Trasferimento di ramo d'azienda: ultimi bagliori in attesa del "Patto per l'Italia" (di Alberto Guariso)

 

 

 

Sarà forse il Tribunale di Milano – con la sentenza in commento – a spegnere le luci sulla attuale normativa in tema di trasferimento di ramo d’azienda; forse ci sarà spazio per altre due, tre o dieci pronunce, ma prima o poi – tutto dipende dai tempi politici del Parlamento, attualmente (settembre 2002) in tutt’altre faccende affaccendato - calerà la scure della nuova disciplina: la quale merita dunque sin d’ora almeno qualche sommaria riflessione.

I passaggi pregressi della vicenda sono ampiamente noti e possono essere qui richiamati solo per sommi capi: l’originaria redazione dell’art. 2112 c.c. non faceva cenno ai trasferimenti di singole parti dell’azienda, ma la giurisprudenza aveva pacificamente ritenuto applicabile la disciplina al trasferimento di rami che fossero dotati di sufficiente autonomia; la prima modifica della disciplina ad opera della L. 29/12/90 n.428, attuativa della direttiva 77/187,  non aveva inciso sul problema dei trasferimenti parziali;  mentre la seconda modifica (e che ha condotto all’attuale stesura)  introdotta con D.Lgs 2/2/01 n.18 in adempimento della direttiva 90/58 ha per la prima volta espressamente previsto l’applicabilità della disciplina “al trasferimento di ramo d’azienda” dandone una definizione sufficientemente precisa (“articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” : su tale seconda modifica cfr. Franceschinis, Le recenti modifiche legislative in materia di trasferimento d’azienda”, in D&L, 2001,340).

Parimenti nota è la rilevanza politica e sindacale della questione in rapporto ai sempre più frequenti processi di esternalizzazione: lo strumento della cessione parziale è infatti sempre più spesso utilizzato per attribuire arbitrariamente i lavoratori al ramo e  “accompagnarli” così fraudolentemente al di fuori dell’azienda in una condizione di tutela normalmente inferiore (per le più ridotte dimensioni aziendali del cessionario o  per l’effetto sostitutivo di nuovi contratti collettivi previsto dal comma 3 dell’art. 2112 c.c.).

E l’esigenza di una tutela contro simili operazioni appare ancora più pressante ove si consideri l’attuale prevalenza dell’orientamento che - a dispetto delle aperture della giurisprudenza comunitaria: cfr. Corte Giust. CE, sez.VI, 24/1/02 c-51/00, in D&L, 2002, 57 – continua a negare la necessità del consenso del lavoratore per l’efficacia del trasferimento, negandogli quindi la possibilità di “optare” per la permanenza alle dipendenze del datore di lavoro cedente (per la irrilevanza del consenso cfr. da ultimo Cass. sez.lav. 23/7/02 n.10761 in Guida al Diritto, 2002, n.48, p.32; in senso contrario Pret.Milano 14/5/99 in D&L, 1999, 561 con nota di Chiusolo; in dottrina S.Cascioli “Il trasferimento d’azienda e la rilevanza del consenso del lavoratore alla cessione del contratto”, in D&L, 2001,563; C.Francioso e L. De Andreis, “Nelle cessioni parziali d’azienda è sempre rilevante il consenso dei singoli lavoratori addetti ai rami oggetto della cessione”, in D&L, 2001, 557).

E’ in tale contesto che si abbatte come una scure il prospettato nuovo intervento legislativo, in forza del quale il governo sarebbe delegato a modificare l’art. 2112 c.c. secondo tre criteri. Il secondo di questi così recita: “previsione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda nel momento del suo trasferimento”. Qui la norma non consente equivoci: non è più necessario che l’autonomia funzionale “pre-esista” al trasferimento, ma  è sufficiente che venga in essere “al momento”   del trasferimento stesso. E dunque l’imprenditore è legittimato ad accorpare un gruppo di lavoratori e a conferire loro la dignità di “ramo” non solo un minuto prima del trasferimento, ma addirittura nel momento stesso in cui li trasferisce e proprio allo scopo di trasferirli come un quid unitario, rendendo con ciò stesso impossibile qualsiasi contestazione in ordine alla appartenenza o meno ad un ramo che può comunque costituirsi “ad hoc” proprio in vista del trasferimento. Ciò che appare lievemente beffardo è che gli autori della norma pretendano di introdurre l’innovazione facendosi scudo del richiamo (indicato addirittura quale primo criterio della legge delega) alla normativa comunitaria ed in particolare alla Direttiva CE 2001/23 del 12/3/01. Orbene è pur vero che il requisito della “pre-esistenza” introdotto dal D.Lgs.18/01 poteva ritenersi non imposto dalla direttiva 98/50 (che peraltro parlando di “conservazione” della identità del ramo nel passaggio di proprietà, presupponeva comunque una sorta di pre-esistenza, non potendosi conservare se non ciò che esista già prima): ma il punto è che la nuova direttiva 2001/23 non ha per nulla innovato sulla questione, avendo riprodotto letteralmente la stessa previsione di quella precedente, che, come detto, aveva indotto il legislatore italiano ad emanare il D.Lgs.18 cit.. Sicché non si spiega come il legislatore italiano pensi di poter emanare, in adempimento di un’unica direttiva comunitaria (o meglio di due direttive tra loro, sul punto, assolutamente identiche) due disposizioni nazionali dal tenore del tutto opposto e  delle quali la seconda ampiamente peggiorativa: il che sembra configurare quantomeno una violazione della clausola di “non regresso”, che preclude agli stati membri di avvalersi di una direttiva per ridurre il livello di tutela dei dipendenti previsto dall’ordinamento interno.

Infine il terzo criterio previsto dalla norma nel testo allegato al “Patto per l’Italia” si segnala per una formulazione talmente oscura  da far dubitare della buona fede dei redattori: “previsione di un regime particolare di solidarietà tra appaltante e appaltatore, nei limiti di cui all’art. 1676 c.c., per le ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso ad una cessione di ramo d’azienda. Come correttamente rilevato dai primi commentatori del disegno di legge 848 (Cester, Le novità in tema di trasferimento di ramo d’azienda in “Il diritto del lavoro dal Libro Bianco al disegno di legge delega 2002”, Milano, 2002,26) l’unico plausibile significato che può attribuirsi all’ipotesi di un “appalto connesso ad una cessione di ramo d’azienda” è quello che viene in gioco nelle esternalizzazioni davvero “selvagge”, che si collocano  ai limiti dell’interposizione di mano d’opera: allorchè cioè l’imprenditore conferisca il ramo d’azienda ad una società (normalmente da lui controllata) e poi attribuisca al nuovo soggetto, mediante contratto di appalto, lo svolgimento delle stesse funzioni che  facevano capo agli stessi lavoratori all’interno della azienda cedente.

Per tale ipotesi il legislatore delegato è dunque incaricato di prevedere un “regime particolare di solidarietà tra appaltante e appaltatore”. Orbene, a parte la totale genericità della previsione (il “particolare regime” è privo di qualsiasi criterio identificativo) è noto che oggi sussiste, ai sensi dell’art. 3 L.1360/62, una solidarietà piena e totale tra appaltante e appaltatore, indipendentemente dal carattere lecito o illecito dell’appalto:   se ne deve dunque innanzitutto concludere che i contraenti, nel redigere la norma in questione,  hanno dato altresì la loro implicita ma totale adesione (senza la quale la previsione in commento non avrebbe senso) all’abrogazione della L. 1360/62 appunto prevista dall’art.1, c.2 del disegno di legge governativo.

Ma questo sarebbe nulla: l’aspetto davvero paradossale è che l’originario disegno di legge si limitava alla previsione del fantomatico “regime particolare” di solidarietà, senza indicare limitazione alcuna. Era stato così puntualmente notato (Cester, ibidem) che detta pur criticabile previsione avrebbe quantomeno consentito, nel solo specifico caso dell’appalto connesso a trasferimento, di sottrarre la solidarietà tra appaltante e appaltatore ai limiti di cui all’art. 1676 c.c.: dunque una norma che, nel deserto creato dalla abrogazione della L. 1360, si presentava pur sempre come una norma di (pur minima) tutela aggiuntiva per i dipendenti oggetto della cessione. Puntuali come più non si potrebbe ecco dunque sopraggiungere i contraenti collettivi per chiarire che detto “regime particolare” si realizzerà appunto “nei limiti di cui all’art. 1676 c.c.”: limiti (in particolare: l’esistenza del residuo debito dell’appaltante nei confronti dell’appaltatore, l’essere assegnati allo specifico appalto che ha dato origine a detto residuo debito, l’onere di proporre tempestivamente la domanda giudiziale ecc.) che, come è noto, sono tali da rendere di fatto impossibile in numerosissime occasioni l’effettiva attivazione della solidarietà.

In altre parole viene così garantito ai lavoratori trasferiti il diritto di mantenere (tutt’al più) ciò che il legislatore del 1942 già aveva garantito alla generalità dei dipendenti di qualsivoglia appaltatore: restando così affidato agli storici l’evento, assolutamente unico, di una norma che viene affidata dal governo alla trattativa delle parti sociali e da qui esce garantendo ai lavoratori un livello di tutela addirittura inferiore a quello che il governo stesso aveva unilateralmente prospettato nell’originaria redazione.