La sanatoria per i lavoratori extracomunitari: da una buona intenzione a una brutta legge (di Alberto Guariso)

 

 

 

 

Ed infine furono 696.759; in un sol colpo, quasi quanto i 754.000 lavoratori regolarizzati, nell'arco di  16 anni, con tutti i quattro precedenti provvedimenti di sanatoria emanati nella storia del nostro paese  [1].


Quanto basta a determinare un incremento di oltre il  50% degli extracomunitari regolarmente soggiornanti sino al dicembre 2001 (che erano solo 1.362.630); e il tutto   con buona pace di chi agitava lo spettro della invasione allorché il precedente Governo determinava in 87.000 la quota annua di ingressi per il 2001 in attuazione della Turco-Napolitano. Segno evidente che il problema c'era allora e c'è ancor oggi e che anche i fautori del filo spinato alle frontiere hanno dovuto prenderne atto.

Dunque quasi settecentomila lavoratori sono ora in attesa di una firma che dovrebbe cambiare il corso della loro vita.

Sennonché il percorso da qui alla stipulazione del fatidico contratto di soggiorno è  irto di tanti ostacoli quanti sono i problemi lasciati irrisolti da un provvedimento  a dir poco pasticciato; parte di questi problemi andranno inevitabilmente risolti sul piano della normativa   pubblicistica riguardante il permesso di soggiorno, ma lo strettissimo legame imposto dal legislatore tra quest'ultima e la disciplina del rapporto di lavoro finirà per coinvolgere sempre più da vicino il diritto del lavoro: non a caso, già ora,  le prime pronunce giudiziarie in materia di sanatoria vengono proprio dai Giudici del Lavoro.

Si vorrebbero pertanto qui evidenziare, senza nessuna pretesa di completezza e di esauriente risposta, i principali interrogativi posti al diritto del lavoro dalla particolarissima condizione giuridica del lavoratore extracomunitario in via di regolarizzazione.

Un interrogativo preliminare attiene al piano della politica legislativa.

Come è noto, con la L. 9/12/02 n. 222 di conversione del DL 9/9/02 n.195 il legislatore ha scelto di legare la concessione di un permesso di soggiorno  in sanatoria ad un pur  breve rapporto di lavoro pregresso e ciò al fine tanto evidente quanto puramente simbolico di scansare l'inevitabile qualificazione, appunto,  di sanatoria, per rifugiarsi in quella (più consolante per la politica governativa)  di emersione.

Era peraltro di immediata evidenza che l'escamotage avrebbe avuto corto respiro: da un lato infatti l'inevitabile brevità del periodo indicato (3 mesi),   garantiva un livello di inserimento dello straniero nel tessuto sociale non molto lontano da quello che qualunque soggetto raggiunge per il solo fatto di essere entrato nel territorio nazionale;  dall'altro il mix tra l'effetto di attrazione che  qualsiasi provvedimento di sanatoria/regolarizzazione esercita (non a caso gli ingressi clandestini sono aumentati non appena si è avuto notizia del probabile provvedimento) e la impossibilità di controlli ex post sullo svolgimento del rapporto nei fatidici tre mesi,  ha determinato infine un afflusso di domande  generalizzato, giocato in realtà (come tutte le sanatorie sin qui emanate) sul requisito dell'impegno al lavoro futuro assai  più che sull'evanescente ed incontrollabile requisito della esistenza di un precedente rapporto di lavoro.

Sennonché, proprio il meccanismo prescelto ha fatto sì che, a fronte di vantaggi assolutamente inesistenti in termini di valorizzazione della emersione del lavoro pregresso, il legislatore abbia dovuto pagare il prezzo altissimo di porre integralmente nelle mani del datore di lavoro il potere relativo alla pratica di regolarizzazione, con gli inevitabili arbitrii che ne sono conseguiti e ai quali, come si dirà, il Governo ha dovuto tentare di porre maldestramente rimedio.

Pochi dunque i vantaggi del sistema prescelto, molti i rischi e i danni effettivi. Ne valeva la pena? Probabilmente no. Se mai si potrà tenere un dibattito scevro da pregiudizi,  sarà probabilmente agevole a tutti gli osservatori convenire che la strada più lineare ed onesta (nonché la meno soggetta ai pur inevitabili fenomeni di aggiramento)  è quella fondata sul requisito del mero  ingresso ad una certa data - sul territorio nazionale, fermo l'obbligo del datore di lavoro di sanare anche eventuali periodi pregressi di lavoro irregolare e  fermo il diritto dell'Amministrazione  di verificare (già all'atto della domanda o meglio  ancora, dopo un primo rilascio di un breve permesso di soggiorno) la disponibilità di lavoro e alloggio: la pretesa di tenere insieme il lavoro pregresso e quello futuro (peraltro inusuale nel panorama europeo [2])

specie se affiancata al totale esproprio della posizione del lavoratore è invece  foriera di macroscopici inconvenienti, ai limiti di quella ragionevolezza che costituisce pur sempre un criterio  costituzionalmente rilevante.

Comunque, a prescindere da ogni considerazione sulla preferibilità di meccanismi di sanatoria differenti,   ciò che rileva è che la consegna nelle mani del datore di lavoro della piena titolarità del procedimento, ha reso necessario individuare,  sul piano giuridico,  la posizione dell'extracomunitario che abbia effettivamente lavorato nei tre mesi in questione (o come si dirà, nell'ambito dei tre mesi) per qualificarla come mera aspettativa, ovvero come vero e proprio diritto soggettivo, cui corrisponda l'obbligo del datore di lavoro di attivare la relativa procedura.

Sul punto sono intervenute, come noto, alcune pronunce giudiziarie [3] .

Al di la dei complessi problemi processuali che dette pronunce sono state costrette ad affrontare causa l'incombere dei termini di legge (dovendosi necessariamente  avventurare sul complesso terreno dell'accertamento cautelare del rapporto di lavoro e su quello ancor più insidioso della condanna ad un obbligo di fare)  i principi generali  ivi affermati  appaiono difficilmente contestabili. Posto che l'assunzione di personale privo di permesso di soggiorno  costituisce comportamento penalmente rilevante (cfr. art. 22, comma 12) è del tutto impensabile che l'ordinamento, una volta predisposto lo strumento per cessare il comportamento delittuoso nella salvaguardia dei diritti del lavoratore, resti indifferente alla scelta del datore di lavoro  e la collochi sul terreno della mera facoltà e non su quello dell'obbligo. Altrettanto incontestabile, dunque, che il dipendente abbia diritto di ottenere, in via giudiziale, l'adempimento di tale obbligo.

Semmai merita rilievo il già rilevato intreccio, nella vicenda, tra la disciplina pubblicistica del soggiorno e la disciplina del rapporto di lavoro, evidenziatosi in particolare nei numerosissimi casi nei quali il datore di lavoro, anziché avviare la procedura di regolarizzazione, preferiva mettere alla porta il dipendente.

E infatti  l'assunzione  dell'extracomunitario  non regolarmente soggiornante, proprio perché illecita, non può che dar luogo ad un rapporto di lavoro di mero fatto sicuramente oggetto della tutela di cui all'art. 2126 c.c.: la quale tuttavia (al pari, ad esempio, di quanto avviene per i rapporti di fatto costituiti in violazione del vincolo concorsuale  alle dipendenze della Pubblica Amministrazione) non sembra potersi spingere sino alla tutela della stabilità,   non potendo il  giudice nè ordinare di dar seguito ad un rapporto di lavoro contra legem (quand'anche illegittimanente interrotto sotto il profilo della disciplina lavoristica)   né in caso di piccola azienda - di risarcire il danno determinato da una interruzione del rapporto che, per assurdo, ripristina la situazione di legalità.

Quando tuttavia l'ordinamento interviene a  legittimare la presenza dell'extracomunitario sul territorio nazionale e a riconoscere il suo diritto di accesso al lavoro (se pure ex post: e qui l'ulteriore peculiarità giuridica della vicenda) cade ogni impedimento alla piena applicabilità delle norme lavoristiche,  sicchè il rapporto diventa nuovamente lecito, se pure condizionatamente alla attivazione (come si è visto, obbligatoria) delle procedure per legittimare il soggiorno dell'interessato sul territorio nazionale: e a questo punto le due discipline si saldano perfettamente e non vi è ostacolo a che il giudice possa ordinare ad un tempo (e sussistendone gli ulteriori requisiti) sia la reintegrazione o riammissione   nel posto di lavoro, sia l'adempimento degli obblighi rilevanti sul piano pubblicistico.

In concreto la questione è poi risultata stemperata dall'intervento del Ministero dell'Interno che, preso atto degli inammissibili arbitrii ai quali il sistema prescelto esponeva i lavoratori, ha emanato la circolare 31.10.02, con la quale in evidente deroga al meccanismo previsto dalla legge e peraltro con disposizione sintetica e sibillina - ha ammesso i lavoratori  che avessero promosso un contenzioso con il datore di lavoro entro il 11/11/02 ad un permesso di soggiorno per ricerca di occupazione analogo a quello previsto dall'art.22, comma 11 D.Lgs. 286 (ma l'analogia è evidentemente forzata posto che là si tratta di beneficio attribuito all'extracomunitario già regolarmente soggiornante): disposizione che lascia sicuramente nell'ombra il quesito di fondo e cioè se l'esito del contenzioso avviatosi prima del 11/11/02 mantenga un rilievo ai fini del rilascio di un permesso ordinario mediante stipula del contratto di soggiorno (ipotesi certo coerente con la legge, ma sulla cui irrazionalità non è neppure il caso di soffermarsi) o se il lavoratore, una volta entrato nel circuito ordinario dei permessi, possa provvedere ai successivi rinnovi secondo le regole ordinarie, senza che nessun più si curi di cosa sia davvero accaduto nei tre (o più) mesi oggetto di contenzioso (unica soluzione ragionevole, per quanto in evidente contrasto con la legge).

Benchè dunque ridimensionato nella portata pratica resta comunque, sul punto, un'ulteriore nodo problematico. Nella L. 222 il procedimento di regolarizzazione è articolato, per quanto riguarda i rapporti datore di lavoro/dipendente,  in un duplice atto: da un lato riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro pregresso, dall'altro impegno a stipulare il contratto di soggiorno secondo le norme generali previste  per tale procedura dall'art.5bis del D.Lgs 286/98, come modificato dall'art. 6 della L. 189/02 [4] .

La considerazione separata dell'uno o dell'altro atto sembrerebbe, in prima battuta, non porre problemi insormontabili.

Quanto all'atto ricognitivo, la questione di maggior rilievo è certamente se il rapporto di lavoro debba essere continuato in maniera ininterrotta per i tre mesi in questione: nonostante il diverso avviso del Ministero (che evince l'obbligo di continuità dall'importo contributivo forfetario  posto a carico del datore di lavoro [5])

il tenore della disposizione appare di segno esattamente opposto, laddove individua come destinatari della norma tutti i datori di lavoro che hanno occupato dipendenti nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto,  senza alcun richiamo alla continuità; e a ciò si aggiunga l'evidente assurdità di una pretesa di continuità riferita ad un lavoro irregolare (al quale spesso il datore di lavoro impone la discontinuità più confacente agli interessi aziendali) e ad un periodo comprendente il mese agosto, nel quale    molte  attività sono notoriamente sospese.

Quanto al secondo si tratta di un vero e proprio contratto preliminare, o comunque della assunzione di un obbligo a contrarre, posto che la dichiarazione, benchè rivolta  alla Prefettura, è comunque sottoscritta anche dal dipendente che ne è la parte sostanziale e che comunque, con la sottoscrizione stessa, dichiara di volerne profittare. Detto contratto preliminare contiene tutti gli elementi essenziali del rapporto, quali inquadramento, retribuzione, mansioni e sede di lavoro ed è  pertanto sicuramente suscettibile di esecuzione giudiziale ex art. 2932 c.c. (senza con ciò sottovalutare l'ulteriore difficoltà che potrebbe derivare dalla costituzione giudiziale di un rapporto di lavoro senza contestuale rilascio del permesso di soggiorno) ed è  comunque idoneo a fondare, in caso di inadempimento,  una domanda di risarcimento.

I problemi insormontabili nascono allorchè si tratta di saldare i due momenti. Che ne è infatti dei rispettivi diritti ed obblighi nel periodo intermedio che sarà presumibilmente lungo (si ipotizzano anni prima che le parti possano essere convocate per stipulare il contratto di soggiorno)?

E' certo ipotizzabile il caso miracoloso di un rapporto risolto senza contestazioni subito dopo il 10 settembre 2002 e che rinasca senza contestazioni e con il medesimo datore di lavoro alla data di stipula del contratto di soggiorno: ma trattasi, appunto, di ipotesi di scuola.

Allorchè invece il rapporto di lavoro prosegue nel periodo intermedio,  la prestazione viene allora resa da cittadino che, pur non avendo ancora acquisito la qualifica di regolarmente soggiornante sul territorio nazionale non disponendo di un titolo legittimante la sua presenza tra quelli tipici previsti dalla legge, è tuttavia abilitato a lavorare e non è soggetto a provvedimenti di espulsione (cfr. il 1^ comma art. 2 L. 222 che vieta qualsiasi provvedimento di allontanamento nei confronti dei lavoratori, nelle more della procedura di sanatoria): tra le parti viene dunque in essere (rectius prosegue) un rapporto pienamente regolare e lecito,   se pure sottoposto alla condizione risolutiva del mancato rilascio del permesso di soggiorno (secondo un sistema peraltro noto all'ordinamento che già nelle precedenti sanatorie aveva previsto la stipula di contratti condizionati);  dunque il lavoratore che si vedesse illegittimamente estromesso dal posto di lavoro nelle more della procedura di regolarizzazione potrà agire per il ripristino del rapporto laddove sussistano i requisiti della stabilità reale, ovvero potrà agire congiuntamente sia per l'indennizzo  ex art. 8 L. 604/66, sia per il distinto adempimento dell'obbligo a contrarre di cui si è appena detto.

Vi è comunque da sperare che l'ipotesi ordinaria sia quella di un rapporto di lavoro che prosegue regolarmente sino alla stipula del contratto di soggiorno. In tal caso vi è allora da chiedersi quale significato giuridico possa assumere, sotto il profilo privatistico, la stipula di un contratto relativo ad un rapporto che è già in essere: di fatto nessuno, se non quello di caducare definitivamente l'ipotesi di una  condizione risolutiva del contratto.

Sembra infatti pacificamente da escludere l'ipotesi di una sorta di novazione imposta per legge: lo stesso Ministero del Lavoro, nella circolare  20/9/02 prevede espressamente che il rapporto di lavoro formalizzato in sede di contratto di soggiorno decorre dalla data di entrata in vigore della legge, cioè dal 10/9/02 [6],

precisando altresì che da tale data decorrono tutti gli obblighi contrattuali e di legge previsti, tra cui quelli relativi agli obblighi assicurativi e previdenziali, così come tutti gli altri obblighi legati allo svolgimento del rapporto di lavoro (restando comunque oscuro che ne debba essere, secondo il Ministero, dei tre mesi di lavoro prestato, magari senza soluzione di continuità, antecedentemente al 10/9/02). Ancor più rilevante è peraltro che il legislatore della L. 222 non faccia  alcun cenno ad ipotesi di novazione, con ciò discostandosi radicalmente (e la circostanza non può essere di poco conto) dal meccanismo previsto dall'art.1 L. 18/10/01 n.383 in materia di emersione del lavoro sommerso [7].


Ne segue che risulteranno inapplicabili  - e, ove apposte, saranno sicuramente nulle -  tutte quelle clausole che possono essere apposte solo all'atto di stipula del contratto di assunzione quali la prova e il termine (e così diventa ancora più surreale il dibattitto che tanto ha affaticato la maggioranza parlamentare circa l'apertura della sanatoria ai casi di contratti a termine);    così come risulterà agevolmente impugnabile  l'eventuale stipula del contratto di soggiorno sub specie di  contratto di formazione o di apprendistato.

Va peraltro rilevato, questa volta sotto il profilo pubblicistico, che ad oggi è ancora  irrisolta la questione dello status dei lavoratori illegittimamente licenziati (o addirittura, il caso non è raro, neppure ammessi al lavoro) dopo la presentazione della domanda di regolarizzazione: mentre infatti, per assurdo, i lavoratori licenziati prima dell'11/11/02 hanno già acquisito il diritto secondo la citata circolare 31/10/02 - ad un permesso di soggiorno per ricerca di occupazione (e dunque, una volta trovato il nuovo datore di lavoro ai successivi rinnovi) tale diritto è ad oggi  ancora in dubbio per i lavoratori estromessi dopo la presentazione della domanda  che si trovano sul mercato con in mano la sola ricevuta di presentazione della domanda, di per sé inidonea a consentire la normale mobilità nel mercato del lavoro.

Allo stato l'orientamento del Ministero peraltro non ancora formalizzato - sembra quello di riconoscere sia la possibilità di un nuovo datore di lavoro di stipulare il contratto di soggiorno in luogo di quello che aveva dato avvio alla procedura, sia la possibilità di rilasciare il permesso di soggiorno semestrale per ricerca di occupazione a tutti coloro che si troveranno a cessare il rapporto di lavoro nelle more della procedura.

Soluzione questa sicuramente ragionevole che potrebbe superare, almeno sul piano pratico,  le incongruità della legge ed evitare l'ulteriore incrementarsi di quella schiera (purtroppo di antica costituzione: si pensi al caso clamoroso e ormai risalente dei richiedenti asilo nelle more della procedura) di lavoratori non-irregolarmente-soggiornanti, ma cionondimeno impediti di accedere ad un rapporto di lavoro.

Resta da considerare un ulteriore e ancor più confuso momento di intreccio tra normativa lavoristica e normativa pubblicistica introdotto dalla L. 222 e riferibile questa volta a tutti i lavoratori extracomunitari, siano essi sanati o regolarmente entrati in Italia. L'art.2, comma 9, L.222/02  prevede infatti la facoltà del datore di lavoro di trattenere mensilmente dalla retribuzione del dipendente, nei limiti di un terzo,  le spese che lo stesso datore di lavoro abbia sostenuto per fornire un alloggio rispondente ai requisiti di legge.

La norma è, come molte altre contenute nella Bossi-Fini, o assolutamente irrilevante o assolutamente discutibile.

Se il credito del datore di lavoro, come presumibilmente avverrà nella maggior parte dei casi, non è liquido ed anzi è soltanto ipotetico (perché ad esempio il dipendente abita presso un parente del  datore di lavoro e questi intenda far valere il credito connesso all'impossibilità di locare una stanza) non vi è dubbio che la norma non sia in alcun modo applicabile, posto che la locuzione ..abbia sostenuto le spese.. si riferisce indubitabilmente all'effettivo esborso e non a mancati guadagni o a costi di tipo diverso, per i quali il datore di lavoro non potrà che avvalersi degli strumenti ordinari messi a sua disposizione dall'ordinamento.

Se invece il datore di lavoro ha un credito liquido (perché ha stipulato un contratto di locazione con l'extracomunitario o perché anticipa per suo conto, a terzi,  somme a titolo di locazione) non vi è dubbio che detto  credito possa essere portato in compensazione, ma - trattandosi qui di compensazione propria, stante la diversità dei due titoli che fondano le rispettive obbligazioni essa avrebbe dovuto operare nei limiti di un quinto dello stipendio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1246 n.3 c.c. e 545, commi 3 e 4 c.p.c. [8].

In tale prospettiva, la norma introduce quindi una facoltà di compensazione più elevata in danno del lavoratore e per il solo fatto che questi sia cittadino extracomunitario: il che  costituisce una palese violazione del principio di parità di trattamento pure solennemente affermato, in esecuzione della Convenzione OIL 143 del 1975, dall'art.2 del DLgs 286/98.

In realtà il discorso in ordine alla violazione della convenzione OIL - resa esecutiva in Italia già nel 1981 con legge n.158 -  va ben oltre il profilo appena accennato investendo una problematica più generale (che può qui essere appena accennata) afferente non tanto alla sanatoria quanto ad uno dei pilastri portanti  della L. 189/02. 

Si tratta di nuovo del contratto di soggiorno. Si è visto che questo  monstrum bicefalo avente ad un tempo la natura pubblica di presupposto per l'atto autorizzativo del soggiorno e la natura privatistica di contratto di lavoro, si arricchisce nella sanatoria di un ulteriore contraddizione perché nasconde sotto le mentite spoglie di un contratto di lavoro una dichiarazione ricognitiva di un rapporto di lavoro già in essere.

Orbene tale anomalia, nel sistema a regime, si ripete per l'extracomunitario ad ogni rinnovo del permesso di soggiorno, giacchè -  ai sensi del nuovo art.5 D.Lgs 286/98 detto rinnovo è sottoposto alla verifica delle condizioni previste per il rilascio (comma 4)  e il permesso è rilasciato a seguito della stipula del contratto di soggiorno (comma 3-bis). Dunque ad ogni rinnovo l'extracomunitario  dovrà ri-stipulare il contratto di soggiorno;  il che se da un lato (allorchè il rapporto di lavoro sia lo stesso prima e dopo il rinnovo)  costituisce una incomprensibile irrazionalità, dall'altro obbliga l'extracomunitario che dopo il primo rilascio deve considerarsi ad ogni effetto regolarmente soggiornante - a sottoporsi ad una prassi di accesso al lavoro diversa e più gravosa di quella del cittadino italiano.

Si vuol dire cioè che i due famosi obblighi aggiuntivi gravanti sul datore di lavoro (garanzia dell'alloggio e accollo delle spese di rientro) collocano la forza-lavoro extracomunitaria in una posizione palesemente deteriore, rendendo più onerosa e dunque meno appetibile l'assunzione dello straniero rispetto all'italiano. Ma una simile diversità di trattamento può risultare ammissibile in sede di prima assunzione -  laddove fa parte delle condizioni e dei limiti che lo Stato può legittimamente apporre all'ingresso dello straniero -  ma è certamente incompatibile con il citato principio di parità laddove è imposta a stranieri regolarmente soggiornanti i quali -  secondo pacifica giurisprudenza Costituzionale [9] -

hanno diritto di accedere al lavoro mediante gli stessi canali e alle stesse condizioni previste per i cittadini italiani: il che palesemente non avviene con la disciplina attuale.

La quantità di interrogativi lasciati aperti, anche solo sul piano del rapporto di lavoro, dalla affrettata normativa sin qui descritta consente infine di porre un interrogativo più generale.

I numeri indicati all'inizio indicano con tutta evidenza che la sanatoria è da tempo lo strumento ordinario  più rilevante per l'accesso e la regolarizzazione degli extracomunitari sul  territorio nazionale: i dati forniti dal Dossier Immigrazione della Caritas per il 2002 indicano che dei 1.340.655 extracomunitari presenti in Italia nel 2001, ben  565.596 sono quelli regolarizzati nel corso degli anni con le quattro sanatorie di cui si è detto e tuttora presenti: una percentuale del 40% che, all'esito delle procedure in corso e del sostanziale blocco delle quote regolari per il 2002 [10],

è destinata a salire a quasi il 70%. Ce ne sarebbe  abbastanza per seppellire il farraginoso meccanismo di ingresso (iscrizione dell'extracomunitario nelle liste presso i consolati e chiamata dal datore di lavoro italiano) che la Bossi-Fini ha reso ancor più burocratico introducendo l'assurda pretesa di una inutile verifica preventiva in ordine alla disponbilità di mano d'opera italiana: un meccanismo di collocamento vecchio stampo ormai soppresso per qualsiasi lavoratore  e tenuto in piedi - a viva forza e senza alcuna utilità pratica - per i soli extracomunitari;  ai quali pertanto, specie dopo la soppressione dell'ingresso per sponsorizzazione,  è preclusa (in astratto, salvo poi dover correre ai ripari con le varie sanatorie) la possibilità di un libero incontro tra domanda e offerta di lavoro. 

E ce ne sarebbe dunque abbastanza - se la logica avesse un peso nelle scelte politiche -  per lasciare spazio a  forme di ingresso più flessibili, che consentano, quantomeno per un breve periodo, la possibilità   di permanere sul  territorio nazionale per competere ad armi pari nella ricerca di un'occupazione. Ma questa  è davvero un'altra storia.

Alberto Guariso

 

 

[1] I provvedimenti precedenti sono la L. 943/86 che aveva portato alla regolarizzazione di 105.000 extracomunitari; la legge Martelli n.39/90 con 217.626 regolarizzazioni; il DL 489/95 con 244.492 regolarizzazioni; il D.P.C.M. 16/10/98 con 217.124  regolarizzazioni.

[2] Per una rassegna dei criteri adottati dai paese europei  in occasione dei provvedimenti di sanatoria cfr. J.Agap, Procedure di regolarizzazione in Europa e criteri di ammissione, in Diritto, Immigrazione e cittadinanza, 2001,25.

[3] Cfr. In particolare  Trib.Milano 5/11/02, Trib. Milano 15/11/02; Trib.Milano 6/11/02 in questa Rivista, 000, 2002 tutte favorevoli alla qualificazione della posizione del  datore di lavoro in termini di obbligo; ad esse va aggiunto, allo stato, Trib.Pisa, est. Schiamone, in corso di pubblicazione sul n.1/03 di questa Rivista, che si segnala per l'ampia motivazione e anche per la particolarità di individuare un obbligo del datore di lavoro anche con riferimento ad un rapporto di lavoro già esauritosi, nonché (a quanto può evincersi dalla motivazione) un diritto del lavoratore di avviare egli stesso la procedura di sanatoria.

[4] Per un commento alle disposizioni della legge Bossi-Fini 189/02 sia consentito rinviare a L.Neri, A.Guariso La legge Bossi-Fini sull'immigrazione: le innovazioni in materia di lavoro in questa Rivista, 2002, 231; cfr. inoltre G.Ludovico, La disciplina del lavoro immigrato extracomunitario dopo le modifiche previste dalla L. 189/02, in Il lavoro nella giur., 2002, 1021, nonché il numero monografico  della Rivista Diritto, Immigrazione e Cittadinanza interamente dedicato alla L. 189, attualmente in corso di stampa.

[5] Si veda la circolare n.14 del 9/9/02 del Ministero dell'Interno, Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, nella quale peraltro si da atto che il tenore letterale della norma è invece di segno del tutto opposto.

[6] Una analoga dichiarazione in ordine alla decorrenza del rapporto è inserita all'ultimo rigo del modello di contratto di soggiorno allegato alla citata circolare 20/9/02 del Ministero del Lavoro; dichiarazione palesemente stridente con l'altra apposta nel medesimo modello poche righe sopra, secondo la quale le parti stipulano il contratto di soggiorno, ma che ben evidenzia l'utilizzo del tutto atecnico di tale espressione e la natura sostanzialmente ricognitiva delle dichiarazioni negoziali contenute nel contratto. 

[7] Ai sensi dell'art. 1, comma 4 bis L. 383/01, nel testo modifica recentemente dalla L. 210/02 , l'adesione del lavoratore al programma di emersione avviene tramite sottoscrizione di specifico atto di conciliazione e ha efficacia novativa del rapporto di lavoro emerso con effetto dalla data di presentazione della dichiarazione di emersione e produce, relativamente ai diritti di natura retributiva e risarcitoria per il periodo pregresso, gli effetti  conciliativi ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c.: come si vede un procedimento del tutto diverso da quello previsto nella legge in esame.

[8] Cfr. in tal senso Cass. 21/6/91 n. 7002.

[9] Si veda Corte Costituzionale 30/12/98 n.454, in questa Rivista, 1990, 277, con nota di A.Guariso secondo la quale una volta che i lavoratori extracomunitari siano autorizzati al  lavoro subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale scopo&essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani.

[10] Solo in extremis il Governo, dopo aver bloccato per tutto il 2002 gli ingressi regolari omettendo di emettere il decreti flussi previsto dall'art&. del T.U. ha varato il decreto 15.10.02 ammettendo 10.000 lavoratori subordinati (limitando tuttavia l'accesso a 7 nazionalità) oltre a 4000 per lavoro stagionale, a 4.000 Argentini di origine italiana, 500 lavoratori qualificati e 2.000 lavoratori autonomi.