I contratti a progetto nella Legge Biagi (D.Lgs. 276/03): alcuni dubbi interpretativi (di Mario Fezzi)

Prima di affrontare il tema del contratto a progetto è indispensabile dare uno sguardo d’assieme al Decreto Delegato 276/03, anche allo scopo di chiarire perchè questo intervento sul contratto a progetto, più che offrire soluzioni interpretative, è costretto a porre degli interrogativi.

 

Preliminarmente, bisogna osservare che questa legge è brutta e mal fatta, non tanto e non solo da un punto di vista politico generale, ma per tutto l’impianto che ètecnicamente debolissimo.

 

Da un punto di vista generale, questa legge ha la pretesa di creare il mercato del lavoro più flessibile d’Europa. Non so se la flessibilità sia un bene in sé; io credo di no: sicuramente per i lavoratori, ma – a lungo andare – penso che la flessibilità non giovi nemmeno alle imprese. Ma non è questo il punto: come è stato giustamente osservato, la flessibilità vera per le imprese presuppone una riduzione al minimo della regolazione normativa; la flessibilità ideale per le imprese significa poter adattare il lavoro, senza limiti e senza ostacoli, alle esigenze variabili e mutevoli della produzione e del ciclo economico. Ebbene, uncorpo normativo composto di 86 articoli, alcuni particolarmente complessi e di difficile lettura, che si inserisce in una materia già regolata da decine e decine di leggi speciali, non è certo compatibile con quella esigenza.

 

Il decreto delegato poi manifesta in pieno la totale sfiducia di questo Parlamento nei confronti della magistratura e della magistratura del lavoro in particolare; valga per tutti l’esempio – ma il decreto ne contiene molti altri – della parte che ha come obiettivo esplicito quello di ridurre al minimo il ricorso alla magistratura del lavoro, sostituendolo con procedure di certificazione, che non sono pensate allo scopo di deflazionare il processo del lavoro, spingendo verso riti alternativi, ma che rappresentano il risultato di un’evidente sfiducia nei giudici del lavoro e nell’intervento giudiziario.

 

Inoltre, le tipologie dei contratti di lavoro diventano diverse decine e, anziché semplificarsi, le scelte per le imprese si complicano: infatti, queste – volta per volta – dovranno valutare quale figura contrattuale sia preferibile, data una certa situazione di mercato e di produzione, tra le molte disponibili.

 

Ancora, vi sono norme che prima affermano determinati diritti (art. 61 e ss.) e subito dopo dichiarano che quei diritti possono essere rinunziati e transatti in sede di certificazione del rapporto (art. 68), rendendo così disponibili diritti apparentemente indisponibili, in quanto discendenti da norme di rango costituzionale.

 

Si potrebbe continuare a lungo nell’elencazione delle nequizie contenute nel decreto delegato. Tuttavia, passando al tema della relazione, bisogna subito osservare che al settembre 2003 i COCOCO in Italia erano circa 2.3 milioni, la maggior parte dei quali erano fasulli, nel senso che nascondevano un reale rapporto di lavoro subordinato ad ogni effetto. Come potranno questi ex-cococo sopravvivere alla riforma imposta dal decreto delegato ?E’ stato esattamente osservato[1] che i rapporti fittizi di collaborazione coordinata e continuativa non potranno sopravvivere alla nuova disciplina, che si troverà a regolare solo i casi di lavoro effettivamente autonomo, seppur coordinato e continuativo, nei quali è sempre possibile individuare il progetto o il programma che il collaboratore deve realizzare in vista dell’opera o del servizio che gli è stato commesso.

 

Ma se è vero, come è vero, che dei 2.3 milioni di cococo solo qualche migliaio è realmente autonomo e potrà essere regolato dal D.Lgs.276/03, cosa succederà di tutti gli altri contratti ?

 

I primi commentatori del decreto si affannano ad affermare chele collaborazioni coordinate e continuative, lungi dall’essere state seppellite dalla riforma, ne saranno anzi rivitalizzate dall’attribuzione di una disciplina specifica, che in precedenza mancava, e di un tipo contrattuale.

 

Ma, di nuovo, di cosa si sta parlando: delle cococo genuine o delle cococo simulate e fraudolente ? Il primo caso riguarda una realtà residuale e priva, tutto sommato, di uninteresse generale: a tutto concedere 100, forse 200 mila rapporti: tutti gli altri 2.3 milioni di rapporti, che sono il nocciolo del problema, o meglio sono IL problema, che fine faranno ? Nell’impossibilità di definire un progetto specifico e definito, verranno tutti assunti alle dipendenze dei datori di lavoro per i quali oggi “collaborano” ?Le centraliniste, le segretarie, i fattorini, e tutti gli altri collaboratori coordinati e continuativi per i quali definire un progetto è impossibile, verranno tutti assunti a tempo indeterminato ?E’ a tutti evidente che non è così e non potrà essere così.

 

Allora: o si ammette che la nuova disciplina verrà aggirata con fantasiose definizioni di progetti vaghi e dai contorni imprecisati,che nuovamente verranno a mascherare dei rapporti di lavoro subordinato, e la novità legislativa si tradurrà solo in una variazione terminologica, oppure si deve dare atto che il problema delle cococo non è stato affrontato ed è rimasto irrisolto e che ogni commento sul lavoro a progetto si limita a riguardare qualche sporadico caso di effettivo lavoro autonomo, per la realizzazione di un’opera o di un servizio, che riguarda ipotesi assolutamente residuali e prive di interesse generale.

 

Fatte queste indispensabili premesse, si puo’ cominciare a esaminare il testo degli articoli da 61 a 69 del decreto delegato.

 

Non mi addentronella definizione di progetto, di programma o delle loro fasi, di cui molto è già stato detto e scritto[2]. Piuttosto, mi pare interessante stabilire se il contratto possa essere stipulatoper numerosi progetti. Infatti, inserendo in un solo contratto la previsione della collaborazione a diversi progetti, si autorizza - in teoria - la possibilità di avere “il collaboratore” a disposizione per numerose attività e per svariati adempimenti, in modo tale da consentire al datore di lavoro (rectius: al committente) di utilizzare il “collaboratore a progetto” in ogni fase (o perlomeno in molte fasi) del proprio ciclo produttivo, secondo le necessità o le urgenze. Ogni attività aziendale è infatti scomponibile in numerose fasi di lavorazione, che in qualche modo possono essere ricondotte a progetti o a programmi specifici e determinati. Scomponendo dunque in tante fasi l’attività dell’impresa e assegnando a un collaboratore numerose fasi di essa, compatibili con la sua professionalità, si potrà affermare la sussistenza di un valido contratto a progetto, ma di fatto ci si sarà assicurata nient’altro che la messa a disposizione di energie lavorative “omnibus”, valide per svariate attività.E’ d’altro canto vero che la legge parla di uno o più progetti, anche perchè non può escludersi che un progetto sia legato a un altro o ad altri, e che sia quindi ragionevole ammettere la possibilità di più progetti inseriti in un solo contratto. Tuttavia, ciò presuppone che l’enunciazione di svariati progetti non si riveli un escamotage per avere il “collaboratore” a disposizione per tutta una fase o una parte dell’attività aziendale, e quindi in sostanza per avere “operae” a disposizione, invece del raggiungimento di un “opus” o di un servizio. In buona sostanza, l’inserimento nel contratto di una pluralità di progetti comporterà l’illegittimità del contratto, ogni volta che sia ravvisabile la frode alla legge, vale a dire ogni volta che la pluralità di progetti determini sostanzialmente la messa a disposizione in capo al datore di lavoro di energie lavorative, di volta in volta utilizzabili secondo le mutevoli esigenze organizzative.

 

Sorge poi il quesito se un progetto generico o troppo vasto, o in frode alla legge o comunque un progetto non riconducibile alla previsione degli articoli 61 e 62 sia equiparabile alla mancanza del progetto tout court. Se, in altri termini, un progetto che non soddisfi i requisiti legali determini la conversione, a norma dell’art. 69, n. 1, del contratto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla sua costituzione. Al riguardo non possano sussistere dubbi: l’indicazione nel contratto di un progetto che esuli dalla previsione normativa equivale alla mancata indicazione del progetto stesso, comportando inevitabilmente la conversione del contratto.

 

La questione è rilevante anche sotto un altro aspetto, quello della certificazione: che valore può avere un progettoprivo dei requisiti richiesti, ma purtuttavia “certificato” ? In altre parole, si tratta di capire se la certificazione da parte di uno degli organismi previsti dall’art. 75 possa di per sé eliminare i vizi genetici del progetto, così rendendolo legittimo. Non credo si possa arrivare a pensare a tanto; tuttavia il problema esiste e non mancherà chi riterrà che la certificazione supplisce alla mancanza del progetto. Vale a dire: il progetto privo dei requisiti, essendo equiparabile alla mancanza di progetto, dovrebbe convertirsi immediatamente, per ciò solo, in rapporto subordinato; la certificazione tuttavia potrebbe ovviare a questo difetto d’origine, riconoscendo comunque la legittimità del progetto, in tal modo impedendo la trasformazione del contratto. Ma gli effetti della certificazione non possono certamente estendersi fino al punto di impedire al Giudice di valutare l’esatta qualificazione del contratto e, quindi, di ritenere insussistente il progetto, così come definito dagli artt. 61 e 62, qualora non venissero riscontrati i suoi necessari presupposti.

 

Deve poi essere presain considerazione la mancanza del progetto ai fini del c. 1 dell’art. 69: la norma prevede che, nel caso in cui non sia individuato uno specifico progetto (si è già detto che a tale ipotesi deve essere equiparata la presenza di un progetto privo dei requisiti richiesti), il contratto di cui si parla si trasforma in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato: ciò anche nel caso in cui manchino del tutto gli elementi della subordinazione. In altre parole, la carenza di uno specifico progetto, di per sé, e a prescindere dalle modalità con cui la prestazione deve essere svolta, determina la conversione del contratto. Non sembra possano sussistere dubbi in proposito: la mancanza del progetto (o la sua non rispondenza al modello legale) impedisce addirittura al giudice di esaminare le modalità della prestazione e quindi la sussistenza o meno, in concreto, della subordinazione. Questa verifica è ammissibile nel caso previsto dal c. 2 dell’art. 69 (qualora venga accertato dal giudice che il rapporto sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato corrispondente), ma è radicalmente preclusa dal c. 1, dove è previsto che la sola mancanza dello specifico progetto determini automaticamente la conversione del contratto. In questo caso, la conversione del rapporto in lavoro subordinato non sembra trovare altre spiegazionise non quella per cui il legislatore ha voluto sanzionare in modo esemplare i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati in frode alla legge, cioè senza“l’individuazione di uno specifico progetto”[3].

 

La sanzione di cui si è appena detto è indubbiamente gravida di conseguenze per le due parti del rapporto: infatti, anche il “collaboratore a progetto” potrebbe non volerla, se non altro in considerazione del fatto che a norma dell’art. 64 egli potrebbe avere in corso, con altri committenti, altri contratti di lavoro a progetto, la cui esecuzione – dopo la conversione – potrebbe essere difficilmente mantenuta (e la cui interruzione unilaterale potrebbe determinare gravose conseguenze economiche).

 

Sembra tuttavia che le conseguenze ora esaminate possano prodursi solo a decorrere dall’ottobre 2004 e solo nel caso in cui accordi sindacali nonproroghino ulteriormente la sopravvivenza dei vecchi cococo. Dispone infatti l’art. 86 che le collaborazioni coordinate e continuative, che non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e in ogni caso non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento. Termini diversi, anche superiori all’anno, potranno essere stabiliti da accordi sindacali stipulati in sede aziendale.

 

In sostanza, dunque, da un lato viene prevista una disciplina rigorosa, con pesanti conseguenze sanzionatorie; dall’altro si prevede non solo che per un anno questa disciplina non è applicabile di fatto, ma addirittura che la stessa potrebbe essere rinviata all’infinito da parte della contrattazione aziendale, mantenendo così in vita[4] un tipo contrattuale diverso da quello voluto dal legislatore, essendo consentito alla contrattazione collettiva il potere di derogare alla legge senza limiti di tempo[5].

 

Il contratto di lavoro a progetto deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, alcuni elementi, tra cui le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l’autonomia nella esecuzione dell’obbligazione lavorativa.

 

Qual è la sanzione se l’autonomia nell’esecuzione dell’obbligazione lavorativa venga a mancare? Qualora, pur con caratteristiche di autonomia generali della prestazione (senza le quali il problema non si porrebbe, applicandosi la sanzione del c. 2 dell’art. 69), l’esecuzione venisse sottoposta a vincoli e controlli pressanti e continui, potrebbe determinarsi ugualmente la conversione del contratto ?A prima vista sembrerebbe di no, visto che il c. 1 dell’art. 69 rinvia espressamente per la conversione all’art. 61 c. 1. Ma allora che senso avrebbe circondare di garanzie formali la stipula del contratto, se poi la loro mancanza non determina conseguenze sostanziali?

 

Lo stesso discorso può tranquillamente essere fatto per gli altri elementi che il contratto scritto deve prevedere: la durata, determinata o determinabile, il corrispettivo, le misure per la sicurezza del lavoro. La mancanza di questi elementi vale solo ai fini della prova del contratto?Ma, soprattutto, cosa vuol dire, in questo caso, “ai fini della prova” ?Ai fini della prova di un contratto che c’è, che esiste e che le parti hanno sottoscritto? Non serve la prova del contratto: c’è il contratto. Se poi fosse ai fini della prova degli elementi del contratto, ci si troverebbe davanti ad un legislatore che, per ipotesi identiche, utilizza formulazioni differenti: infatti, per il contratto di job sharing e per il contratto di lavoro intermittente la formulazione è un’altra (“Il contratto … è stipulato in forma scritta ai fini della prova dei seguenti elementi: …”).Del resto, osi tratta di forma ad substantiam, la cui mancanza non può che determinare la nullità di quel contratto e la sua eventuale conversione nel contratto di cui abbia le caratteristiche, onon ha alcun senso parlare di forma ad probationem, di cui non c’è alcuna necessità, non essendo certo necessario dover dare la prova di un contratto che esiste, o di elementi che debbono esserci obbligatoriamente.

 

Con una notevole forzatura si potrebbe ritenere che la forma prescritta dall’art. 62 non sia altro che una specificazione di quanto previsto dall’art. 61, e che conseguentemente la sanzione per la mancanza di uno degli elementi previsti dall’art. 62 non possa essere che quella prevista dall’art. 69 c. 1, vale a dire la conversione del contratto. In caso contrario, la mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto resterebbe totalmente priva di sanzione.

 

Il contratto a progetto si risolve al momento della realizzazione del progetto (o del programma o della fase di esso) che ne costituisce l’oggetto (art. 67, primo comma). Le parti sono però libere di risolvere il contratto prima della scadenza per giusta causa, ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilitenel contratto individuale (art. 67, secondo comma).

 

Il primo ordine di problemi si pone dunque nel caso in cui il contratto preveda un termine di scadenza, ma il progetto (o il programma) venga realizzato prima della scadenza pattuita. In tal caso, il contratto può essere risolto anticipatamente?Da un lato, non avrebbe senso mantenere in vita un rapporto per un progetto che si è già realizzato; dall’altro, è però impensabile che se le parti hanno stabilito un termine, quest’ultimo possa essere facilmente violato, tanto più che a norma del secondo comma dell’art. 67 è stabilito che le parti possono risolvere il contratto prima della scadenza del termine solo per giusta causa, vale a dire per una situazione di carattere soggettivo, mentre il compimento del progetto si configurerebbe come una situazione di carattere oggettivo[6]. Una soluzione ragionevole potrebbe essere quella di interrompere il contratto con il pagamento di una somma pari al corrispettivo dovuto sino alla scadenza del termine. D’altro canto, se il corrispettivo, come sembra, deve essere legato al progetto, anche se il corrispettivo viene versato in quote mensili, non può esservi dubbio che, conseguito il progetto (a prescindere dal tempo impiegato per realizzarlo) sia dovuto l’intero importo pattuito.

 

Non credo peraltro possano sussistere dubbi sul fatto che la parte contraente più forte approfitterà della seconda parte del secondo comma dell’art. 67, per dettare causali e modalità di risoluzione del contratto che la tutelino da questa e da altre evenienze.

 

In proposito c’è da osservare che sembra molto pericoloso consentire un recesso unilaterale non circoscritto ad una giusta causa, secondo modalità e causali stabilite nel contratto individuale, che potrebbero facilmente consentire forme di recesso anche immotivato del committente (Angiolini).

 

I diritti previsti dal decreto delegato in favore dei lavoratori a progetto possono poi essere oggetto di rinunce o transazioni tra le parti, in sede di certificazione del rapporto (di cui al titolo VIII e non al V).

 

Prescindendo da una valutazione di merito, secondo cui il decreto delegato ogni volta che concede qualcosa, subito dopo si preoccupa di indicare come si possa eliminare quel qualcosa, c’è da osservare che la normativa a tutela del lavoratore a progetto, tutt’altro che ampia e garantista, viene anche privata del requisito dell’inderogabilità in pejus.Non è però affatto chiaro (Santoro Passarelli) se il potere di disporre riguardi solo i diritti nuovi previsti a favore dei collaboratori a progetto (corrispettivo, invenzioni, sicurezza, gravidanza, malattia e infortunio) o possa essere esteso addirittura anche alla forma e al contenuto del contratto (artt. 61 e 62) e all’applicazione del processo del lavoro (art. 66 c. 4). Certo, desta preoccupazione che diritti elementari e costituzionalmente garantiti (ma per i lavoratori subordinati), come ad esempio la retribuzione (art. 36 Cost.), possano essere oggetto di rinunce o transazioni. Potrebbe quindi anche darsi il caso di un contratto privo di corrispettivo (attraverso la procedura di certificazione con rinuncia), che il collaboratore potrebbe essere convinto a sottoscrivere per un certo periodo di tempo, a fronte della promessa di una successiva assunzione. In questo modo, il lavoro a progetto potrebbe costituire un formidabile periodo di prova gratuito.

 

Per finire, pare opportuno prendere in considerazione le ipotesi di reiterazione dei contratti a progetto. Va da sé che, raggiunto un certo progetto, lo stesso non possa essere riproposto in altro contratto, mentre è probabile che un programma possa invece essere riproposto (soprattutto se suddiviso in fasi); ci si chiede tuttavia qual sia la sorte di ripetuti contratti con il medesimo collaboratore per progetti o programmi (apparentemente) sempre nuovi e diversi. La continuità di prestazione richiesta al collaboratore, motivata via via con causali (apparentemente) differenti,e protratta per lungo tempo, non può essere considerata alla stregua di una frode alla legge, soprattutto se il progetto o il programma indicati rientrino nel ciclo produttivo normale dell’impresa ?

 

Insomma, i dubbi interpretativi del decreto delegato sono veramente molti, come accade peraltro con quasi tutte le nuove normative; in questo caso però la modestissima tecnica giuridica utilizzata dal legislatore delegato si presta ad aprire varchi giganteschi all’interpretazione giurisprudenziale. Siccome, a differenza del legislatore delegato, io nutro fiducia nell’operato della magistratura del lavoro, sono anche certo che nel giro di breve tempo molti dei dubbi verranno risolti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

 

 

 

Giuseppe Santoro Passarelli, Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, in ADL, n.1/2004

 

 

 

Carlo Maria Dalmasso, Il contratto di lavoro a progetto, in Lavoro e Previdenza oggi, n.8/9, 2003, pag.1329

 

 

 

Angelo Di Gioia, La riforma delle collaborazioni coordinate e continuative, in La Riforma Biagi, di G. Favalli e A. Stanchi, Picenza 2003, pag.169

 

 

 

Vittorio Angiolini, Il lavoro a progetto (artt.61-69 del dlgs. n.276 del 2003)

 

 

 

Giampiero Proia,Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in ADL, n.1/2004

 

 

 

Luigi De Angelis, La morte apparente delle collaborazioni coordinate e continuative

 

 

 

Franco Toffoletto, Collaborazioni, parte il conto alla rovescia, Sole 24 Ore del 2 agosto 2003.

 

 

 

Circolare n.1/2004 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, in G.U. n.10 del 14.1.2004.

 

 

 

Laura Castelvetri, Il Lavoro a progetto, 2004.

 

 

 

Mariella Magnani – Sergio Spataro, Il Lavoro a progetto, 2004.

 

 

 

Vito Pinto, Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto, in P. Curzio, Cacucci, Bari 2004.

 

 

 

Michele Miscione,

 

 

 

Raffaele De Luca Tamajo

 

 

[1] Giampiero Proia, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in ADL, n.1 /2004.

[2] Giuseppe Santoro Passatelli, Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, in ADL, n.1/2004.

[3] Vittorio Angiolini, Il lavoro a progetto (artt. 61-69 dlgs 276/03); Luigi De Angelis, La morte apparente delle collaborazioni coordinate e continuative.

 

[4] Franco Toffoletto, Collaborazioni, parte il conto alla rovescia, in Sole 24Ore, 2 agosto 2003.

[5] Carlo Maria Dalmasso, Il contratto di lavoro a progetto, in Lavoro e Previdenza oggi, n.8/9, 2003, pag. 1329.

[6] Angelo Di Gioia, La riforma delle collaborazioni coordinate e continuative, in La Riforma Biagi, di G. Favalli e A. Stanchi, Piacenza 2003, pag. 169.