Il contratto di somministrazione: dubbi di legittimità costituzionale e spunti interpretativi (di Stefano Chiusolo)

Indice: 1. Il contratto di somministrazione e il disegno complessivo del legislatore delegato - 2.Questioni di legittimità costituzionale - 2.1.Omessa indicazione dei criteri soggettivi afferenti il lavoratore - 2.2.Omessa o generica indicazione dei criteri oggettivi - 2.3. Conseguenze dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale - 3. Questioni interpretative - 3.1. La durata (a termine o a tempo indeterminato) del rapporto di lavoro somministrato - 3.2. La motivazione dell’utilizzo del lavoratore  somministrato - 3.3. La cessazione della somministrazione - 3.4. Il sistema sanzionatorio - 4. Il contratto di somministrazione contemplato da un accordo sindacale separato

 

 

1.                  Il contratto di somministrazione e il disegno complessivo del legislatore delegato

Il contratto di somministrazione rappresenta il tratto unificatore delle due principali aree tematiche attorno cui ruota il D. Lgs. 276/03: la separazione del lavoro dall’impresa, da un lato; dall’altro, la tipizzazione di quelli che una volta erano definiti contratti atipici, di cui ora il decreto fornisce una compiuta disciplina, tanto da meritarsi l’appellativo di testo unico del precariato[1].

Il contratto che si sta esaminando, dunque, partecipa della natura di entrambe quelle aree, ponendosi sia come uno degli strumenti (forse il principale) attraverso cui si realizza la separazione del lavoro dall’impresa, sia come uno dei nuovi contratti atipici (in quanto differenti dal rapporto di lavoro ordinario), ora tipizzati dal legislatore.

Il nostro ordinamento giuridico ha perseguito a lungo l’obiettivo di mantenere un collegamento tra lavoro e impresa, imputando il rapporto di lavoro a chi, di fatto, lo utilizzasse. Questa era la finalità della L. 1369/60 che, attraverso il divieto di intermediazione e interposizione della mano d’opera, attribuiva la titolarità del rapporto, al di là delle apparenze, al soggetto che se ne accollava il rischio economico, vuoi perché forniva le attrezzature necessarie all’espletamento dell’attività lavorativa, vuoi perché comunque introitava quel rapporto nella organizzazione e nella gerarchia della propria azienda. Anche nei pochi residui di casi di appalto genuino, l’art. 3 L. 1369/60 consentiva sì la separazione del rapporto dall’impresa, reintroducendo però il collegamento, quanto meno, sotto il profilo della responsabilità solidale, tra appaltante e appaltatore, in ordine al trattamento economico e normativo (comunque non inferiore a quello dovuto ai dipendenti del committente) del lavoratore.

Il sistema, sopra sinteticamente descritto, aveva retto inalterato per quasi 40 anni, subendo un’incrinatura a seguito dell’introduzione, nel nostro ordinamento, del lavoro interinale ex L. 196/97. Si trattava peraltro di correttivi che, soprattutto se confrontati con la riforma del D. Lgs. 276/02, non intaccavano la sostanza del sistema, che veniva solo parzialmente e marginalmente modificato. In altre parole, il lavoro interinale rappresentava sì un’eccezione al principio generale che il rapporto di lavoro deve essere imputato a chi l’utilizza, ma questa eccezione era ammessa dal legislatore a fronte di esigenze transitorie, tassativamente indicate dalla legge o dal contratto collettivo. In buona sostanza, il lavoro interinale non era altro che un’alternativa al lavoro a termine, per di più in un contesto legislativo che neppure prevedeva l’espansione che il D. Lgs. 368/01 avrebbe conferito a questo istituto.

Il D. Lgs. 276/03 non semplicemente ritocca, o modifica, ma fa crollare quel sistema. Per la riforma che è nella mente del legislatore non è sufficiente mettere mano alle norme esistenti, sopprimendo o modificando commi, o introducendo commi bis e ter e via contando. Questa è la tecnica che lo stesso legislatore utilizza per modificare il regime del rapporto a tempo parziale. Invece, per la riforma che incide sulla titolarità del rapporto, il legislatore ha bisogno di un’abrogazione secca ed esplicita della normativa previgente (la L. 1369/60 e gli artt. da 1 a 11 della L. 196/97), riscrivendo ex novo ogni regola.

Eccolo, dunque, in sintesi, il nuovo sistema. In primo luogo, somministrare mano d’opera non è più vietato, tanto che viene introdotto un contratto che ne porta il nome e che legittima la frattura tra chi utilizza, dirige e controlla il lavoratore e il titolare del relativo rapporto.

La frattura è tanto più significativa perché il lavoratore somministrato, ex art. 22 c. 5, non viene computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di norme di legge o di contratto collettivo (eccezion fatta per le norme in tema di igiene  e sicurezza sul lavoro), con il che il legislatore sortisce anche l’ulteriore effetto di sottoporre le imprese a un dimagramento artificiale, in attesa di porre mano all’altra riforma, quella relativa all’art. 18 S.L.. Non solo; la frattura è tanto più singolare, ma al contempo ipocrita, perché nei confronti dei terzi danneggiati il rapporto viene imputato all’utilizzatore, che risponde dei danni cagionati dal lavoratore somministrato nell’esercizio delle sue mansioni (art. 26): insomma, se il terzo danneggiato deve essere, anche giustamente, protetto ponendo una responsabilità diretta in capo all’utilizzatore, non si capisce perché analoga protezione non meriti il lavoratore.

In secondo luogo, la somministrazione della mano d’opera non è più neanche un’eventualità eccezionale e circoscritta a eventi transitori: infatti, somministratore e utilizzatore possono stipulare contratti di somministrazione non solo a termine, ma anche a tempo indeterminato, per di più con riferimento a intere fasi dell’ordinaria e strutturale attività produttiva (per esempio, la gestione del personale, le attività di marketing e di organizzazione della funzione commerciale.

Del resto, anche la somministrazione a termine è tutt’altro che paragonabile all’abrogato lavoro interinale, stante il generico rinvio a quelle stessa ragioni che, sostanzialmente, legittimano il lavoro a termine secondo la riforma ex D. Lgs. 368/01.

Certamente, il legislatore fornisce un contrappeso a tutto questo, prevedendo specifici requisiti prescritti per abilitare le apposite agenzie a svolgere l’attività di somministrazione. Tuttavia, questo contrappeso è più apparente che reale, giacché il datore di lavoro che intenda utilizzare lavoratori senza subire l’imputazione del relativo rapporto, può ricorrere ad altri istituti previsti dal D. Lgs. 276/03 (l’appalto, il distacco, la cessione di ramo d’azienda), per i quali neppure quel contrappeso ricorre.

Così per esempio, l’art. 29 c. 1 D. Lgs. 276/03 fornisce una definizione dell’appalto lecito che solo a prima vista coincide con quello che lecito era anche sotto la vigenza della L. 1369/60. Certamente, la norma dichiara che l’appalto è lecito, e si differenzia dalla somministrazione, quando i mezzi necessari all’espletamento dell’attività lavorativa vengono organizzati dall’appaltatore: fin qui, niente di nuovo. Tuttavia, la stessa norma precisa che l’organizzazione dell’attività lavorativa da parte dell’appaltatore può risultare anche da due condizioni collegate con la congiunzione “nonché”: dal che si desume che la previsione della norma si realizza solo a fronte della presenza di entrambe le condizioni.

Una di queste condizioni è l’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio d’impresa; l’altra, più significativa, è l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori. Si capisce allora il passo avanti (si fa per dire) compiuto dal legislatore delegato: in questo contesto normativo, rischia di diventare appaltatore lecito il caporale di triste memoria, che si limiti a impartire ordini ai propri “dipendenti” (che, per il resto e a tutti gli effetti, sono inseriti nella struttura organizzativa e produttiva dell’appaltante), a condizione che l’appaltatore riesca a dimostrare anche la presenza del secondo requisito, relativo al rischio d’impresa. Né si può trascurare che il cit. art. 29 (a differenza dell’art. 3 L. 1369/60) non prevede alcuna responsabilità solidale in tema di trattamento normativo; non prevede alcun diritto del lavoratore a trattamenti economici e normativi non inferiori a quelli spettanti ai dipendenti del committente; prevede la responsabilità solidale, per di più nel termine di un anno dalla cessazione dell’appalto, solo per il trattamento economico e solo nel caso di appalto di servizi. Insomma, la riforma fa a pezzi anche il principio secondo cui, anche nei casi legittimi di appalto, il rapporto di lavoro deve essere imputato all’utilizzatore quanto meno sotto il profilo degli istituti economici e normativi.

Anche l’art. 30 D. Lgs. 276/03, a prima vista sembra riproporre un istituto già noto. Il distacco, come definito dalla norma, sembra ricalcare la definizione data in precedenza dalla giurisprudenza. C’è però una differenza, peraltro sostanziale: la giurisprudenza si era occupata del fenomeno del distacco tra società collegate, rispetto alle quali si può, astrattamente, configurare un interesse ad una temporanea utilizzazione del dipendente altrui. Al contrario, il legislatore non fa alcun cenno a collegamenti tra le imprese che attuano il distacco, con la conseguente possibilità di dar corpo a vere e proprie intermediazioni di mera mano d’opera, al di fuori del contratto di somministrazione (sempre che, naturalmente, si riesca a provare l’interesse del distaccante).

Infine, viene modificata la nozione di ramo d’azienda, oggetto di cessione ex art. 2112 c.c.. L’art. 32 D. Lgs. 276/03 modifica la norma codicistica appena citata perché consente che l’articolazione “funzionalmente autonoma” oggetto della cessione non debba necessariamente preesistere al trasferimento , potendo anche essere “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”. Già altrove[2] è stato sottolineato come il legislatore abbia prestato adesione, trasformandola in legge, all’orientamento giurisprudenziale più sfavorevole al lavoratore, per di più ponendosi in contrasto con la normativa Comunitaria che disciplina la materia. Non è questa la sede per approfondire queste ed altre questioni poste dalla riforma dell’art. 2112 c.c.; qui interessa solo mettere in luce il complessivo disegno politico e legislativo che conduce alla separazione del lavoro dall’impresa, di cui la nuova nozione di ramo d’azienda rappresenta il momento terminale, l’ultima risorsa dell’imprenditore che non possa ricorrere agli altri strumenti.

Per comprendere quest’ultima osservazione, conviene cominciare a trarre le fila di tutto il discorso fin qui svolto, senza trascurare una premessa: la frattura del lavoro dall’impresa non rappresenta una decisione neutra, ma una precisa scelta di campo, perché questa scissione risponde  a un preciso ed esclusivo interesse del datore di lavoro utilizzatore (in termini di maggiore flessibilità, soprattutto in uscita, del lavoratore), cui corrisponde inevitabilmente una precarizzazione del rapporto, che non soddisfa certo l’interesse del lavoratore. Il legislatore, dunque, compie una precisa scelta di campo, portandola alle estreme conseguenze. Da un lato, perché si offre all’utilizzatore la possibilità di utilizzare mano d’opera che non solo è flessibile in sé, ma che neppure incide sulla stabilità dei rimanenti dipendenti (art. 22 c. 5). Anzi, opportunamente, sostituendo lavoratori dipendenti con lavoratori utilizzati è persino possibile scendere al di sotto della soglia di applicabilità dell’art. 18 S.L., con conseguente flessibilizzazione di tutti i rapporti di lavoro. Da un altro lato, il legislatore fornisce all’utilizzatore una pluralità di strumenti per sortire quel risultato.

In primo luogo, dunque, c’è la possibilità di ricorrere al contratto di somministrazione che, a prescindere da qualsiasi altra critica, è avvolto da una parvenza di credibilità, in quanto le agenzie di somministrazione devono possedere certi requisiti che, di per sé, dovrebbero scongiurare il rinnovarsi del caporalato. Tuttavia, la somministrazione non è utilizzabile a piacere, per quanto ampie siano le maglie utilizzate dal legislatore; soprattutto, il possesso dei requisiti per svolgere la somministrazione avrà certamente un peso economico, che renderà piuttosto costoso il servizio offerto dalle agenzie di somministrazione.

Tuttavia, il datore di lavoro aspirante utilizzatore, che non possa o non voglia (anche per motivi economici) far ricorso alla somministrazione, non deve disperare, perché –come si è visto – il legislatore gli fornisce altri strumenti per sortire lo stesso risultato (scissione del lavoro dall’impresa), senza nessuno dei requisiti di genuinità richiesti per la somministrazione.

Insomma, il datore di lavoro, che intenda disfarsi di un rapporto di lavoro diretto (per esempio) con i propri archivisti, e non intenda ricorrere ad un’agenzia di somministrazione, può appaltare il servizio, o ricevere lavoratori comandati. Tuttavia, anche questi strumenti presentano ostacoli perché, come si è visto, nel primo caso è necessario quantomeno che l’appaltatore organizzi e diriga i lavoratori e subisca il rischio d’impresa; nel secondo caso bisogna dimostrare che il distacco soddisfi un interesse del distaccante.

Quando anche questi ostacoli fossero insormontabili, resta il ricorso alla cessione del ramo d’azienda: e così si torna al punto in cui questa digressione era cominciata. Il datore dell’esempio di cui sopra può concordare a tavolino con il potenziale acquirente che la gestione dell’archivio va identificata come un’articolazione funzionalmente autonoma, conseguentemente procedendo a una cessione ex art. 2112 c.c..

Giunti a questo punto, si deve avvertire che ciò che è stato rappresentato sopra rappresenta solo la prospettiva politica del legislatore, la casa che egli ha voluto edificare per contenere le regole del lavoro del nuovo millennio. Ciò però non significa necessariamente che il legislatore abbia appropriatamente utilizzato gli strumenti giuridici idonei a realizzare, in tutto o in parte, quel progetto politico. Anzi, si può subito dire che il pressapochismo giuridico da un lato; dall’altro la tendenza di certa destra populista di non chiamare le cose con il proprio nome, spacciando la precarizzazione del lavoro come fenomeno espansivo dell’occupazione e di armonizzazione in un contesto europeo democratico; questi due fenomeni da soli e complessivamente considerati hanno fatto sì che quella casa sia destinata a crollare, o a ospitare regole affatto divergenti dalle intenzioni politiche.

Di seguito si cercherà di dimostrare questo assunto con specifico riguardo all’istituto che costituisce il principale oggetto di questo intervento, e dunque del contratto di somministrazione.

2.                  Questioni di legittimità costituzionale

E’ principio costituzionale, ex art. 76 Cost., che la funzione legislativa può essere esercitata dal Governo solo in presenza di una delega parlamentare2, che contenga la determinazione dei principi e dei criteri direttivi cui il legislatore delegato dovrà ispirarsi, e comunque solo per un tempo limitato e per oggetti definiti. E’ dunque inevitabile che un decreto legislativo (quindi il risultato della funzione legislativa svolta dal Governo su delega del Parlamento) debba essere prioritariamente interpretato alla luce della legge delega, per verificare che il provvedimento dell’Esecutivo sia immune da censure di illegittimità costituzionale per contrasto con il citato art. 76. A tale riguardo, è bene sottolineare che la norma costituzionale in questione vieta non solo le violazioni formali ai principi ivi contenuti, che si verificherebbero qualora il Governo esercitasse la funzione legislativa in assenza di qualunque delega (nonché dei presupposti e della procedura ex art. 77 Cost.), ma impedisce altresì violazioni di tipo sostanziale, che si verificherebbero quando il Governo esercitasse la funzione legislativa a seguito di una delega parlamentare, ma senza rispettarne i principi e i criteri direttivi. In un caso come questo, si realizzerebbe un eccesso di delega, che esporrebbe la normativa del Governo a censure per illegittimità costituzionale.

Come è noto, il D. Lgs. 276/03 attua (o dovrebbe attuare) la delega contenuta nella L. 30/03. Con particolare riferimento al contratto di somministrazione, la delega è contenuta all’art. 1 della legge che, naturalmente, indica i principi e i criteri direttivi richiesti dall’art. 76 Cost., tra cui:

·        il contratto di somministrazione ha la finalità di “migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani” (art. 1 c. 1);

·        la somministrazione della mano d’opera, anche a tempo indeterminato, è possibile “in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo, individuate dalla legge o dai contratti collettivi” stipulati (a livello nazionale o territoriale) dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

I principi di cui sopra sono stati ricordati non solo per la loro intrinseca importanza, ma anche per la loro sistematica violazione da parte del legislatore delegato.

2.1.                  Omessa indicazione dei criteri soggettivi afferenti il lavoratore

Andando per ordine, il richiamo contenuto nella legge delega ai disoccupati e a chi è in cerca di prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani, forniva al legislatore delegato sufficienti indizi per concludere che il contratto di somministrazione dovesse essere subordinato a requisiti non solo oggettivi, ma anche soggettivi dal lato del lavoratore. In altre parole, se l’istituto in questione, per espressa previsione della legge delega, persegue l’obiettivo di agevolare l’inserimento al lavoro di determinate categorie di lavoratori, è inevitabile che il contratto debba essere rivolto non alla platea dei lavoratori in genere ma, tra questi, a coloro i quali rispondono alle esigenze indicate dai criteri generali della legge delega. Infatti, estendendo il contratto di somministrazione a tutti i lavoratori in genere, o non viene realizzato per nulla l’obiettivo di estendere l’occupazione, giacché semplicemente si sostituisce personale già in forza e stabile con altro personale precario, magari anche individualmente identico; oppure si realizza l’espansione dell’occupazione ma senza tener conto delle categorie privilegiate dalla legge delega, ovvero donne e giovani.

Questo è precisamente il primo errore commesso dal legislatore delegato: aver trascurato che la legge delega pretendeva requisiti soggettivi dal lato del lavoratore somministrato. Il fatto di aver radicalmente omesso questi requisiti, consentendo a chiunque di essere somministrato (occupato o disoccupato da breve o lungo termine o in cerca di prima occupazione; uomo o donna; giovane, meno giovane o prossimo alla pensione), preclude il raggiungimento dell’obiettivo che la legge delega si proponeva di realizzare con il contratto di somministrazione.

2.2.                  Omessa o generica indicazione dei criteri oggettivi

Miglior sorte non tocca ai criteri oggettivi, che il legislatore delegato avrebbe dovuto specificare, tanto per i contratti a termine quanto per quelli a tempo indeterminato, sulla scorta del criterio generale, sancito dalla legge delega, di rispondenza a ragioni tecniche, organizzative o produttive, “individuate dalla legge o dai contratti collettivi”. Ebbene, il legislatore delegato o non individua affatto quei criteri, o individua criteri del tutto diversi.

In primo luogo, l’art. 20 D. Lgs. 276/03 disciplina le condizioni oggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione a tempo indeterminato. Prima di giungere al conclusivo rinvio alla contrattazione collettiva, la norma elenca una serie innumerevole di condizioni di ammissibilità, articolate addirittura in otto lettere. Tuttavia, l’interprete vanamente cercherebbe in questi casi anche una sola ragione “di carattere tecnico, produttivo od organizzativo”. Si potrà rinvenire, come in parte è già stato detto, i servizi di pulizia, custodia, portineria; i servizi di consulenza nel settore informatico; il servizio di trasporto delle persone da e per lo stabilimento, eccetera.

Come si vede, si tratta di svariati settori o articolazioni dell’attività produttiva, che nulla hanno  a che vedere con le ragioni tecniche, produttive o organizzative che la legge delega ha genericamente enunciato e che il legislatore delegato avrebbe dovuto individuare. Insomma, pensare che il legislatore delegato abbia soddisfatto il contenuto della delega sarebbe come ammettere che un datore di lavoro, per giustificare un trasferimento, possa addurre, quale ragione tecnica o produttiva o organizzativa ex art. 2103 c.c., il mero svolgimento – da parte del lavoratore trasferito – di attività di marketing: questa non è una ragione e quindi, come non può legittimare un trasferimento, neppure può soddisfare il criterio imposto dalla legge delega.

Né si può pensare che il legislatore delegato, nell’ambito della sua discrezionalità, abbia interpretato le ragioni indicate dalla legge delega nel senso espresso dall’art. 20 c. 3 e, dunque, abbia consapevolmente ma legittimamente equiparato la ragione a un segmento dell’attività lavorativa. Infatti, nell’ambito delle direttive impartite dalla legge delega, il legislatore delegato è privo di discrezionalità; pertanto, se la prima prevede che il secondo individui ragioni, questo non può elencare segmenti di attività produttiva.

Neppure il rinvio alla contrattazione collettiva è esente da critiche. Come si è visto, la legge delega assegna il compito di individuare le ragioni oggettive legittimanti il contratto di somministrazione alla legge o ai contratti collettivi. Tuttavia, il presupposto della individuazione è pur sempre il rispetto dei criteri guida contenuti nella legge delega. Ebbene, il legislatore delegato (dopo avere, come si è visto, individuato condizioni di ammissibilità che nulla hanno a che vedere con la delega) dispone che il contratto di somministrazione possa essere stipulato “in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi”. Come si vede, si tratta di un rinvio affatto generico e del tutto svincolato dalle ragioni pur genericamente enunciata nella legge delega.

Passando ad esaminare i requisiti oggettivi previsti per il contratto di somministrazione a termine, il legislatore delegato deve essersi compiaciuto della terminologia utilizzata dal D. Lgs. 368/01 per definire le condizioni di ammissibilità del contratto a termine, terminologia che infatti viene ora, nella sostanza, riproposta. Tuttavia, abbagliato da tutto questo autocompiacimento, il legislatore delegato non s’avvede che quella terminologia coincide anche con quella indicata dalla legge delega, per definire genericamente le ragioni giustificatrici che il legislatore delegato avrebbe dovuto individuare. Tanto la norma del decreto è generica, e perciò contraria ai principi della legge delega, che il legislatore delegato, in questo caso, neppure si è avvalso della facoltà di sub-delegare alla contrattazione collettiva che, effettivamente, non potrebbe introdurre nessuna ipotesi ulteriore, e a cui è solamente demandato il compito di individuare limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato.

In buona sostanza, l’art. 20 D. Lgs. 276/03 contrasta con la legge delega, e dunque è incostituzionale ex art. 76 Cost.:

·        nella parte in cui omette di subordinare l’ammissibilità del contratto di somministrazione anche a requisiti soggettivi, dal lato del lavoratore, che consentano di perseguire l’obiettivo di migliorare le capacità di inserimento nel lavoro dei disoccupati e di chi sia in cerca di primo impiego, con particolare riguardo alle donne e ai giovani;

·        nella parte in cui subordina l’ammissibilità del contratto di somministrazione a tempo indeterminato a requisiti oggettivi che nulla hanno a che fare con le ragioni tecniche, produttive e organizzative enunciate dalla legge delega e che il legislatore delegato avrebbe dovuto individuare;

·        nella parte in cui delega alla contrattazione collettiva il compito di individuare altre ipotesi oggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione a tempo indeterminato, senza al contempo specificare che tali ipotesi aggiuntive devono comunque essere individuate nell’ambito delle ragioni tecniche, organizzative o produttive indicate dalla legge delega;

·        nella parte in cui omette di individuare in maniera specifica i requisiti oggettivi di ammissibilità del contratto di somministrazione a termine, limitandosi a reiterare la generica espressione utilizzata dalla legge delega.

2.3.                  Conseguenze dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale

Se tutto ciò che è stato scritto fin qui viene condiviso, è impossibile ipotizzare la sopravvivenza del contratto di somministrazione, almeno nella sua attuale disciplina. Come si è visto, le omissioni sono di portata così vasta da rendere inimmaginabile un intervento integrativo da parte dei giudici, ordinario o costituzionale, come pure è difficilmente ipotizzabile una sentenza interpretativa di rigetto da parte di questi ultimi. Non solo: le questioni sopra prospettate investono le fondamenta stessa dell’istituto che, conseguentemente, crollerebbe per intero: la mancanza di una valida disciplina legislativa in ordine alle condizioni oggettive e soggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione, rende inutile e fine a se stessa la successiva disciplina degli effetti funzionali dell’istituto.

In buona sostanza, i difetti di legittimità costituzionale sopra individuati sembrano di portata tale da cancellare l’istituto del contratto di somministrazione, almeno come oggi è disciplinato. Con ciò non si può però concludere che i problemi sono finiti perché, pur dichiarato incostituzionale l’art. 20, resterebbe l’abrogazione della L. 1369/60 disposta dall’art. 85.

Il problema è più apparente che reale. Infatti, la legge delega prevedeva l’abrogazione della legge del 1960, con la contestuale sostituzione della stessa mediante una nuova disciplina incentrata sul contratto di somministrazione. Pertanto, l’abrogazione della L. 1369/60 e il contratto di somministrazione sono inscindibili; se questo viene travolto da un giudizio di illegittimità costituzionale, inevitabilmente sarebbe costituzionalmente illegittimo anche l’art. 85, nella parte in cui abroga la legge citata, per il semplice fatto di abrogarla senza al contempo sostituirla con una disciplina alternativa e coerente con i principi enunciati dalla L. 30/03.

In ogni caso, e a prescindere dalla sorte dell’abrogazione della L. 1369/60, non si può trascurare che la corrispondenza tra lavoro e impresa è coerente con il principio generale ex art. 2094 c.c., mentre la scissione di quel rapporto ne costituisce un’eccezione. Ciò significa che la L. 1369/60 era una norma speciale che ribadiva il principio generale ex art. 2094 c.c.; gli artt. 20 e ss. del D. Lgs. 276/03 sono norme speciali che a quel principio derogano. Una volta venute meno le norme speciali,  resta pur sempre l’art. 2094 c.c., con la conseguenza che un lavoratore subordinato, formalmente dipendente da un datore di lavoro, può provare che la propria attività lavorativa è svolta “alle dipendenze e sotto la direzione” di un altro soggetto, cui dunque dovrà essere imputato il rapporto di lavoro.

3.                  Questioni interpretative

A prescindere dalle questioni di legittimità costituzionale che sono state illustrate, la disciplina del rapporto di somministrazione lascia aperte alcune questioni interpretative, che meritano di essere approfondite. Dando per scontata la conoscenza delle linee fondamentali dell’istituto di cui si parla, è possibile passare in rassegna alcune di tali questioni.

3.1.                  La durata (a termine o a tempo indeterminato) del rapporto di lavoro somministrato

Il legislatore delegato ammette che sia a termine, o a tempo indeterminato, il contratto di somministrazione che, come è noto, interviene tra somministratore e utilizzatore, a cui è estraneo il lavoratore, titolare di un diverso rapporto (di lavoro) nei confronti del somministratore. Il legislatore delegato non prevede però al contempo una meccanica equazione tra durata del contratto di somministrazione e durata del rapporto di lavoro tra lavoratore e somministratore. In altre parole, può accadere che un lavoratore, assunto a tempo indeterminato da un somministratore, sia avviato al lavoro per eseguire un contratto di somministrazione a termine, mentre l’assunzione a termine di un lavoratore da somministrare prescinde radicalmente dalla durata del contratto di somministrazione in cui egli sarà impiegato.

Quanto si è detto sopra si ricava, in primo luogo, dall’art. 21 c. 3, secondo il quale le informazioni contenute nel contratto di somministrazione (da stipularsi per iscritto in forza del primo comma della stessa norma) devono essere comunicate per iscritto al lavoratore, da parte del somministratore, all’atto della stipulazione del contratto di lavoro, ovvero all’atto dell’invio presso l’utilizzatore. In altre parole, la circostanza che si preveda un’informazione resa non all’atto della costituzione del rapporto di lavoro, ma nel momento, evidentemente successivo, dell’avvio al lavoro, presuppone che il contratto di lavoro possa essere stipulato a prescindere dalla concreta somministrazione, il che rende la durata di quello del tutto indipendente dalla durata di questa.

Del resto, il successivo art. 22 dispone esplicitamente che il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è disciplinato dai principi generali dei rapporti di lavoro, o dal D. Lgs. 368/01, a seconda che lo stesso sia a tempo indeterminato o a termine. Ciò significa che un somministratore può costituire un rapporto di lavoro a termine solo in presenza di una delle cause giustificative previste dall’art. 1 del D. Lgs. appena richiamato, e bisogna seriamente dubitare che la stipulazione di un singolo contratto di somministrazione possa costituire una valida ragione tecnica, produttiva o organizzativa, legittimante la stipulazione di un contratto a termine.

Infatti, l’art. 2, c. 1, lett. a) D. Lgs. 276/03 definisce la somministrazione come “la fornitura professionale di manodopera”. Ciò evidentemente significa che il somministratore è colui il quale professionalmente esercita un’attività d’impresa che ha ad oggetto, almeno prevalente (v. l’art. 5, c. 2, lett. f) D. Lgs. 276/03), la somministrazione di manodopera. Pertanto, in questa logica, la stipulazione di un contratto di somministrazione altro non è, per il somministratore, che una commessa che fa parte della sua ordinaria attività d’impresa.

Ora, si deve anche considerare che le ragioni di cui all’art. 1 D. Lgs. 368/01 devono possedere il carattere della transitorietà e/o della eccezionalità. Nonostante la diversa prospettiva utilizzata dal legislatore delegato del 2001 rispetto alla normativa previgente (con il passaggio da un sistema tassativo e tipico a uno più aperto e atipico), il rapporto di lavoro ordinario nel nostro ordinamento continua a essere quello a tempo indeterminato, mentre il lavoro a termine ha un carattere residuale. Ciò significa che la ragione di cui alla normativa del 2001 deve essere idonea a giustificare la stipulazione di un contratto che, senza quella ragione, sarebbe stato stipulato a tempo indeterminato, o non sarebbe stato stipulato affatto. Inoltre, non si può trascurare che la giustificazione attiene all’apposizione del termine, dunque non può trattarsi di una ragione qualunque, purché seria e non del tutto arbitraria. Al contrario, quella ragione deve essere funzionale alla apposizione del termine e quindi, come si diceva, deve comunque fare riferimento a un evento transitorio o eccezionale.

Se si condivide quanto appena detto, è inevitabile che per un somministratore l’acquisizione di una commessa è tutt’altro che evento eccezionale o transitorio; al contrario, la stipulazione di un contratto di somministrazione fa parte dell’ordinaria attività imprenditoriale e attiene all’ordinario rischio d’impresa. E’ dunque confermato che un somministratore non può assumere a termine un lavoratore per la semplice circostanza che è stato stipulato un contratto di somministrazione a termine, nell’ambito del quale quel lavoratore deve essere utilizzato. Quel contratto, giova ripeterlo, rientra nell’ordinaria gestione dell’impresa; al contrario, l’assunzione a termine del lavoratore da somministrare sarà giustificata solo in presenza di un evento particolare, transitorio o eccezionale, che non possa essere affrontato mediante la manodopera stabilmente alle dipendenze del somministratore.

In buona sostanza, dunque, il rapporto del lavoratore somministrato non risente della durata del contratto di somministrazione; non solo, rientrando tale ultimo contratto nel normale esercizio dell’attività d’impresa del somministratore, la stipulazione del singolo contratto di somministrazione non costituisce valida ragione giustificatrice dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. Pertanto, il rapporto del lavoratore somministrato è di regola a tempo indeterminato, e può essere costituito a termine solo in presenza di particolari ragioni, come sopra definite.

3.2.                  La motivazione dell’utilizzo del lavoratore  somministrato

La distinzione tra contratto di somministrazione e rapporto di lavoro aiuta anche a comprendere che l’utilizzatore deve possedere valide ragioni per far ricorso alla somministrazione, che vanno al di là delle condizioni oggettive di ammissibilità previste dall’art. 20 D. Lgs. 276/03 per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato o che, con riferimento al contratto di somministrazione a termine, devono essere intese alla luce delle finalità dell’istituto.

Cominciando a considerare l’utilizzazione del lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, bisogna preliminarmente riflettere sulla circostanza che, secondo le intenzioni dichiarate dal legislatore delegato all’art. 1, le disposizioni del D. Lgs. 276/03 hanno, tra l’altro, lo scopo di aumentare “i tassi di occupazione e a promuovere la qualità e la stabilità del lavoro”. E’ dunque evidente che ogni istituto disciplinato dal provvedimento normativo, compresa dunque la somministrazione, deve realizzare l’effetto di espandere l’occupazione. Ciò significa, con particolare riferimento alla somministrazione, che questo istituto non è utilizzabile per una mera sostituzione di personale dipendente dall’utilizzatore con lavoratori alle dipendenze del somministratore, pena la frustrazione dell’obiettivo perseguito dal legislatore delegato.

Pertanto, un utilizzatore che stipulasse, per esempio, un contratto di somministrazione a tempo indeterminato per la gestione del proprio magazzino (come gli è consentito dall’art. 20 c. 3), non realizzerebbe lo scopo indicato dall’art. 1. Infatti, nella migliore delle ipotesi, egli utilizzerebbe lavoratori altrui invece di assumere lavoratori alle proprie dipendenze; nella peggiore delle ipotesi, ciò si tradurrebbe addirittura in una sostituzione di lavoratori alle dipendenze dell’utilizzatore con altrettanti lavoratori dipendenti dal somministratore. Tutto ciò viola la finalità della normativa, perché l’istituto, in casi simili a questi, non sarebbe utilizzato per creare occupazione aggiuntiva, rispetto a quella che si potrebbe ottenere facendo ricorso agli istituti classici del rapporto di lavoro. Inoltre, tutto ciò avverrebbe in pregiudizio della stabilità del rapporto per i lavoratori somministrati (che non beneficiano dei requisiti numerici, ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 S.L., dell’utilizzatore), e forse anche dei dipendenti dell’utilizzatore (che non beneficiano della somministrazione in termini di aumento della soglia valida ex art. 18 S.L.). E’ evidente, dunque, che le condizioni oggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione a tempo indeterminato, contemplate dal c. 3 del D. Lgs. 276/03, legittimano la stipulazione del contratto di somministrazione, ma non sono sufficienti a giustificare l’utilizzazione del lavoratore somministrato.

Quanto si è appena detto trova una positiva conferma, sempre con riferimento al contratto di somministrazione a tempo indeterminato, nell’art. 27 c. 3 D. Lgs. 276/03. La norma sembra destinata a dare man forte alla giurisprudenza più sensibile alla libertà di iniziativa privata (peraltro spesso trascurando che la stessa deve svolgersi in conformità con l’utilità sociale), che si guarda bene dall’entrare nel merito delle scelte imprenditoriali. Tuttavia, una lettura attenta della disposizione consente di trarne conseguenze utili anche ai fini del discorso che si sta svolgendo.

Infatti, la norma dispone che il controllo giudiziario della somministrazione è limitato “all’accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore”. Ciò vuol dire che l’autorità giudiziaria ha il potere di verificare, quanto meno, la sussistenza di ragioni che giustificano la somministrazione, ovvero di valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive. Ora, come si diceva in precedenza (e al di là dei profili di legittimità costituzionali già segnalati), le condizioni oggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione a tempo indeterminato ex art. 20 c. 3 sono tutt’altro che ragioni e, in sé, non configurano alcuna scelta di tipo tecnico o organizzativo o produttivo. E tuttavia, il giudice ha il potere di verificarne la sussistenza: ciò vuol dire che la somministrazione a tempo indeterminato presuppone ragioni che vanno al di là delle condizioni di legittimità previste dalla norma appena citata, e che devono essere coerenti con le già indicate finalità sancite dall’art. 1.

Né l’art. 27 c. 3 è l’unica norma che, positivamente, consenta di trarre la conclusione di cui si sta parlando. Infatti, l’art. 24 c. 4 lettera a) stabilisce che, tra l’altro, i motivi della somministrazione devono essere comunicati (preventivamente o, in casi di urgenza, nei cinque giorni successivi) alla Rsu. Anche qui, dunque, vale lo stesso ragionamento appena svolto: le condizioni di ammissibilità ex art. 20 c. 3 sono semplici segmenti dell’attività produttiva, e non certamente motivi; il che significa che l’utilizzatore deve giustificare il ricorso alla somministrazione con ragioni aggiuntive a quelle previste per la stipulazione del contratto di somministrazione.

Fin qui si è detto della utilizzazione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato e di come questa utilizzazione debba essere giustificata da ragioni che vanno al di là delle condizioni oggettive di ammissibilità di quel contratto previste dal D. Lgs.. D’altra parte, le stesse considerazioni sopra svolte, che hanno consentito di concludere che il somministratore deve motivare l’utilizzo del lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, inducono a trarre la stessa conclusione con riferimento a un contratto di somministrazione a termine: la differenza è che, nel primo caso, le ragioni non coincidono con le condizioni oggettive di ammissibilità, per il semplice fatto che queste non sono ragioni; nel secondo, le condizioni oggettive di ammissibilità fanno riferimento a una ragione tecnica, organizzativa o produttiva e, dunque, ciò che giustifica l’utilizzazione del lavoratore è la stessa motivazione che aveva giustificato la stipulazione del contratto di somministrazione.

Con riferimento alla utilizzazione del lavoratore somministrato nell’ambito di un contratto di somministrazione a termine, dunque, il problema è se mai comprendere l’esatto significato delle ragioni ex art. 20 c. 4. Come già è stato detto, infatti, in questo caso il legislatore delegato utilizza una nozione elastica, mutuata – da un punto di vista terminologico – dalla attuale disciplina del rapporto di lavoro a termine in generale. Tuttavia, la ragione contemplata dal c. 4 in esame non è fine a sé stessa, ma finalizzata a spiegare l’utilizzazione di un lavoratore fornito da un somministratore in luogo di un lavoratore direttamente assunto dall’utilizzatore. Non solo; deve trattarsi di una giustificazione coerente con il principio, ex art. 1 D. Lgs. 276/03, che il lavoro somministrato è finalizzato a creare occupazione aggiuntiva. Sotto ogni profilo, dunque, si capisce che il motivo, che dovrà essere comunicato alle rappresentanze sindacali ex art. 24 c. 4 lettera a) e che potrà essere sindacato dal giudice nel caso e con i limiti contemplati dall’art. 27 c. 3, deve rendere ragione dell’impossibilità di creare occupazione aggiuntiva attraverso gli istituti tradizionali dell’ordinamento e, primo tra tutti, il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Anche in questo caso, dunque, si dovrà ipotizzare un motivo eccezionale e transitorio. Non deve trarre in inganno la circostanza che il legislatore delegato precisi che può trattarsi di una giustificazione riferibile all’ordinaria attività dell’utilizzatore: interpretando la lettera c) dell’art. 1 c. 2 L. 230/62, la giurisprudenza[3] aveva già ammesso che l’opera o il servizio definiti e predeterminati nel tempo potessero consistere in un’attività qualitativamente uguale a quella normalmente esercitata dall’imprenditore: ciò che in quel caso rilevava era la eccezionalità e la transitorietà dell’incremento dell’ordinaria attività d’impresa. Anche ora, dunque, si deve ritenere che queste stesse caratteristiche devono riguardare la ragione ex art. 20 c. 4 D. Lgs. 276/03, senza che ciò sia in contraddizione con la precisazione compiuta dal legislatore delegato e di cui si sta parlando.

Le conseguenze della mancanza di motivazione saranno trattate successivamente, parlando del sistema sanzionatorio predisposto dal D. Lgs. 276/03.

3.3.                  La cessazione della somministrazione

Altri problemi interpretativi riguardano la sorte del rapporto di lavoro somministrato allorché si concluda il contratto di somministrazione. Naturalmente, il problema non riguarda i lavoratori assunti a tempo determinato (ovviamente, a condizione che il termine sia stato legittimamente apposto, del che si è già detto), il cui rapporto è per forza di cose destinato a risolversi allo scadere del termine. Piuttosto, la questione riguarda i lavoratori assunti a tempo indeterminato.

A tale riguardo, si deve partire dall’art. 22 c. 4 D. Lgs. 276/03 che, preliminarmente, esclude l’applicazione dell’art. 4 L. 223/91 nel caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato, soggiungendo che, in questo caso, si applica l’art. 3 L. 604/66. Si tratta quindi di capire se l’ipotesi contemplata dalla norma (termine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato) costituisca di per sé giustificato motivo di licenziamento. La risposta – vale la pena anticiparlo subito – deve essere negativa.

Infatti, il precedente comma 3 della norma di cui si parla prevede espressamente che il lavoratore assunto a tempo indeterminato, per i periodi in cui egli rimane in attesa di utilizzazione, ha il diritto di percepire un’indennità di disponibilità, peraltro esclusa da ogni istituto di legge o di contratto. Ora, non si capisce il motivo che avrebbe indotto il legislatore a prevedere esplicitamente questo diritto se, al contempo, egli avesse previsto l’automatica risoluzione del rapporto di lavoro, per giustificato motivo obiettivo, alla fine dei lavori. Anzi, si deve ritenere che l’indennità di disponibilità sia coerente con il principio, già ricordato, secondo cui gli istituti del D. Lgs. 276/03 devono essere stabili. Si consideri infatti che, secondo gli ordinari principi della mora del creditore, il lavoratore assunto dal somministratore a tempo indeterminato, per il tempo in cui non viene utilizzato, dovrebbe percepire la normale retribuzione, il che renderebbe il rapporto di lavoro a tempo indeterminato particolarmente oneroso e, quindi, raramente praticato. Pertanto, per scongiurare questa eventualità, il legislatore delegato ha preferito derogare quel principio generale, prevedendo il diritto del lavoratore a un emolumento inferiore rispetto a quello che gli spetterebbe sulla base delle regole del diritto comune; questo sacrificio è peraltro controbilanciato dal perseguimento del fine della stabilità del rapporto. Si vede allora l’equilibrio previsto dal legislatore delegato: in nome di questa stabilità, il lavoratore rinuncia all’intera retribuzione, il datore di lavoro si obbliga a mantenere in vita il rapporto, se non in presenza di un giustificato motivo di licenziamento che, di conseguenza, non può riferirsi esclusivamente al termine dei lavori.

Si può ancora considerare che una diversa conclusione sarebbe quanto meno elusiva della normativa limitativa del ricorso al lavoro a termine. Si è già detto che il somministratore non può stipulare contratti a termine semplicemente adducendo la necessità di impiegare un dato lavoratore nell’ambito di un certo contratto di somministrazione, in quanto quel contratto non è altro che una commessa rientrante nella sua ordinaria attività imprenditoriale. Pertanto, sarebbe contraddittorio da un lato vietare l’assunzione a termine di un lavoratore per la semplice ragione di impiegarlo specificamente in una ordinaria commessa e, dall’altro lato, consentire che quello stesso lavoratore, conseguentemente assunto a tempo indeterminato, possa essere licenziato per il semplice fatto che la commessa è venuta meno. Come si vede, e come si diceva, ravvisare nella fine del lavoro un giustificato motivo di licenziamento comporterebbe un’elusione del divieto di stipulare contratti a termine per ragioni che rientrano nell’ordinaria attività imprenditoriale, senza carattere di eccezionalità o transitorietà.

Ad analoghe conclusioni si può pervenire per ragioni di carattere sistematico. Si è già detto che l’art. 22 c. 4 parte dalla premessa che la fine dei lavori non comporta l’applicazione dell’art. 4 L. 223/91. In effetti, senza la disposizione appena citata, per il somministratore sarebbe oltremodo facile sbarazzarsi dei lavoratori, facendo ricorso alla procedura di mobilità, per lo meno nel caso in cui i lavoratori coinvolti dal contratto di somministrazione cessato siano almeno cinque. Ebbene, il legislatore delegato, coerentemente con il principio della stabilità, ha evidentemente voluto precludere questa possibilità, stabilendo esplicitamente che la procedura di mobilità non può essere aperta in considerazione del termine dei lavori nel caso di somministrazione. A questo punto, è conseguente che il somministratore, non potendo far ricorso al licenziamento disciplinato dalla L. 223/91, potrà eventualmente utilizzare lo strumento disciplinato dalla L. 604/66, ovvero il licenziamento individuale. Ciò però non significa che il termine dei lavori rappresenti in sé un giustificato motivo di licenziamento: sarebbe paradossale che il legislatore, da un lato, restringesse la facoltà del recesso precludendo il ricorso al licenziamento collettivo, per contemporaneamente dar libero accesso al licenziamento individuale che, per di più, è privo delle garanzie procedimentali previste dalla L. 223/91. Del resto, si consideri anche che la giurisprudenza, nel caso di calo di commesse, riconosce la legittimità del licenziamento individuale non tanto a fronte di quel calo in sé considerato, ma in conseguenza della riduzione di attività che ne deriva[4].

Se, come si è visto, deve essere motivata la cessazione del rapporto di lavoro tra lavoratore somministrato e somministratore, la motivazione deve caratterizzare anche la risoluzione del contratto di somministrazione e, dunque, la cessazione dell’utilizzazione del lavoratore da parte dell’utilizzatore. Anche in questo caso, e per il motivo già indicato, la questione riguarda i contratti di somministrazione non a termine, ma a tempo indeterminato.

Alla conclusione sopra riferita si può pervenire sulla scorta dell’art. 24 c. 4 lettera b). La norma prevede che, ogni dodici mesi, il datore di lavoro, anche tramite la propria associazione di categoria, informi la Rsu, tra l’altro, in ordine ai motivi dei contratti di somministrazione conclusi. Ora, astrattamente, il termine concluso, riferito a un contratto, può significare tanto stipulato, quanto cessato. Certamente, il significato tecnico è il primo, mentre la seconda accezione appartiene più al linguaggio comune. Tuttavia, non si deve pretendere da questo legislatore delegato un uso scrupoloso del linguaggio tecnico – giuridico.

Si pensi, tanto per aprire una parentesi e per far comprendere come le espressioni del D. Lgs. 276/03 siano anche altrove tutt’altro che tecniche, che – per esempio – l’art. 23 c. 6 impone all’utilizzatore di informare il somministratore nel caso in cui al lavoratore somministrato siano assegnate mansioni superiori o non equivalenti. Ora, è ovvio che, tecnicamente, la mansione che non sia equivalente, e che sia contrapposta a quella superiore, non può che essere quella dequalificante, che è vietata ex art. 2103 c.c.; pertanto, per non imporre all’utilizzatore di confessare, mediante dichiarazione al somministratore, il compimento di un atto illecito, il termine non equivalente dovrà essere interpretato nel senso, atecnico, di mansione differente.

Si pensi ancora all’art. 27 c. 3, di cui si è già detto. La norma testualmente dispone, come si è visto, in merito alla “valutazione delle ragioni di cui all’art. 20, commi 3 e 4, che consentono la somministrazione di lavoro”. Ebbene, le norme citate dall’art. 27 c. 3 disciplinano il contratto di somministrazione, non la somministrazione di lavoro che, tecnicamente ex art. 2 c. 1 lettera a), è – lo si à già detto – “la fornitura professionale di manodopera”; quindi è tutt’altro che un contratto.

Esempi come questi inducono a ritenere che la clausola concluso non abbia necessariamente un significato tecnico, giacché il D. Lgs. 276/03 contiene altri esempi di casi in cui della terminologia tecnica si fa scempio. Allora l’interpretazione della clausola deve essere condotta, in primo luogo, considerando quanto disposto dalla lettera a) dello stesso art. 24 c. 4. Come si è già detto, il datore di lavoro è obbligato a una comunicazione preventiva (salvo i casi d’urgenza) dei motivi “del ricorso alla somministrazione”. In altre parole, la Rsu è già informata in merito ai motivi dei contratti stipulati a seguito dell’informazione preventiva, e non si capisce perché questa informazione dovrebbe essere ripetuta in una sede che sarebbe meramente consuntiva, ma per il resto sterile di effetti.

A quanto si è appena detto, si aggiunga che, ai sensi della lettera b)della norma in esame, oggetto della comunicazione deve essere anche “la durata degli stessi”, ovvero dei contratti conclusi. Ora, è evidente che se conclusi significasse stipulati, la durata potrebbe essere comunicata solo per i contratti a termine, non certo per quelli a tempo indeterminato la cui durata, non essendo – per ipotesi – ancora terminati, non potrebbe essere precisata. E invece il legislatore delegato pretende che la durata sia indicata, senza peraltro riferire questa indicazione alla sola ipotesi specifica dei contratti a termine, il che evidentemente significa che la durata va comunicata anche per i contratti a tempo indeterminato. Ma se anche per questi contratti bisogna indicare la durata, è inevitabile che deve trattarsi di contratti cessati, con il che si conferma qual sia l’esatto significato dell’espressione conclusi.

Naturalmente, il fatto che il contratto di somministrazione a tempo indeterminato possa essere concluso (nel senso di risolto) solo in presenza di un motivo comporta importanti conseguenze. Qualora la risoluzione fosse immotivata, e da questa risoluzione il lavoratore somministrato conseguisse un danno, quest’ultimo potrebbe agire per il conseguente risarcimento. Astrattamente, il danno in questione può essere nei termini di percezione dell’inferiore indennità di disponibilità, in luogo della retribuzione ordinaria. O ancora, la immotivata cessazione del contratto di somministrazione, accompagnata da un giustificato motivo ex art. 3 L. 604/66, può comportare la risoluzione del rapporto di lavoro. In particolare, con riferimento a quest’ultimo danno, il lavoratore interessato, secondo i principi generali, potrebbe richiedere l’adempimento in forma specifica, il che vuol dire la ricostituzione del rapporto di somministrazione illegittimamente risolto.

Né in contrario si potrebbe dire che la norma prevede un diritto direttamente in capo alle Rsu, dunque esclusivamente azionabile ex art. 28 S.L.. A tale riguardo, è agevole rispondere ricordando la giurisprudenza che, a proposito della procedura sindacale ex L. 223/91, ha stabilito che la violazione degli obblighi procedurali, benché direttamente posti a carico del datore di lavoro nei confronti del sindacato, hanno un’incidenza sul singolo rapporto di lavoro, con la conseguente azionabilità di quelle violazioni da parte del singolo lavoratore interessato[5].

3.4.                  Il sistema sanzionatorio

Altre questioni interpretative riguardano il sistema sanzionatorio previsto dalla normativa delegata. La questione è disciplinata dall’art. 21 c. 4 e dall’art. 27 c. 1. La prima delle due norme ora citate contempla l’ipotesi che manchi l’indicazione scritta di alcuni elementi indicati dal precedente comma 1, lettere da a) a e): in questo caso, viene sancita la nullità del contratto di somministrazione e i lavoratori sono considerati, a tutti gli effetti, dipendenti dell’utilizzatore.

L’art. 27 c. 1 prevede invece l’ipotesi della somministrazione che si svolga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui all’art. 20 e di cui all’art. 21 c. 1, lettera da a) a e). La sanzione prevista per queste ipotesi è la facoltà del lavoratore di chiedere, al giudice del lavoro e senza necessità di convenire in giudizio anche il somministratore, la costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione.

Come si vede, l’imputazione del rapporto all’utilizzatore è esplicitamente prevista quando manchino le condizioni oggettive di ammissibilità del contratto di somministrazione ex art. 20 c. 3 e 4, nonché quando manchi l’indicazione scritta degli elementi indicati all’art. 21 c. 1, lettere da a)a e), oppure quando tali elementi, pur indicati per iscritto, non risultino veritieri o in sé idonei a legittimare la somministrazione. Tra i casi in questione vale la pena di ricordare che vi sono anche “le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20”, come sopra interpretati: ciò evidentemente significa che se l’utilizzatore non adducesse una valida ragione giustificatrice del contratto di somministrazione a termine, o una valida ragione giustificatrice del contratto di somministrazione a tempo indeterminato aggiuntiva alla mera condizione di ammissibilità di cui all’art. 20 c. 3, il rapporto dovrebbe essere imputato alle dipendenze dell’utilizzatore.

Il primo problema interpretativo che si pone al riguardo è se l’imputazione del rapporto nei confronti dell’utilizzatore debba avvenire a termine o a tempo indeterminato. Infatti, come si è detto, a un contratto di somministrazione a termine potrebbe far riscontro un contratto di lavoro somministrato a tempo indeterminato, o viceversa. Pertanto, si tratta di stabilire a che titolo (a termine o a tempo indeterminato) imputare il rapporto, nel caso in cui i due rapporti che sottostanno all’istituto triangolare di cui si parla abbiano una durata diversa.

La soluzione non si trova nel D. Lgs. 276/03, giacché il legislatore delegato parla solo genericamente di imputazione del rapporto, senza specificarne il titolo. Tuttavia, la risposta è insita nei principi dell’ordinamento e, più in particolare, nel D. Lgs. 368/01: il contratto di lavoro a termine può essere stipulato solo sulla scorta di precisi requisiti di sostanza e di forma, in assenza dei quali il rapporto deve essere considerato a tempo indeterminato. Pertanto, in mancanza di quei requisiti e, in particolare, di un contratto scritto tra lavoratore e utilizzatore, il rapporto non può che costituirsi a tempo indeterminato.

Quanto si è detto deve portare ad un’analoga conclusione anche nell’ipotesi in cui tanto il contratto di somministrazione, quanto il rapporto di lavoro fossero a termine. Anche in questo caso, il rapporto dovrebbe essere imputato a tempo indeterminato, in primo luogo perché la ragione che aveva giustificato l’apposizione del termine riguardava il somministratore e può non essere pertinente nei confronti dell’utilizzatore, dunque idonea a costituire un valido rapporto a termine alle sue dipendenze. In ogni caso, e a prescindere da quanto si è detto, perché il contratto di lavoro stipulato tra lavoratore e somministratore sarebbe, nel caso che si sta esaminando, simulato, dunque del tutto improduttivo di effetti, anche nella parte in cui è prevista l’apposizione del termine.

Il regime sanzionatorio predisposto dal legislatore delegato omette di considerare, tra gli elementi che devono essere indicati per iscritto ex art. 21 c. 1, la mansione cui sarà adibito il lavoratore. Infatti, l’omissione o la falsità o la inidoneità di questa indicazione non dà luogo né alla conseguenza prevista dall’art. 21 c. 4, né a quella indicata dall’art. 27 c. 1. Tuttavia, da questo non si deve concludere che la mansione assegnata al lavoratore somministrato sia del tutto indifferente all’ordinamento e priva di conseguenze.

Infatti, si è visto che si può ricorrere alla somministrazione solo in presenza delle condizioni oggettive ex art. 20 c. 3 e 4 e dei motivi ex art.  21 c. 1 lettera c). In altre parole, l’utilizzazione del lavoratore somministrato non avviene a piacere, ma in funzione delle condizioni e dei motivi che legittimano l’istituto. Pertanto, l’assegnazione al lavoratore somministrato di mansioni che non siano funzionali alla condizione o al motivo che giustifica la somministrazione contrasterebbe con l’art. 20 c. 3 o 4, o ancora con l’art. 21 c. 1 lettera c) e dunque, per espressa previsione degli artt. 21 c. 4 e 27 c. 1, comporterebbe l’imputazione del rapporto (sempre a tempo indeterminato, per i motivi già indicati) nei confronti dell’utilizzatore.

4.                  Il contratto di somministrazione contemplato da un accordo sindacale separato

Prima di concludere, bisogna affrontare un’altra questione, relativa ad un rinvio alla contrattazione collettiva. Per la verità, il D. Lgs. ne prevede numerosi, anche se talvolta facendo ricorso a una tecnica nuova e quasi intimidatoria, per cui se la questione delegata non viene disciplinata dalle parti sociali entro un certo termine, provvederà il Ministro del lavoro con proprio decreto. In ogni caso, in questa sede si vuole parlare del rinvio contenuto all’art. 20 c. 3 lettera i): il contratto di somministrazione a tempo indeterminato è consentito “in tutti gli altri casi” individuati dai contratti collettivi, nazionali o territoriali, “stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”.

La terminologia non è nuova, dal momento che il legislatore ne fa uso da quando, sulla scorta della nozione di sindacato maggiormente rappresentativo, la giurisprudenza ha riconosciuto tale qualifica anche in capo a sindacati non tradizionali e, rispetto a questi, di minore consistenza[6]. Pertanto, la nuova formulazione utilizzata dal legislatore, anche in questa occasione, sembra una risposta a quella giurisprudenza e un tentativo di escludere dal rinvio legislativo quei sindacati che, pur essendo maggiormente rappresentativi, non hanno una rappresentatività comparabile a quella di altri, più forti sindacati.

Come si diceva, dunque, la nozione non è nuova. Ciò che è nuovo è l’attuale scenario dei rapporti sindacali, caratterizzato ormai troppo spesso da accordi sindacali separati. Il rischio, insomma, nell’attuale contesto sindacale, è che la individuazione di ulteriori condizioni di ammissibilità del contratto di somministrazione ex art. 20 c. 3 avvenga ad opera di un accordo sindacale separato. Il rischio è tanto maggiore perché si potrebbe sostenere che quel contratto abbia valenza anche nei confronti dei lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti: per esempio, il lavoratore utilizzato nell’ambito di un’ipotesi prevista dal contratto collettivo stipulato separatamente da un sindacato cui egli non è iscritto non potrebbe far valere l’illegittimità del contratto di somministrazione, perché il datore di lavoro applica quel contratto collettivo e, dunque, è legittimato a stipulare contratti di somministrazione nei casi ivi contemplati.

Tuttavia, il problema è più apparente che reale. La circostanza che il rinvio riguardi contratti stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi è una garanzia sufficiente ad escludere che l’accordo possa essere stipulato con sindacati di comodo. Anche con riferimento ad accordi siglati separatamente con sindacati tradizionali, non si può mancare di osservare che la nozione di rappresentatività comparativa presuppone un confronto tra le organizzazioni sindacali. Come già si diceva, la nozione è una risposta a quell’orientamento giurisprudenziale che riconosceva la maggiore rappresentatività in capo a sindacati che erano in sé maggiormente rappresentativi, e a prescindere da un confronto tra questi e altri, più consistenti sindacati: questo proprio in forza della premessa che la maggiore rappresentatività è un valore assoluto e non comparativo. La nozione utilizzata dal legislatore nella norma di cui si sta parlando, invece, presuppone la comparazione, come espressamente indicato nella stessa terminologia utilizzata per esprimere il concetto. Pertanto, nel caso in cui un sindacato tradizionale stipulasse, separatamente dagli altri sindacati, un accordo ex art. 20 c. 3 lettera i), si dovrebbe verificare se quel sindacato possiede, da solo, la rappresentatività comparativa, ovvero una rappresentatività adeguata nei confronti degli altri sindacati, non coinvolti nella stipulazione dell’accordo. E’ dunque evidente che un sindacato tradizionale, maggiormente rappresentativo, abituato a stipulare contratti collettivi insieme agli altri sindacati tradizionali e maggiormente rappresentativi, qualora stipulasse un accordo separato ai sensi della norma di cui si parla, dovrebbe possedere anche il criterio della rappresentatività comparativa, pena l’illegittimità di quell’accordo.

L’illegittimità potrebbe essere fatta valere, naturalmente, dal lavoratore somministrato nell’ambito del contratto di somministrazione stipulato in forza di quell’accordo sindacale, ovviamente a condizione di provare che il sindacato stipulante è privo del requisito previsto dal legislatore delegato. Inoltre, la questione potrebbe essere azionata ex art. 28 S.L. dai sindacati esclusi, sempre che siano comparativamente più rappresentativi: infatti, l’aver stipulato un contratto con un soggetto diverso da quello previsto dalla norma, escludendo invece dall’accordo (e magari anche dalla trattativa) un sindacato che possiede le caratteristiche ivi indicate, comporta il disconoscimento del ruolo di interlocutore sindacale riconosciuto dall’art. 20 c. 3 lettera i) e, come tale, è antisindacale.

In entrambi i casi, la conseguenza sarà l’imputazione all’utilizzatore del rapporto del lavoratore somministrato, in forza di quanto disposto dagli artt. 21 c. 1 lettera c) e 27 c. 1. In particolare, in sede di procedimento ex art. 28 S.L., questa sarà l’inevitabile conseguenza in sede di rimozione degli effetti dell’accertata condotta antisindacale.

 

 

Stefano Chiusolo

 

[1] ALLEVA, La ricerca e l’analisi dei punti critici del D. Lgs. 276/03 in materia di occupazione e mercato del lavoro, in www.cgil.it.

[2] FRANCESCHINIS, L’art. 2112 c.c. dopo il D. Lgs. 276/03, in www.di-elle.it.

2 Come è noto, la funzione legislativa può essere esercitata dal Governo, senza la delega parlamentare, solo nei casi di necessità e urgenza disciplinati dall’art. 77 Cost.

[3] Cass. 29/11/96 n. 10687, in Lav. Giur. 1997, 606; Cass. 27/3/96 n. 2756, in Foro it. 1996, I, 2427; Cass. 8/7/95 n. 7507, in Lav. Giur. 1996, 334; Cass. 14/5/95 n. 5209, ivi 1996, 82; Cass. 9/5/94 n. 4503, in Dir. e prat. lav. 1994, 2642; Cass. 14/7/94 n. 6585, ivi 1994, 3474.

[4] Cass. 4/3/93 n. 2595, in Dir .Lav. 1993, II, 286, con nota di Vallebona, Licenziamento individuale per riduzione di personale.

[5] Cass. sez. un. 11/5/00 n. 302, in D&L 2000, 691, con nota di Muggia; in Riv. Giur. Lav. 2001, 119, con nota di Muggia e Veraldi, Cassa integrazione e licenziamenti collettivi al vaglio delle Sezioni Unite.

[6] Tra le altre, v. Cass. 30/3/98 n. 3341, in D&L 1998, 627, n. ZEZZA, La Corte di Cassazione riconosce alla Cub la maggiore rappresentatività: una vittoria di Pirro.