Il Patto per l'Italia innesca l'abrogazione progressiva dell'art. 18 dello Statuto (di Francesco Stolfa)

 

Il Protocollo Trilaterale firmato il 5 luglio scorso dal Governo, dalle Associazioni Imprenditoriali e da due delle maggiori Confederazioni Sindacali (CISL e UIL) colpisce il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, sancito dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori? Tutti i firmatari del cosiddetto Patto per l'Italia, in testa il Presidente del Consiglio, si sono subito affannati a precisare che l'accordo non tocca minimamente l'art. 18. La CGIL sostiene il contrario. Chi ha ragione?

L'allegato n. 2 del Patto riproduce integralmente quello che dovrebbe diventare il nuovo art. 10 del disegno di legge n. 848 (cd. delega sul mercato del lavoro) ora all'esame del Senato. Il testo di quel medesimo articolo inizialmente presentato dal Governo, come è noto, prevedeva tre casi di deroga: quella del lavoratore originariamente assunto a termine e successivamente stabilizzato a tempo indeterminato, quella dell'azienda che - emergendo dal sommerso - regolarizzi rapporti di lavoro nero e, infine, quella dell'azienda che, trovandosi al di sotto della soglia occupazionale minima valida per l'applicazione dell'art. 18, assuma altri dipendenti superando così quel limite. In tutti questi casi il disegno di legge delega del Ministro Maroni consentiva al Governo di introdurre, con i decreti delegati, non meglio precisate forme di esonero dall'applicazione dell'art. 18.

Il testo ora prefigurato nell'allegato n. 2 del Patto per l'Italia  riduce le ipotesi a una sola e definisce con maggior precisione i limiti della delega legislativa. Secondo le dichiarazioni dei firmatari, il Patto salverebbe solo l'ultima ipotesi, concernente le aziende minori, con il dichiarato intento di favorire "la crescita dimensionale delle imprese". Nel nuovo testo si utilizza un meccanismo piuttosto collaudato (ad es. per i contratti di formazione e lavoro o per l'apprendistato) che è quello di non computare alcuni dipendenti ai fini della verifica del requisito occupazionale necessario per l'applicazione dell'art. 18. Stabilisce appunto il testo concordato che non saranno conteggiate "le nuove assunzioni" effettuate "mediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche part-time, o con contratto di formazione e lavoro, instaurati nell'arco di tre anni" dalla data della sua entrata in vigore. Precisa inoltre che tale "non computo" non riguarderà le aziende che, al momento dell'entrata in vigore della legge, già rientrano nel campo di applicazione dell'art. 18.

In questo modo, sostengono i firmatari del Patto, le aziende saranno libere di crescere potendo effettuare tutte le assunzioni che vorranno senza che ciò le faccia rientrare nel campo di applicazione della tanto temuta e ormai celeberrima norma. E aggiungono che i lavoratori attualmente occupati non perderanno nessuno dei propri diritti, applicandosi la nuova disciplina solo alle future assunzioni ossia agli attuali disoccupati e, come direbbe il noto cabarettista Catalano, meglio un lavoro poco tutelato che la disoccupazione.

Il ragionamento non farebbe una grinza se corrispondesse al testo legislativo. Ma non vi corrisponde, perché il disegno di legge che il Patto prefigura si limita, come già sottolineato, a rendere non computabili (e il Ministro Marzano ha precisato non computabili per sempre, non solo per i tre anni di sperimentazione) tutte le assunzioni future, salvo quelle effettuate dalle aziende in cui già si applica l'art. 18. Ciò implica che beneficeranno del "non computo" non solo le aziende minori esistenti (che attualmente occupano fino a 15 dipendenti in ogni unità produttiva o fino a 60 nel complesso) ma anche tutte quelle di nuova costituzione, piccole o grandi che siano. Questo significa che qualsiasi azienda, anche di grandi o grandissime dimensioni, che sarà creata nel nostro Paese, ad es. anche dai gruppi imprenditoriali dominanti a livello nazionale o internazionale, otterrà lo stesso beneficio e potrà avere mano libera con tutti i propri 100, 1000 o 10.000 dipendenti. La cosa appare particolarmente grave perché queste aziende, una volta escluse dalla tutela reale, resterebbero assoggettate alla mera tutela obbligatoria così come divisata dalla L. 604/1966 la cui esiguità finirebbe per destabilizzare lo stesso principio della giusta causa (ora sancito anche a livello europeo dall'art. 30 della carta di Nizza): un indennizzo da 2,5 a 6 mensilità potrà preoccupare un piccolo artigiano ma certo non una multinazionale, con la conseguenza, veramente aberrante, che in Italia il potere di licenziamento subirebbe limitazioni effettive solo nelle micro-imprese. Simili effetti appaiono ultronei se non addirittura opposti rispetto al dichiarato intento di favorire "la crescita dimensionale delle imprese". Ma vi è di più. Nel medesimo testo divisato nell'allegato 2 non è stata adottata alcuna precauzione contro l'eventualità che le aziende di nuova costituzione siano nuove solo di nome. È facile immaginare, infatti, quanto forte sarebbe la tentazione delle altre imprese escluse dal beneficio, quelle che attualmente garantiscono la stabilità reale dei posti di lavoro, a riciclarsi, chiudendo i battenti e riaprendo sotto altro nome, per poter godere della stessa libertà di licenziamento. Soccorre al riguardo l'esperienza applicativa di altri benefici quali, ad es., quelli previsti per le assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità. In tal caso il legislatore ha precisato che tali benefici non riguardano "quei lavoratori che siano stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti, da parte di  impresa dello stesso o di diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti  proprietari  sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume ovvero risulta con quest'ultima in rapporto di collegamento o controllo. L'impresa che assume, dichiara, sotto la propria responsabilità, all'atto della richiesta di avviamento, che non ricorrono le menzionate condizioni ostative" (art. 8, co. 4-bis, L. 23 luglio 1991,  n.  223, come modificato dalla L. 451/1994). L'INPS, ente erogatore dei benefici, è successivamente intervenuto nella questione con due circolari (la n. 239 del 1/8/1994 e la n. 122 del 1/6/1999) che hanno fissato ulteriori condizioni, molto rigorose. Nonostante tutto questo, i tentativi elusivi sono stati copiosissimi dando luogo a un contenzioso che l'Istituto di Previdenza ha dovuto fronteggiare vigorosamente nel tentativo, spesso vano, di evitare i numerosissimi abusi.

Che cosa succederà nel caso in esame in cui la legge non ha previsto alcuna esclusione e in cui non ci si potrà valere neanche dell'occhio vigile dell'INPS?

Se dunque l'allegato n. 2 del Patto per l'Italia si traducesse in legge, si determinerebbero effetti a breve e medio termine molto diversi da quelli dichiarati: non solo resterebbero privi di tutela gran parte dei nuovi assunti (dalle imprese esistenti under 16 e da tutte le imprese di nuova costituzione) ma si innescherebbe anche un meccanismo tendenziale  che, nell'arco del triennio di sperimentazione, spingerebbe moltissime imprese fuori dell'ambito di applicazione della tutela reale rendendo peraltro, poi, di fatto, impossibile un ripristino della situazione normativa attuale. È davvero auspicabile che la svista, se di una svista si tratta, possa essere celermente corretta.

 

 

Francesco Stolfa