L'art. 2112 c.c. dopo il D.Lgs. 276/03 (di Lorenzo Franceschinis)

 

 

 

 

Indice: 1) L’art.2112 c.c. nella sua versione preesistente dettata dal D.Lgs. n.18/2001; 2) La nuova Direttiva 2001/23/Ce; 3) La legge delega (L.30/2003); 4) L’art.32 del D.Lgs. n.276/03: esegesi dei principali punti critici; 5) Riflessioni conclusive.

 

 

 

 

 

1) L’art.2112 c.c. nella sua versione preesistente dettata dal D.Lgs. n.18/2001.

 

 

 

Con il D.Lgs. 2 febbraio 2001 n.18, che costituiva esercizio della delega attribuita al Governo con la L.526/99 (Legge comunitaria per l’anno 2000) ai fini dell’attuazione della direttiva 98/50/CE, il legislatore italiano era già intervenuto in misura significativa sull’impianto normativo contenuto nell’art.2112 del codice civile e nell’art.47 della legge 29/12/90 n.428[1].

 

In tal modo il legislatore italiano aveva portato a compimento l’opera di complessiva revisione della disciplina codicistica in questa materia, già iniziata con l’art.47 della L.428/90 che costituiva attuazione della direttiva 77/187/CE.

 

Per quanto qui interessa, e cioè per comprendere il significato della novella introdotta con l’art.32 del D.Lgs. 276/2003, è bene riassumere sinteticamente  le principali innovazioni che erano state introdotte nell’ordinamento dal precedente D.Lgs 18/2001 e che la novella del 2003 si prefigge, in buona misura, di superare.

 

I primi due commi dell’articolo 2112, che prevedono la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario con conservazione di tutti i diritti e l’obbligazione solidale del cedente e del cessionario per i crediti che il lavoratore aveva al momento della cessione, erano rimasti invariati, con la sola modifica, recepita nell’intero testo legislativo, dei termini in precedenza utilizzati di alienante e acquirente con quelli di cedente e cessionario. Tale modifica terminologica recepiva un orientamento consolidato in dottrina e giurisprudenza che ritiene configurabile la fattispecie di circolazione dell’azienda, ai fini che qui interessano, anche attraverso schemi negoziali diversi da quelli della cessione e dell’acquisto[2].

 

L’art.1 del D.Lgs.18/2001 dettava poi un nuovo comma 5° dell’art.2112 c.c., che si incaricava, per la prima volta, di definire il concetto di trasferimento d’azienda e di introdurre la nozione legislativa di ramo d’azienda.

 

Il testo di tale nuovo 5° comma dell’art.2112 era il seguente: “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

 

I punti salienti della norma, che non a caso coincidono anche con l’ambito di intervento modificatore del nuovo D.Lgs.276/03, sono sostanzialmente due.

 

Un primo aspetto, connesso a quanto si diceva in relazione ai nuovi temini di cedente e cessionario in luogo dei precedenti alienante e acquirente, risiede nel fatto che la norma eliminava l’esclusivo riferimento ad atti negoziali dai quali si origina il trasferimento di azienda o di ramo di azienda (“a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato”). Il D.Lgs. 18/2001 acquisiva quindi una nozione estensiva del campo di applicazione della normativa, già fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria[3], volta a ricomprendervi anche fenomeni traslativi che prescindano da un rapporto contrattuale diretto tra cedente e cessionario.

 

Il secondo e più rilevante aspetto era quello della definizione legislativa di azienda e di ramo di azienda, ai fini della applicabilità della normativa di tutela contenuta nell’art.2112 c.c. e nell’art.47 L.428/90.

 

La finalità del legislatore del 2001 era stata quella di porre dei limiti all’abuso dell’istituto del trasferimento dei rami di azienda, attraverso il quale molte aziende negli ultimi anni avevano fatto passare delle vere e proprie riduzioni di personale, liberarandosi di interi settori collaterali di servizi e di tutti gli addetti ai medesimi. [4]

 

La giurisprudenza che aveva ritenuto di assecondare tali operazioni[5] aveva escluso che fosse necessario che le attività oggetto della cessione avessero una propria autonoma organizzazione imprenditoriale presso la cedente, potendo essere successivamente organizzate come tali dal cessionario. A questo orientamento si era però opposta altra giurisprudenza che aveva escluso che potesse sussistere un legittimo trasferimento di ramo d’azienda in caso di cessione di meri servizi accessori e complementari[6].

 

Il D.Lgs. 18/2001, prendendo decisamente posizione nel senso del secondo orientamento, aveva stabilito che oggetto del trasferimento di azienda dovesse essere “un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” e che la disciplina si applica anche al trasferimento di parte dell’azienda, purchè si tratti di una “articolazione autonoma di un’attività economica organizzata”, anch’essa “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

 

Con tale disposizione il D.Lgs. 18/2001 aveva inteso chiudere i varchi alle operazioni di utilizzo abusivo dello strumento dell’art.2112 c.c., nelle quali oggetto dell’operazione non era il genuino trasferimento di una parte di azienda ma solo la cessione di un gruppo di lavoratori dietro lo schermo di un inesistente ramo d’azienda.

 

 

 

2) La nuova Direttiva 2001/23/CE.

 

 

 

A distanza di pochi mesi dalla emanazione del D.Lgs 18/2001, che doveva costituire completa e definitiva attuazione della norma comunitaria, è stata invece emanata la Direttiva 2001/23/CE del 12.3.2001 (in G.U. n.L082 del 22.3.2001), sempre concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, la quale ha abrogato le precedenti direttive 77/187 e 98/50 e ha dettato una complessiva disciplina dell’ìstituto, per quanto largamente coincidente con le disposizioni previgenti.

 

Non è questa la sede opportuna per un commento integrale della Direttiva citata, la quale è rilevante, ai fini del presente articolo, solo in quanto costituisce il riferimento esplicito della legge delega (L.30/2003) e quindi anche del D.Lgs 276/03 di esercizio delle delega.

 

Rileva quindi sostanzialmente il solo Capo I° (artt.1 e 2) della Direttiva, il quale contiene l’ambito di applicazione e le definizioni.

 

L’art.1, paragrafo 1.a), prevede anzitutto che la direttiva si applichi ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di essi ad un nuovo imprenditore “in seguito a cessione contrattuale o a fusione”.

 

La norma è peraltro identica a quella contenuta nell’art.1 della Direttiva 98/50, che non aveva impedito alla giurisprudenza comunitaria di compiere quell’evoluzione, di cui già si è parlato, verso una sostanziale irrilevanza dello strumento giuridico utilizzato per compiere l’operazione circolatoria dell’azienda o di parte di essa[7].

 

L’altro aspetto rilevante della Direttiva si trova nell’art.1, paragrafo 1.b), il quale definisce il concetto base di quale sia l’entità oggetto di trasferimento ai sensi della direttiva nei seguenti termini: “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”.

 

Ancora una volta, la definizione è identica a quella della abrogata Direttiva 98/50 ed è coincidente nella sostanza con quella contenuta nell’art.2112 c.c., come novellato dal D.Lgs. 18/2001 che la definisce come “un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

 

 

 

3) La legge di delega (Legge 14.2.2003 n.30).

 

 

 

L’art.1, paragrafo p), della legge delega fissa l’obiettivo della revisione del D.Lgs. 2.2.2001 n.18 con le seguenti tre finalità:

 

a)      il completo adeguamento dell’ordinamento nazionale alla disciplina comunitaria attraverso il recepimento della Direttiva n.23 del 2001;

 

b)      la previsione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo di azienda nel momento del suo trasferimento;

 

c)      la previsione di un regime particolare di solidarietà tra appaltante e appaltatore, nei limiti di cui all’art.1676 c.c., per le ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso ad una cessione di ramo di azienda.

 

 

 

E’ noto che il disegno di legge originario prevedeva la totale abrogazione del requisito dell’autonomia del ramo d’azienda cedendo. A seguito del Patto per l’Italia, la maggioranza parlamentare ha desistito da tale formulazione originaria (l’intento della norma pare invece simile se non coincidente), abolendo solamente la preesistenza al trasferimento dell’autonomia funzionale del ramo e prevedendo invece la sufficienza dell’esistenza dell’autonomia funzionale al momento del trasferimento.

 

Vi è chi ha notato[8] che la rinunzia alla totale abolizione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo sarebbe stata necessitata da problemi di costituzionalità della norma. Infatti, secondo tale Autore, intanto è possibile affiancare alla cessione di azienda quella della cessione di un ramo di essa, in quanto quest’ultimo costituisca un complesso organizzato di persone e di mezzi dotato di una propria identità funzionale, tale da essere potenzialmente un’azienda in sé, ai sensi dell’art.2555 c.c.. Se così non fosse sarebbero equiparate situazioni disomogenee: la mancanza dell’elemento dell’autonomia funzionale, infatti, priverebbe l’oggetto della cessione della sua idoneità a essere, almeno potenzialmente, un’azienda nella nozione codicistica e, dunque, la cessione stessa riguarderebbe i singoli beni o contratti, atomisticamente ancorché cumulativamente considerati. Se nella prima ipotesi la norma di riferimento sarebbe l’art.2558 c.c., nella seconda sarebbe invece l’art.1406 che condiziona l’efficacia al consenso del contraente ceduto. Quindi l’autonomia funzionale non sarebbe un vincolo esterno arbitrario posto dal legislatore, ma un necessario elemento qualificatorio della fattispecie, indispensabile per conferire ragionevolezza alla disciplina, anche alla luce dell’art.3 Cost..

 

Scopo della legge delegante, anche dopo le modifiche indotte dal Patto per l’Italia, è parso da subito quello di eliminare il requisito della “preesistenza” dell’autonomia funzionale del ramo di azienda, ritenuto limitativo della libertà dell’impresa di cedere, con lo strumento dell’art.2112 c.c., parti di azienda anche se non funzionalmente organizzate. La volontà sostanziale pare quindi sempre quella di permettere un uso disinvolto della norma di tutela dei lavoratori, al fine di realizzare fenomeni di riduzione di personale attraverso esternalizzazione di attività accessorie.

 

Peraltro, come giustamente è già stato notato[9], i primi due scopi della legge delega (quello di dare completa attuazione alla Direttiva 2001/23/CE e quello di abrogare il requisito della preesistenza dell’autonomia funzionale) appaiono in insanabile conflitto tra loro, in quanto la Direttiva, che ripete sul punto esattamente quanto prevedeva la precedente Direttiva 98/50/CE (recepita con il D.Lgs 18/2001), nel  prevedere che l’entità economica trasferita, intesa come insieme di mezzi organizzati, conservi la propria identità, presuppone in modo evidente la sua preesistenza al trasferimento, non potendosi “conservare” se non ciò che preesista.

 

 

 

4) Le modifiche introdotte dall’art.32 del D.Lgs. 276/2003: principali punti critici.

 

 

 

L’art.32 riscrive parzialmente il quinto comma dell’art.2112 c.c., il quale viene così riscritto (in grassetto le modifiche): “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

 

Viene poi introdotto un nuovo ultimo comma che prevede: “Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 1676”.

 

Le modificazioni sostanziali sono quindi riassumibili nelle seguenti:

 

a)     limitazione della fattispecie alla cessione contrattuale o alla fusione;

 

b)     eliminazione del riferimento alla produzione o allo scambio di beni e servizi;

 

c)     identificazione del ramo di azienda, inteso come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività organizzata, da parte del cedente e del cessionario al momento del trasferimento.

 

d)     previsione del regime di solidarietà di cui all’art.1676 c.c..

 

 

 

a) Sulla limitazione della fattispecie alla cessione contrattuale o alla fusione.

 

La disposizione traspone esattamente il contenuto dell’art.1 della Direttiva 2001/23, a sua volta identico all’art.1 della precedente Direttiva del 1998, la quale, come già detto, non aveva impedito alla giurisprudenza comunitaria di compiere un’evoluzione verso una sostanziale irrilevanza dello strumento giuridico utilizzato per compiere l’operazione circolatoria dell’azienda o di parte di essa.

 

Vi è peraltro da segnalare che il legislatore italiano, pur introducendo nel quinto comma dell’art.2112 c.c. l’inciso “in seguito a cessione contrattuale o fusione”, ha invece mantenuto inalterata la dizione successiva (introdotta dal D.Lgs.18/2001) circa la irrilevanza della tipologia negoziale adottata per realizzare la vicenda circolatoria.

 

Pare quindi di potersi concludere sul punto per la sostanziale irrilevanza della modifica.

 

b) La eliminazione del riferimento alla produzione o allo scambio di beni o servizi pare sostanzialmente irrilevante non limitando né ampliando l’area di applicabilità della norma. Non pare semplice individuare casi nei quali un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, possa dare luogo a qualcosa di diverso dalla produzione o dallo scambio di beni o servizi. In questi limiti peraltro la innovazione è opportuna in quanto apre la norma a casi che attualmente riesce difficile individuare,  ma che potrebbero in futuro prodursi.

 

c) Il problema della identificazione del ramo di azienda.

 

Il testo della norma (“articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata,… , identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”) consente due possibili interpretazioni.

 

La prima, conforme alla norma comunitaria e ai vincoli costituzionali nonché rispettosa delle indicazioni della legge di delega, sarebbe quella di ritenere che il potere del cedente e del cessionario sia limitato alla individuazione della parte di impresa oggetto di cessione. In questi termini la disposizione sarebbe certamente logica e legittima, ma anche del tutto ovvia e inutile.

 

Il testo della legge e la volontà della maggioranza governativa fanno propendere però per una diversa interpretazione.

 

La disposizione in oggetto infatti sembra attribuire alle parti imprenditoriali la libera disponibilità della fattispecie, e cioè il potere di identificazione del ramo di azienda, inteso come articolazione funzionalmente autonoma di un’entità economica organizzata.

 

In questi termini, non vi è alcun dubbio che la norma sia manifestamente viziata da illegittimità costituzionale, sia per eccesso di delega sia per il suo contenuto, nonché in assoluto contrasto con la norma comunitaria, della quale dovrebbe costituire attuazione.

 

La introduzione della volontà del cedente e del cessionario quale criterio di individuazione del ramo di azienda configura anzitutto un evidente eccesso di esercizio della delega, in quanto la norma delegante non lo prevedeva e si limitava a richiedere che il ramo di azienda, inteso come articolazione autonoma di un’entità economica organizzata, fosse sussistente nel momento del trasferimento.

 

La norma di delega prestava il fianco a seri dubbi circa la sua conformità alla direttiva europea, che presuppone invece la circolazione di un’entità economica che conserva la propria identità, e quindi che preesiste al trasferimento, ma certamente restava ancorata a un criterio oggettivo di individuazione della fattispecie.

 

L’attribuzione del potere di individuazione della fattispecie, e quindi in definitiva del potere di determinare o meno l’applicazione degli effetti dell’art.2112 c.c., alla libera disponibilità degli imprenditori cedente e cessionario (quindi neppure nella disponibilità di tutte le parti ma solo di quella datoriale), si pone invece su un piano del tutto diverso e manifestamente incostituzionale.

 

Stupisce che il governo, in contrasto con la stessa legge di delega, abbia introdotto una norma così evidentemente viziata senza rendersi conto del problema. Stupisce ancor più in quanto era stato invece avvertito dal legislatore delegante il medesimo problema connesso all’istituto della certificazione, che, proprio per evitare vizi di costituzionalità, era stato accompagnato da cautele tali da rendere sostanzialmente priva di effetti concreti la certificazione stessa, nei casi in cui ne venga contestata la erronea qualificazione iniziale oppure la difformità tra certificazione e concreto atteggiarsi successivo del rapporto di lavoro.

 

Non va dimenticato infatti che la Corte Costituzionale ha affermato, non solo che la definizione del lavoro subordinato è indisponibile anche per il legislatore[10], ma anche che “a maggior ragione” la legge “non può autorizzare le parti a escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato”[11].

 

Se è costituzionalmente illegittima una norma che attribuisca alla disponibilità delle parti l’esclusione dell’applicabilità della disciplina inderogabile prevista per i rapporti di lavoro subordinato, è certamente, per ragioni identiche ed ancor maggiori, incostituzionale una norma che attribuisca a una sola delle parti sostanziali (quella datoriale) la disponibilità dei diritti inderogabili dei lavoratori connessi al fenomeno, oggettivo, del trasferimento di una parte di impresa.

 

In proposito vi è un’altra osservazione da svolgere.

 

Se il ramo d'azienda viene definito come "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata", si afferma che l'autonomia funzionale è alcunché di oggettivo, che quindi, in applicazione dei princìpi generali, dovrebbe essere oggetto di accertamento del giudice, onde verificare nei casi concreti la sussistenza del modello normativo.

 

Affermare quando sopra ed aggiungere poi, nel medesimo periodo, che l'identificazione  del ramo d'azienda "come tale" è rimessa alla volontà del cedente e del cessionario "al momento del suo trasferimento", significa negare quanto appena affermato, giacché non può sussistere una nozione "oggettiva" che è rimessa alla volontà delle parti.

 

In questa ottica, si potrebbe rilevare  l'incostituzionalità della disposizione anche per violazione dell'art.3 Cost., ricordando che i Giudici della Consulta[12] ritengono che il "canone di coerenza" tra le norme dell'ordinamento - canone che all'evidenza non consente di affermare e negare (in uno stesso periodo) il carattere oggettivo di un requisito del modello normativo - si desume dal principio di uguaglianza di trattamento tra eguali posizioni, sancito dal richiamato art. 3.

 

Escluso quindi che possa essere rimessa alle parti la qualificazione della fattispecie, resta da ribadire che lo stesso obiettivo della legge delega di eliminare il requisito della preesistenza del ramo di azienda era difficilmente conseguibile.

 

Il legislatore, dimostrando una certa ignoranza complessiva della materia, ha pensato di potere ottenere il suo scopo, attraverso la sola modifica del D.Lgs. 18/2001, senza avvedersi che, se è vero che tale disposizione aveva introdotto il requisito della preesistenza, essa costituiva solamente il condensato legislativo di una nozione già presente nell’ordinamento.

 

Il requisito della preesistenza è infatti insito nello stesso concetto di autonomia funzionale del ramo di azienda, non potendosi neppure ipotizzare che una parte di azienda, che già non fosse dotata di propria autonomia funzionale, possa acquisirla per il solo fatto e nello stesso momento del trasferimento.

 

Il requisito della preesistenza inoltre, come già accennato, proviene dalla stessa fonte comunitaria della quale la norma interna costituisce attuazione. Infatti tanto la Direttiva 98/50 quanto la successiva 2001/23, nel  prevedere che l’entità economica trasferita, intesa come insieme di mezzi organizzati, conservi la propria identità, presuppongono in modo evidente la sua preesistenza al trasferimento, non potendosi “conservare” se non ciò che preesista.

 

Tale requisito è infine, da sempre e da ben prima del D.Lgs.18/2001, ritenuto necessario dalla giurisprudenza nazionale di legittimità al fine di potere configurare un legittimo trasferimento di ramo di azienda.

 

In una delle sue ultime sentenze in materia[13], la Cassazione afferma infatti che l’unico rimedio per evitare abusi del sistema di garanzie apprestate dall’art.2112 c.c. consiste nell’attenersi ad “una nozione più restrittiva di ramo di azienda che, per essere tale, deve avere una sua autonomia funzionale, nel senso che deve presentarsi come una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo”.

 

Tale nozione restrittiva è stata sempre fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, ancorandosi sul concetto di azienda sancito dall’art.2555 c.c., che attribuisce rilievo decisivo all’organizzazione atta a conferire ai beni aziendali (cher possono anche essere immateriali, non è questo che conta) il carattere di strumentalità per il perseguimento dei fini aziendali.

 

Tale giurisprudenza, formatasi ancor prima della entrata in vigore dell’art.47 della L.428/90, ha quindi sempre ritenuto configurabile un ramo d’azienda solo nel caso che i beni, materiali e immateriali, in esso contenuti fossero organizzati e unificati dallo scopo di impresa già presso il cedente.[14]

 

 

 

d) Il regime di solidarietà di cui all’art.1676 c.c..

 

Dell’ultimo comma aggiunto all’art.2112 c.c. è arduo comprendere la ratio.

 

In esso si afferma che qualora il cedente stipuli con il cessionario un contratto di appalto, la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo di azienda ceduto (cioè l’ipotesi in cui i lavoratori continuano a svolgere la stessa attività a favore del precedente datore, negli stessi luoghi e nelle stesse modalità, ma alle dipendenze di un nuovo datore), opera un regime di solidarietà tra appaltante e appaltatore, nei limiti di cui all’art.1676 c.c.. Limiti (in particolare: l’esistenza del residuo debito dell’appaltante nei confronti dell’appaltatore, l’essere assegnati allo specifico appalto che ha dato origine a detto residuo debito, l’onere di proporre tempestivamente la domanda giudiziale ecc.) che, come è noto, sono tali da rendere di fatto quasi impossibile l’effettiva attivazione della solidarietà.

 

Ma se la solidarietà è questa, e cioè la stessa dei dipendenti di qualsiasi appaltatore, la norma è del tutto inutile e si rivela solo una poco onorevole presa in giro.

 

La disposizione peraltro, non solo è inutile, ma è anche in contraddizione con l’art.29, comma 2°, dello stesso D.Lgs 267, che prevede che: “In caso di appalto di servizi il committente imprenditore è obbligato in solido con l’appaltatore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali”.

 

E’ evidente che le due disposizioni non sono state coordinate tra loro, apparendo per lo meno bizzarro che i dipendenti operanti su un appalto di servizi, frutto di una cessione di ramo di azienda, debbano essere destinatari di un trattamento deteriore rispetto agli altri.

 

Vi è qui un duplice e palese vizio di costituzionalità: il primo riguarda l’art.29 in quanto irragionevolmente limita la solidarietà al caso degli appalti di servizi e non anche a quelli di opere. Il secondo riguarda l’art.32 che discrimina irragionevolmente i dipendenti “figli” di un precedente trasferimento di ramo di azienda.

 

 

 

5) Riflessioni conclusive: sulla volontà delle parti e sul trionfo dell’ideologia liberista.

 

Non si può non restare colpiti da un paradosso degno di nota, che serve per capire lo spirito complessivo di tutto il D.Lgs 276/03, quella che potrebbe definirsi come la sua matrice culturale.

 

Negli ultimi anni si è a lungo dibattuto circa la rilevanza del consenso del lavoratore ceduto ai fini del passaggio del rapporto alle dipendenze dell’impresa cessionaria. Parte della dottrina e della giurisprudenza[15] hanno sostenuto la tesi della rilevanza, sulla base del riferimento alla giurisprudenza comunitaria[16].

 

Dopo lungo dibattito dottrinale, ha prevalso la tesi contraria, in base al rilievo degli effetti traslativi automatici previsti dall’art.2112 c.c., che operano oggettivamente in connessione con il trasferimento dell’azienda o di un ramo della stessa[17].

 

Ora il legislatore introduce una norma simmetricamente opposta, per la quale gli effetti del trasferimento di ramo di azienda, non solo sarebbero indipendenti dalla volontà dei lavoratori, che pure li subiscono quale “merce umana”, ma dovrebbero (almeno nelle intenzioni del legislatore a prescindere dalla conseguibilità di tale irrealistico obiettivo), addirittura essere sottoposti alla libera disponibilità degli imprenditori cedente e cessionario. Neppure quindi alla disponibilità delle parti sociali (sarebbe stato possibile ad esempio, per quanto problematico in assenza di regole di rappresentanza certe, attribuire all’accordo sindacale una funzione ricognitiva della genuinità dell’operazione di trasferimento), ma direttamente alla sola parte datoriale.

 

La volontà di un lavoratore, per il quale un trasferimento di azienda, può significare ad esempio un traumatico spostamento geografico, oppure la perdita della tutela reale del posto, oppure l’applicazione di una contrattazione collettiva peggiorativa; oppure all’opposto può significare l’unica speranza di restare dipendente della parte sana dell’azienda che viene trasferita, ebbene la volontà di questo lavoratore, che subisce tali effetti nella sua viva carne, non ha alcuna rilevanza. E a questo eravamo ormai abituati, benché fosse ingiusto.

 

Ciò che non è tollerabile, che urta il buon senso, è che tali effetti, indipendenti dalla volontà del lavoratore, debbano invece dipendere dalla mera volontà dell’imprenditore.

 

Siamo alla apoteosi dell’ideologia liberista (ma a senso unico, e quindi meglio definibile come aziendalista o padronale), che non può essere ritenuta conforme a costituzione.

 

 

 

Lorenzo Franceschinis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Per un approfondimento delle modifiche introdotte dal  D.Lgs.18/2001 e più in generale per una sintesi del dibattito dottrinale e giusirisprudenziale sul tema, vedasi  Lorenzo Franceschinis “Le recenti modifiche legislative in materia di trasferimento di azienda, in questa Rivista, 2001, 341.

[2] V.Cass.3 giugno 1998, n.5466, in Mass.Giur.Lav., 1998, 635.

[3] La Corte di Giustizia (Cfr.: Corte di Giustizia, 10.2.88 causa Daddy’s Dance Hall, in Racc., 1988, p.753; Corte di Giustizia 7.3.96, causa Merckx e altro, in Mass.Giur.lav., 1996, 362) ha ritenuto infatti applicabile la Direttiva anche in quei casi (locazione, concessione di vendita, franchising, appalto) in cui i meccanismi di avvicendamento nell’esercizio d’impresa prescindono in gran parte da un accordo diretto tra i soggetti che si succedono, in quanto la decisione del trasferimento viene presa da un soggetto terzo. La Corte ha interpretato queste modalità circolatorie dell’impresa come trasferimento in due fasi (dall’affittuario iniziale al proprietario e da questo al nuovo affittuario), il cui risultato è comunque di far passare, nell’ambito di rapporti contrattuali, la qualità di datore di lavoro dal primo al secondo affittuario e di rendere così necessaria una tutela dei lavoratori interessati al pari di un trasferimento diretto. Si deve ricordare che, nella sentenza Merckx, la Corte è giunta a ritenere applicabile la direttiva di tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda anche in una situazione “in cui un’impresa titolare di una concessione di vendita di autoveicoli per un territorio determinato pone fine alla sua attività e la concessione viene allora trasferita ad un’altra impresa che rileva una parte del personale e beneficia di una promozione presso la clientela, senza che siano trasferiti elementi patrimoniali”.Anche la giurisprudenza italiana risulta conforme a quella comunitaria nella svalutazione del vincolo contrattuale quale elemento costitutivo del trasferimento, in favore del criterio del mantenimento dell’identità dell’organizzazione aziendale ceduta (cfr.: Cass.2.10.98, n.9806, in Mass.giur.it., 1998, c.1016; Cass.3.6.98 n.5466, in Mass.giur.lav., 1998, 635; Cass.6.3.98 n.2521, ibidem, 1998, 432; Cass.27.2.98, n.2200, ibidem, 1998, 640).

 

[4] In tal senso S.Ciucciovino, La nozione di “azienda trasferita” alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza interna e della disciplina comunitaria, in Arg.dir,lav., 1998, p.912.

[5] V. Trib.Milano 29.9.99, in Lav.nella giur., 2000, II, 172.

[6] Trib.Genova 10.9.99, in questa Rivista, 2000, 196 cit.; Corte Cass., sez.lav., 25/10/2002, n.15105, in questa Rivista, 2002, 905, successiva al D.Lgs. 18/2001, ma riguardante fattispecie anteriore.

[7] Vedi nota 3 che precede.

[8] Garofalo, La legge delega sul mercato del lavoro: prime osservazioni, in Riv.Giur.Lav., 2003, I, 359.

 

[9] Guariso, Trasferimento di ramo d’azienda: ultimi bagliori in attesa del Patto per l’Italia, nota a Trib.Milano 6.3.2002, in questa Rivista, 2002, 646.

 

[10] Corte Cost. 29.3.1993, n.121, in Foro It., 1993, I, 2434: “Non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento”.

 

[11] Corte Cost.31.3.94, n.115, in Foro It., 1994, I, 2657.

 

[12] Corte Cost.30/11/82 n.204, in Foro It., 1982, I, 2981, nota di Silvestri; in Giust. Civ., 1983, I, 15, nota di Pera; in Lavoro 80, 1982, 859.

 

[13] La già citata Cass.25.10.2002, n.15105.

[14] Vedasi ad esempio: Cass. 5/8/88 n.4845, in Rep. G.C., 1988, voce Lavoro, 1474; Cass.10/3/92, n.2887; Cass.17/3/93, n.3148, in RIDL, 1994, II, 413, nella quale si leggono espressioni identiche rispetto a quelle di Cass.25.10.2002 n.15105, come: “Il trasferimento di azienda è certamente ravvisabile anche nelle ipotesi di cessione di singole unità produttive, purchè peraltro queste siano suscettibili di costituire idoneo e compiuto strumento di impresa (cfr.Cass. 8 gennaio 1991, n.67; 5 agosto 1988 n.4845; 5 luglio 1986 n.4413), corrispondenti a un’entità organizzata e cioè a un complesso di beni e rapporti unificati dalla volontà del titolare in vista dello scopo produttivo organizzato; non quando si tratti di alienazioni parziali di singoli o più elementi di quel tutto organico, privi di siffatta unificazione funzionale (cfr.Cass.10 marzo 1992 n.2887). Nel caso concreto non era dunque sufficiente rilevare l’utilizzazione da parte della società cessionaria di preesistenti mezzi e strutture, ma occorreva verificare l’esistenza di un complesso organizzato di beni, interessato dal fenomeno traslativo nella sua identità funzionale ed economica in quanto autonomo strumento di impresa”.

 

[15] Sul tema: Francioso-De Andreis, Nelle cessioni parziali d’azienda è sempre rilevante il consenso dei singoli lavoratori addetti ai rami oggetto di cessione, in questa Rivista, 2000, 557;  P.O’Higgins, Il lavoro non è una merce. Un contributo irlandese al diritto del lavoro, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1996, pp.304 ss ; Scarpelli, «Esternalizzazione» e diritto del lavoro : il lavoratore non è una merce, ibidem, 1999, 491 ss; in senso più problematico ma adesivo, Pera, Movimenti del capitale e libertà dei lavoratori, in RIDL, 2000, I, 461; Cascioli, Il trasferimento d’ azienda e la rilevanza del consenso del lavoratore alla cessione del contratto, in questa Rivista, 2000, 563. Aimo, Le garanzie individuali dei lavoratori (Dossier: Il trasferimento d’azienda fra diritto comunitario e diritto interno), in Riv.Giur.Lav., 1999, II, 839. In giurisprudenza, in senso conforme, si segnala Pret.Milano 14.5.99, in questa Rivista, 1999, 561, ampia nota adesiva di Chiusolo. Contra Pret.Ivrea 23.1.99, in questa Rivista, 1999, 154, nonché, da ultimo e in via definitiva, la già citata Cass.25.10.2002, n.15105. 

[16] Corte di Giustizia 16.12.92, cause riunite 132/91, 138/91, 139/91, Katsikas v.Kostantinidis e Skreb e Schroll v.PCO Paetz & Co. Gmbh, in Racc., 1992, p.6577 ss.; nello stesso senso Corte di Giustizia 7.3.96, Merckx e Neuhuys v. Ford Motors Co. Belgium Sa, in Racc., 1996, pp.1253 ss e Corte di Giustizia 12.11.98, Europieces SA v. Sanders. Tale giurisprudenza comunitaria ha affermato che il diritto di opposizione del lavoratore alla cessione del suo contratto trova fondamento direttamente nella disposizione di cui all’art.3.1 della Direttiva, che “non osta a che un lavoratore decida di opporsi al trasferimento del suo contratto o rapporto e di non fruire quindi della tutela accordatagli dalla Direttiva”.

In particolare, secondo il ragionamento della Corte, il lavoratore deve essere libero di scegliere il suo datore di lavoro e non può essere obbligato, in nome del rispetto dei suoi diritti fondamentali, a lavorare per un datore che non ha liberamente scelto.La sorte del rapporto di lavoro, rimasto in essere con il cedente, è rimessa, secondo i giudici comunitari, ai singoli ordinamenti degli stati membri.

[17] La tesi è ben rappresentata da ultimo da Corte Cass., sez.lav., 25/10/2002, n.15105, cit., che, oltre a confermare la tesi dell’automaticità degli effetti previsti dall’art.2112 c.c., ha anche rilevatoche la giurisprudenza comunitaria, che si è espressa nel senso della rilevanza del consenso, ha lasciato gli stati membri liberi di decidere la sorte del rapporto di lavoro e che il legislatore italiano (anche in virtù della disposizione introdotta dal D.Lgs. 18/2001 circa le dimissioni per giusta causa del lavoratore a seguito di cessione) ha ritenuto di confermare l’automaticità del passaggio del rapporto tra cedente e cessionario.