, a ben riflettere, qualora tale regola venisse violata, il soggetto interessato agli effetti della certificazione dovrebbe necessariamente proporre opposizione giudiziale all’ingiunzione o alla cartella esattoriale, facendo valere l’atto di certificazione. Ma a questo punto, è evidente che l’ente previdenziale sosterrebbe sicuramente la diversa qualificazione originaria o sopraggiunta, ottenendo, se ha ragione, una sentenza dichiarativa, quindi con effetto ex tunc.

 

Si tratta pertanto in definitiva di un divieto senza necessaria sanzione per la sua violazione.

 

Analogo discorso potrebbe farsi ove si ritenesse altresì vietata - contrariamente a quanto prima sostenuto ma come altri ritiene - la richiesta di decreto ingiuntivo in contrasto con la certificazione. Anche in questo caso, infatti, il divieto potrebbe farsi valere solo con l’opposizione, deducendosi l’esistenza di una contraria certificazione, che indurrebbe l’originario richiedente a sostenerne l’erroneità o a dedurre il diverso andamento del rapporto rispetto ad essa.

 

In ragione di questa limitata, limitatissima ma comunque possibile, efficacia della certificazione anche nei confronti dei terzi, può ritenersi che le commissioni che compiono il relativo atto siano investite di una funzione pubblicistica.

 

L’atto in parola va quindi qualificato, a mio parere, non tanto nei termini di una certazione amministrativa, non esprimendo una semplice dichiarazione di scienza, cui l’Ordinamento attribuisce efficacia vincolante in ragione della qualità dell’organo da cui proviene, ma un giudizio di conformità ad un determinato tipo legale del regolamento di interessi realizzato dalle parti, giudizio che per la qualità dell’atto si impone anche ai terzi, ma solo provvisoriamente e in maniera precaria.

 

Qualità pubblicistica? Può darsi. Il che spiegherebbe l’attribuzione al T.A.R. della giurisdizione quando si tratti di contestare la violazione delle regole del procedimento o l’eccesso di potere. Attribuzione che, sempre in ragione della rilevata limitatissima efficacia giuridica della certificazione, ritengo però poco giustificata, operandosi così un riparto di giurisdizione che è facilmente prevedibile che genererà soltanto un inutile contenzioso, dato anche l’incerto confine tra l’eccesso di potere e l’erronea qualificazione e data la possibile duplicazione di giudizi, quando voglia farsi valere un diritto contrastato da una certificazione operata in violazione delle regole del procedimento.

 

Sempre sul piano del processo, rimane infine insoluto il problema dell’eventuale litisconsorzio necessario tra tutti i soggetti nei cui confronti la certificazione produce i limitati effetti indicati.

 

 

 

7 - Quanto agli ulteriori oggetti di possibile certificazione prima indicati, una menzione particolare merita la certificazione relativa alla volontà abdicativa o transattiva dei diritti dei lavoratori in caso di rinunce o transazioni di cui all’art. 2113 cod. civ., vale a dire di quelle che riguardano i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c..

 

Il decreto delegato non precisa se questa certificazione abbia una efficacia diversa da quella relativa alla qualificazione dei rapporti, in particolare se essa determini invece la definitiva non impugnabilità della rinuncia o della transazione.

 

Lo sostiene, tra gli altri, l’amico de Angelis, sulla base di riferimenti normativi di non univoco significato, come quello dell’attribuzione della relativa competenza certificatoria alle commissioni degli enti bilaterali (quindi per il parallelo istituibile con le transazioni in sede sindacale) e sulla base della considerazione che diversamente l’istituto non avrebbe alcuna possibilità concreta di essere utilizzato, data l’alternativa della rinuncia o transazione in sede giudiziale o sindacale, che produce l’inimpugnablità della transazione.

 

Altri negano invece tale diversa efficacia, che anche secondo me non trova sufficiente sostegno nel tenore letterale del decreto, in cui oggetto della certificazione è l’autenticità della rinuncia o della transazione, e questa si impone fino a quando non ne venga accertata in giudizio l’erroneità, fermo restando che la rinuncia ancorché autentica può essere impugnata nei termini di cui all’art. 2113 c.c..

 

E’ chiaro che in questi termini, non vi sarà alcuna convenienza per il datore di lavoro di ricorrere a questa forma di certificazione, invece che transigere in sede sindacale o pubblica o davanti al giudice. ma tant’è, è l’intero istituto della certificazione che sul piano giuridico ha scarsissimo spessore.

 

 

 

8 - Un ultimo problema posto dall’istituto riferito alle rinunce e transazioni è il rapporto istituibile con quello disciplinato all’art. 68 del decreto, con specifico riguardo al lavoro autonomo a progetto.

 

Dice la norma che “i diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente capo possono essere oggetto di rinunzie e transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro”.

 

Se si considera che anche i lavori a progetto rientrano nella disciplina dell’art. 2113 cod. civ. richiamata dall’altra norma prima citata (art. 82 del decreto), dove sta la differenza tra le due disposizioni, anche relativamente all’oggetto?

Una ipotesi formulata, tra gli altri, dal collega de Angelis, è che l’art. 68 usi impropriamente il termine rinunce e transazioni, intendendo invece clausole derogatorie della disciplina di legge, allora però solo di quella nuova introdotta per il lavoro a progetto dal decreto stesso e con effetto definitivo.

 

Sarebbe stata così introdotta nell’assetto normativo del lavoro anche una ipotesi di derogabilità individuale assistita ad alcune norme di legge, così togliendosi con una mano quanto attribuito di nuovo, ma allora solo formalmente, ad un certo tipo di lavoro autonomo, che è poi quello il cui particolare bisogno di una tutela attraverso norme inderogabili di legge ha ispirato l’introduzione della disciplina portata dal decreto.

 

Questa conclusione è peraltro contrastata da altra parte della dottrina che non riesce a prescindere dal significato tecnico delle parole rinunzie e soprattutto transazioni, che presuppongono un rapporto già attivo, un diritto già nato e ritiene pertanto di ricondurre il significato della norma ad un ambito più modesto, di sostanziale collegamento col successivo art. 82 e con l’art. 2113 cod. civ., così evitando, tra l’altro, la possibile censura di illegittimità costituzionale della norma per eccesso di delega.

 

6 - Concludendo sul tema, il giudizio complessivo sull’introduzione dell’istituto della certificazione è decisamente negativo.

 

E’ negativo perché mobilita energie da più parti, organizzandole burocraticamente per l’esercizio di una funzione la cui efficacia giuridica è men che modesta, è rivolta ad una fascia di contenzioso che solo raramente presentava momenti di oggettiva difficoltà qualificatoria, esprimendosi più spesso in semplice lavoro nero e rischia di incrementare il contenziosocol moltiplicare i soggetti coinvolti, pur modestamente, dalla certificazione e soprattutto in conseguenza di un inedito riparto di giurisdizione (forse introdotto anche in eccesso di delega) connotato da più di una ambiguità.

 

E’ ancor più negativa perché la sproporzione tra modestia della funzione e consistenza dell’apparato - che mobilita enti pubblici e soggetti collettivi, produce moduli ispirati alla giurisprudenza maggioritaria, reinterpretata nel chiuso dei Ministeri, elabora codici di buone pratiche in possibile collegamento coi vertici sindacali - denuncia il tentativo di realizzare lo scopo deflattivo in via di mero fatto e in maniera obliqua, con lo scoraggiare i lavoratori per la forza dell’apparato che contrasterebbe la loro iniziativa, cui partecipa in qualche modo anche il sindacato (si consideri anche che in caso di contestazione della certificazione, il preliminare tentativo obbligatorio di conciliazione va svolto avanti alla commissione che ha prodotto l’atto di certificazione) nonché di condizionare la stessa giurisprudenza a interpretazioni codificate in sede ministeriale adagiandosi sull’esistente e sul già qualificato.

 

Altri mi sembrano gli strumenti e le vie percorribili per risanare la giustizia del lavoro anche attraverso la possibile riduzione del contenzioso relativo, depurandolo da parti di scarsa o nulla rilevanza sul piano nobile della tutela giudiziaria, da comportamenti distorti provenienti dai vari attori della vicenda processuale etc..

 

Ma questo è un discorso che non appartiene più al tema assegnatomi e neppure a quello proprio di questo convegno.          

Antonio Ianniello

 


[1] Intervento nell’ambito del seminario sulla legge Biagi organizzato dall’Associazione Avvocati di Milano e dalla Libera Associazione Forense in data 27 gennaio 2004 presso l’Università statale di Milano.