Il nuovo part-time e il lavoro intermittente (di Maurizio Borali)

 

 

 

 

1)      La nuova regolamentazione del part – time: flessibilità a senso unico - 2) Contrattazione individuale e ruolo sindacale - 3) Alcuni punti critici della nuova normativa - 4) Il lavoro intermittente

 

 

1)      La nuova regolamentazione del part – time: flessibilità a senso unico

Alcuni tra i primi commentatori della riforma del lavoro a tempo parziale hanno definito la nuova normativa un esempio di “flessibilità a senso unico”[1]; tale definizione sta ad indicare che con il D. Lgs. 276/03 il legislatore ha sensibilmente alterato l’equilibrio, su cui si fondava la disciplina del D. lgs. 61/00, tra esigenze dell’impresa ed interesse del lavoratore.

In buona sostanza, la nuova legge introduce esclusivamente disposizioni dirette ad estendere il potere del datore di lavoro di modulare la prestazione a tempo parziale in base alle proprie mutevoli esigenze, a scapito dell’interesse del lavoratore part – time di avere certezze circa la durata e la collocazione temporale del proprio orario di lavoro (ovvero gli aspetti più rilevanti per il lavoratore che sceglie questa forma contrattuale), senza neppure incrementare le possibilità, per il lavoratore che subisce e non ricerca il rapporto a tempo parziale, di trasformare il proprio rapporto da tempo parziale a tempo pieno.

Gli esempi di questo assunto di carattere generale sono molteplici, e riguardano tutti i principali aspetti dell’istituto in esame:

a)      il lavoro supplementare; la precedente normativa sanciva che per la prestazione del lavoro supplementare era richiesto “in ogni caso” il consenso del lavoratore interessato (art. 3 c. 3); ora tale consenso è richiesto solo nel caso in cui l’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare non sia “prevista e regolamentata dal contratto collettivo”;

b)      le clausole flessibili ed elastiche; il sistema introdotto dal legislatore del 2001 prevedeva un sistema definito “a doppia chiave”: dapprima era necessario che la possibilità di variare la collocazione temporale della prestazione o la durata della stessa fosse prevista e regolamentata a livello collettivo; solo a fronte di tale previsione era poi possibile richiedere al lavoratore il proprio assenso ad operare con tale flessibilità (art. 3 c. 7 e 9). L’attuale normativa attribuisce invece una rilevanza preminente al contratto individuale, nell’ambito del quale possono essere concordate clausole flessibili ed elastiche, demandando al contratto collettivo di stabilire: I) le condizioni e le modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione (clausole flessibili); II) le condizioni che possono determinare la variazione in aumento della durata della prestazione ed i relativi limiti (clausole elastiche). Ma, e questo è l’aspetto veramente “innovativo” della normativa, “in assenza di contratti collettivi datore di lavoro e prestatore di lavoro possono concordare direttamente l’adozione di clausole elastiche o flessibili” (art. 8 c. 2 ter);

c)      La possibilità di “denunciare” il patto che prevede l’applicazione delle clausole flessibili; se prima il lavoratore poteva, ricorrendo determinate condizioni (necessità di attendere ad altre attività lavorative, esigenze di carattere familiare, di salute, art. 3 c. 10), ritrattare il proprio consenso all’applicazione delle clausole di cui al punto precedente; ora tale possibilità è stata radicalmente abolita;

d)      diritto di precedenza; se per il lavoratore che “sceglie” il rapporto a tempo parziale è fondamentale poter avere certezze in  ordine alla collocazione temporale ed alla durata della propria prestazione, per chi accetta un rapporto a tempo ridotto pur avendo la necessità di lavorare per l’intera giornata è di particolare importanza la possibilità di ottenere la trasformazione del suo rapporto a tempo pieno. In passato tale possibilità poteva concretizzarsi in due ipotesi: la prestazione costante di lavoro supplementare e l’assunzione, da parte del datore di lavoro, di nuovi dipendenti a tempo pieno. Con riferimento al primo aspetto, è stato eliminato lo specifico rinvio alla contrattazione collettiva per quanto riguarda le modalità di “consolidamento” del lavoro supplementare prestato in maniera non occasionale (art. 3 c. 7); sotto il secondo profilo, è stato abolito il generale diritto di precedenza, che può essere riconosciuto solo a livello individuale, ed è comunque limitato alle assunzioni che avvengono “nello stesso ambito comunale” e non più nel raggio di 50 km (art. 5 c. 2);

e)      la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale. Che nell’attuale previsione il contratto a tempo parziale sia pensato essenzialmente, se non esclusivamente, per soddisfare le esigenze dell’impresa, e non del lavoratore, è infine confermato dalla modifica della norma che regola il passaggio dal tempo pieno al tempo parziale. Sul punto il legislatore del 2001 si era già mosso molto timidamente, non introducendo un vero e proprio diritto alla trasformazione del rapporto a tempo parziale neppure in presenza di situazioni che pure legittimerebbero una simile richiesta (ad esempio, per le lavoratrici che rientrano in servizio dopo la maternità; una recente ricerca ha confermato come la gran parte delle lavoratrici che non riprendono servizio dopo la maternità lo fanno per l’impossibilità di ottenere una riduzione del loro orario di lavoro, v. ricerca Adi- Ipl 21.7.2003, in www.rassegna.it), ma limitandosi ad affermare che, in caso di assunzione di nuovo personale a tempo parziale, il datore di lavoro doveva darne comunicazione ai dipendenti in forza; in caso di richieste di trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, il datore di lavoro era quindi tenuto a “prendere in considerazione” tali richieste e, in caso di rifiuto, a darne “adeguata motivazione”. Anche questa terminologia, già talmente sfumata da far escludere l’esistenza di un “diritto alla trasformazione del rapporto” è stata evidentemente ritenuta eccessiva dal legislatore del 2003, che ha abolito l’obbligo di motivare il rifiuto.

2)      Contrattazione individuale e ruolo sindacale

Se quello evidenziato è sicuramente l’aspetto più significativo della riforma, si deve peraltro considerare che l’attribuzione al datore di lavoro di ampi margini di flessibilità comporta un corollario, ovvero la diminuzione del ruolo sindacale a favore dell’ampliamento delle possibilità regolative riconosciute all’autonomia privata individuale.

Tale caratteristica della nuova normativa è forse meno evidente, anche perché l’intervento integrativo della contrattazione collettiva è ancora ampiamente presente nel sistema normativo, ma non  di minor rilievo. Infatti, quello sindacale, e qui sta l’aspetto essenziale, è un intervento che non è più “indispensabile” per il funzionamento del sistema, risultando sotto molti profili solamente eventuale e, come tale, potenzialmente evitabile. Solo nei prossimi mesi, in occasione dei rinnovi contrattuali, si potrà verificare quale ruolo la contrattazione collettiva potrà concretamente giocare, ma sin d’ora ci si può chiedere quale interesse abbiano le imprese a contrattare determinati aspetti, e dunque a porre dei vincoli insuperabili dalla contrattazione individuale, quando il ricorso alla flessibilità del part time si può conseguire anche in assenza di tale regolamentazione. In sostanza, mentre in precedenza il contratto collettivo poteva concedere flessibilità, ora lo stesso può prevalentemente porre obblighi e limiti.

L’esempio più evidente, al riguardo, è quello già accennato in relazione alle clausole flessibili, la cui introduzione può ora avvenire anche “in assenza di contratti collettivi” e, dunque, si deve ritenere anche in presenza di contratti collettivi che non disciplinino tale materia; in questa ipotesi la legge prevede ora che tutto possa essere demandato alla contrattazione individuale, e non è necessario essere “di parte” per riconoscere che non esiste equivalenza funzionale tra contratto collettivo e contratto individuale, se non con riferimento a categorie altamente specializzate di lavoratori, che assai difficilmente sono interessate alla stipulazione di contratti a tempo parziale. Appare quindi evidente il tentativo di “scavalcare” il sindacato, ponendo il lavoratore nella condizione di dovere accettare l’introduzione, in sede di stipulazione del contratto di assunzione, delle clausole elastiche, peraltro con la contemporanea abrogazione dell’unico possibile rimedio all’eventuale imposizione forzata di tali clausole, ovvero la facoltà di denunciare il patto.

Altro esempio riguarda il lavoro supplementare. La legge attuale (art. 3 c. 2) demanda genericamente alla contrattazione collettiva la possibilità di determinare “il numero massimo di ore di lavoro supplementare effettuabili” e le conseguenze del superamento. Dunque, non è più attribuita alla contrattazione collettiva una funzione autorizzatoria, poichè è sufficiente richiedere il consenso del lavoratore; inoltre, la normativa precedente prevedeva espressamente che dovesse essere applicata una maggiorazione sulle ore di lavoro supplementare eccedenti il tetto massimo fissato dalla contrattazione collettiva, demandando alla contrattazione stessa la quantificazione dell’entità di tale maggiorazione. Peraltro, l’importanza di un accordo sul punto con le OO.SS. era determinata dal fatto che, in attesa dei contratti collettivi, si doveva applicare una maggiorazione del 50%. Dal che si ricava come gli equilibri si siano invertiti: se prima era interesse del datore di lavoro raggiungere un accordo, essendo prevista una gravosa maggiorazione in assenza dello stesso, ora saranno le OO.SS. a dover stipulare un accordo, se non si vuole evitare che manchi qualsiasi limite alle ore di lavoro supplementare da prestare, ovvero che il superamento dell’eventuale limite non comporti il diritto ad un’adeguata compensazione.

Ancora: il preavviso che deve essere fornito al lavoratore per la modifica della collocazione temporale della prestazione era fissato dal D. Lgs. 61/00 in 10 giorni, con possibilità per i contratti collettivi di ridurlo sino ad un minimo di 48 ore. La legge attuale (art. 3 c. 8) riduce il termine ordinario a 2 giorni lavorativi (rendendo ancor più difficile per il lavoratore organizzare il proprio tempo libero), “fatte salve le intese tra le parti”, laddove per parti sembra chiaro il riferimento alle parti stipulanti il contratto individuale, mentre alla contrattazione collettiva viene demandato solo di prevedere “specifiche compensazioni”, anche di natura non economica, non parlandosi più di “maggiorazione della retribuzione oraria globale di fatto”.

Anche l’eliminazione della disposizione che prevedeva di computare “per intero” i lavoratori part time ai soli fini dell’esercizio dei diritti sindacali (art. 6 c. 2) appare significativa.

Un ultimo accenno sul punto deve essere fatto ai “soggetti stipulanti” i contratti collettivi cui è demandata la regolamentazione di determinati aspetti del rapporto. L’art. 1 c. 3 (cui fanno riferimento anche le disposizioni successive) riguardava i contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi nonché i contratti collettivi aziendali stipulati da Rsa o Rsu “con l’assistenza dei sindacati che hanno negoziato e sottoscritto il contratto collettivo nazionale applicato: era dunque evidente l’intento di assicurare un controllo “centralizzato” sull’attività negoziale. Ora è stato abolito il riferimento alla “assistenza dei sindacati che hanno…”; questo significa che per stabilire le ore massime di lavoro supplementare e le relative causali (art. 3 c. 2), piuttosto che per regolamentare le condizioni di applicazione delle clausole elastiche (art. 3 c. 7), può bastare un contratto aziendale sottoscritto con una Rsa. Inoltre, mentre prima la legge parlava di contratti firmati “dai” sindacati comparativamente più rappresentativi, ora il riferimento è a contratti firmati “da” associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative; una differenza apparentemente minima ma che sembra lasciar intendere come il legislatore “abbia mirato a sterilizzare il dissenso di una o più organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (perché le altre potranno comunque stipulare accordi idonei ad integrare il  disposto legislativo) e nel contempo a favorire il più ampio decentramento negoziale..”[2].

3)      Alcuni punti critici della nuova normativa

Da ultimo si può evidenziare come la normativa in materia di part time, seppure sicuramente di più agevole applicazione rispetto ad altri istituti introdotti dal D. Lgs. 276/03, innestandosi su una struttura già preesistente, presenti aspetti potenzialmente controversi, in relazione ai quali bisognerà attendere l’emanazione delle norme collettive piuttosto che valutarne l’interpretazione  giurisprudenziale.

Come accennato, la normativa precedente prevedeva infatti alcune statuizioni di carattere provvisorio, che sono ora state abrogate: il numero massimo di ore di lavoro supplementare (10%, art. 3 c. 2), le conseguenze del superamento di tale tetto (maggiorazione del 50% - possibilità di consolidamento, art. 3 c. 6). Difficile dunque dire cosa potrà accadere in attesa della contrattazione collettiva. Peraltro, considerato che anche la normativa modificata era assai recente, si deve considerare che alcuni contratti neppure avevano ancora potuto regolare aspetti che già tale legge demandava alla contrattazione collettiva.

Vi sono poi questioni destinate a rimanere aperte anche dopo la stipulazione dei Ccnl. Ad esempio, cosa accade al lavoratore che si rifiuti di prestare lavoro supplementare seppure regolamentato a livello collettivo? Da un lato, la legge dice infatti che in questo caso non è necessario il consenso del lavoratore; dall’altro specifica che il rifiuto di prestare lavoro supplementare non può “in nessun caso integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento” (art. 3 c. 4). Non si capisce dunque se, in tale ipotesi, il lavoratore possa continuare ad opporre il proprio rifiuto (illegittimo), venendo sanzionato anche ripetutamente, senza però poter essere licenziato, oppure se l’inadempimento all’obbligo contrattuale comporti, se reiterato, il configurarsi di una giusta causa di licenziamento.

Manca, infine, una chiara riformulazione delle definizioni di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale e verticale che sia congrua con la recente normativa in materia di orario di lavoro (D. Lgs. 66/03). Infatti, basti pensare che l’art. 1 c. 2 definisce come “orizzontale” il part time caratterizzato da un orario ridotto rispetto all’orario normale giornaliero di lavoro, ma l’art. 3 c. 1 del D. Lgs. 66/03 individua solo l’orario normale di lavoro settimanale, stabilito in 40 ore, ma non quello giornaliero; in mancanza dunque di un contratto collettivo applicabile che stabilisca l’orario giornaliero di lavoro, mancherà addirittura il riferimento fondamentale per distinguere tra part time orizzontale e verticale.

4)      Il lavoro intermittente

Quella in esame è una delle figure apparentemente “più innovative” tra quelle introdotte dalla legge ma, a detta di molti commentatori, anche destinata a trovare ben scarsa applicazione. Si tratta di una forma contrattuale mutuata dagli Stati Uniti (da cui la  denominazione di job on call), dove peraltro la diffusione è comunque limitata (circa il 4% della nuova occupazione) così come le è nei paesi europei dove si riscontrano tipologie contrattuali analoghe (Olanda e Belgio).

Si è parlato, con riferimento a tale contratto, di ipotesi limite di precariato, caratterizzata da prestazioni lavorative solo virtuali[3], venendo sollevate obiezioni sia in ordine alla costituzionalità (per violazione del precetto di cui all’art. 36 Cost) che all’effettiva utilità, a fronte di un lavoro a tempo parziale estremamente flessibile[4].

Innanzitutto si tratta di una disciplina che necessita di integrazione su un punto fondamentale: l’art. 34 demanda ai contratti collettivi o, in mancanza di apposita stipulazione entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, ad un decreto ministeriale, l’individuazione delle “esigenze” a fronte delle quali si può fare ricorso al lavoro intermittente.

In concreto, è possibile individuare due “forme” di lavoro intermittente, a secondo che sia previsto o meno l’obbligo, per il prestatore, di rispondere all’eventuale chiamata del datore di lavoro.

Infatti, l’art. 35 parla di “disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore”, ed il successivo art. 36 precisa che l’indennità di disponibilità spetta solo al lavoratore che “si obbliga contrattualmente a rispondere alla chiamata”.

In assenza di tale impegno risulta peraltro difficile ricondurre l’ipotesi in esame ad un contratto di lavoro, ed anzi ad un contratto in senso stretto: il lavoratore si mantiene libero di rispondere o meno ad una chiamata che il datore di lavoro si riserva di effettuare o meno. Vi è dunque una duplice clausola potestativa, che impedisce di parlare del perfezionamento di un vero e proprio contratto; al più, ci si trova in presenza di un accordo preliminare, con cui le parti stabiliscono le condizioni con cui regolamenteranno i loro rapporti, se e quando questi vi saranno. Con l’ulteriore conseguenza che tali eventuali contratti dovrebbero però ricadere sotto la disciplina del contratto a termine.

Dunque, la forma contrattuale cui sembra doversi fare riferimento è principalmente quella che prevede uno specifico obbligo per il lavoratore di rispondere alla chiamata, obbligo a fronte del quale il datore di lavoro è tenuto all’erogazione di uno specifico compenso (indennità di disponibilità).

La legge demanda alla contrattazione collettiva il compito di stabilire l’entità di tale indennità, che non dovrà comunque essere inferiore alla “misura prevista con decreto del Ministro del lavoro” (art. 36).

In realtà proprio sulla determinazione di tale indennità sembra doversi misurare la reale possibilità di applicazione dell’istituto in questione: se tale indennità fosse eccessivamente bassa, non si comprende quale lavoratore avrebbe interesse a “vincolarsi” alle imprevedibili esigenze del datore di lavoro (perché se le esigenze sono prevedibili, ovvero cadenzate nel tempo, appare ben più logico il ricorso al part time verticale) a fronte di un’indennità irrisoria; e ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che egli non potrebbe, se chiamato, sottrarsi, viste anche le pesanti conseguenze sancite dall’art. 36 c. 6 (risoluzione del contratto, restituzione della quota di disponibilità e “congruo risarcimento del danno fissato nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal datore di lavoro”).

Fermo restando che, un’indennità eccessivamente ridotta, potrebbe comportare una sanzione di incostituzionalità dell’intero istituto; a tale proposito, si deve rammentare che la sentenza della Corte Cost. 11.5.92 n. 210[5] aveva dichiarato illegittimo il part time a chiamata proprio perché il lavoratore, non conoscendo in anticipo la parte di tempo che il datore avrebbe utilizzato, doveva tenersi a disposizione per l’intera giornata, non potendo reperire altre occupazioni. Dunque, potendo il lavoratore intermittente non essere chiamato mai, dovendosi però tenere a disposizione sempre, appare logico che l’indennità di disponibilità sia rispettosa del precetto dell’art. 36 Cost., con il rischio però di divenire eccessivamente onerosa per il datore di lavoro, che deve comunque remunerare un lavoratore che potrebbe anche non servirgli. Da qui dunque il dubbio iniziale: ovvero che si tratti di un contratto, in alternativa, o incostituzionale o inutile.

Una sorta di “sottotipo” di lavoro a chiamata è poi quella identificata dall’art 37 del Decreto, che prevede la possibilità di richiedere la prestazione del lavoratore per determinati periodi dell’anno; a prescindere dal carattere difficilmente comprensibile di alcune definizioni (non sembra così scontata l’identificazione  del periodo delle “ferie estive” o delle “vacanze pasquali”), la disciplina in questione appare, a sua volta, di dubbia legittimità. Infatti, la legge prevede che l’indennità di disponibilità sia riconosciuta, con riferimento a tali periodi, solo nel caso in cui la prestazione sia stata effettivamente richiesta. Dunque, il lavoratore dovrebbe tenersi a disposizioni, non potendo rischiare di impegnarsi in altre attività così da non poter poi rispondere alla chiamata, con le accennate conseguenze risarcitorie, ma tale disponibilità potrebbe non essere remunerata in alcun modo (in caso manchi la chiamata effettiva). Vi è, quindi, in questa ipotesi un’evidente violazione anche del principio di cui all’art. 3 Cost., stante il diverso trattamento riconosciuto a chi si impegni in tali periodi, e dunque sopportando a ben vedere un sacrificio ancora maggiore, perdendo la possibilità di fruire del tempo libero proprio nei periodi tradizionalmente dedicati a tale scopo.

 

 

Maurizio Borali

 

[1] Così Caruso nell’intervento al convegno “La riforma del mercato del lavoro”, Reggio Calabria 24 ottobre 2003

 

[2] Pinto, Lavoro e nuove regole. Dal Libro Bianco al D. Lgs., 276/03, in www.unicz.it

[3] Alleva, La ricerca e l’analisti dei punti critici del decreto legislativo 276/2003, in www.cgil.it

 

[4] così Caruso, nell’intervento citato alla nota 1

[5] In Foro it. 1992, I, 3232, con nota di Alaimo