Spunti di analisi sulla posizione del lavoratore nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (di Antonio Manna)

1 - Riguardo ai i diritti che formano oggetto del capo IV della Carta di Nizza [2] , dedicato alla solidarietà, bisogna dare atto ai redattori della Carta di aver resistito a quella che è stata chiamata “l’insidia riduzionistica” [3] , cioè la tendenza a tenere fuori i diritti sociali al pari di quanto era accaduto cinquanta anni fa per la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, di cui taluno auspicava una sostanziale riproduzione solo un po’ aggiornata.

La novità di maggior rilievo è stata invece proprio nei diritti sociali [4] (per essi intendendosi – nella terminologia comunitaria - quelli del lavoratore e quelli alla sicurezza sociale in genere), non tanto per le limitate innovazioni rispetto alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 (ancor più modeste rispetto ad alcuni evoluti ordinamenti nazionali), quanto per la maggiore risonanza in ambito europeo che, se fino ad oggi è soprattutto politica, un domani potrebbe divenire giuridicamente rilevante.

Come sappiamo, la Convenzione dei 62 incaricata di redigere la Carta aveva un mandato piuttosto ridotto. In sostanza si doveva limitare ad una ricognizione delle acquisizioni comunitarie in tema di diritti fondamentali [5] senza distinguere fra diritti così detti di prima, seconda o terza generazione.

Se il suo lavoro fosse rimasto semplicemente compilativo, la questione dell’immediata effettività della Carta in termini di forza giuridica avrebbe avuto scarsa importanza. Ma poiché le affermazioni di principio sono andate oltre l’esistente giuridico in ambito comunitario, ecco che le aspettative circa una sua futura effettività giuridica prendono corpo.

Oltre che da un eventuale suo inserimento nei Trattati auspicato dalla Commissione e dal Parlamento europeo [6] e di cui si parlerà nel 2004 in sede di Consiglio europeo, ciò potrebbe dipendere dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che già in passato ha riconosciuto l’esistenza di numerosi diritti fondamentali attraverso la strada dell’art. 6 [7] del Trattato istitutivo dell’Unione europea [8] . Altri diritti, ancora, li ha riconosciuti come derivanti in via immediatamente precettiva dai Trattati.

I diritti fondamentali rientrano fra i princìpi giuridici generali di diritto comunitario e la Corte di giustizia ha già individuato come tali non soltanto i diritti di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [9] , ma molti altri ancora [10] . Vari enunciati della Carta ripropongono princìpi già vigenti nell’ordinamento comunitario (come d’altronde si ammette nell’art. 52.2) e quelli che oggi non lo sono potrebbero esserlo un domani se riconosciuti come tali dalla Corte di giustizia [11] .

Anzi, come efficacemente si è sostenuto da parte d’un componente della Convenzione che ha redatto la Carta, essa “è già dentro la giurisprudenza fattuale” della Corte di giustizia [12] , al punto che se ciò fosse vero sarebbe in pratica superata l’esigenza d’un suo formale inserimento nei Trattati [13] fra le norme comunitarie primarie [14] .

Ad ogni modo, sicuramente fin d’ora molte disposizioni della Carta possono essere già utilizzate come validi spunti interpretativi dai giudici degli Stati membri nelle controversie fra lavoratore e datore di lavoro, nel senso che - in caso di vuoto normativo o di ampi spazi interpretativi - le Corti nazionali potrebbero adoperarle in funzione di autointegrazione dell’ordinamento conferendo loro di fatto un valore cogente.

In effetti, se prendessimo in esame l’ordinamento giuridico di uno o più degli Stati dell’Unione europea ci accorgeremmo che in esso sono già rintracciabili a differenti livelli – legislativi, giurisprudenziali, consuetudinari - molti dei princìpi della Carta di Nizza, che ne opera un distillato, una sintesi che dà forma compiuta a valori diffusi e condivisi anche in quel dato ordinamento.

Potremmo quasi dire che la Carta contribuisce a dargli consapevolezza di sé [15] .

Quanto al tipo di efficacia, l’art. 51.1 sull’ambito di applicazione sembra prefigurare un’efficacia meramente verticale dei princìpi nei confronti delle istituzioni dell’Unione e degli Stati membri, che devono promuovere l’applicazione della Carta. E’ però innegabile che i diritti fondamentali dei lavoratori – o almeno molti di essi - hanno, per così dire, una propria “vocazione” orizzontale: ad esempio si pensi al principio di parità retributiva fra uomini e donne che la Corte di giustizia (a partire dalla nota sentenza “Defrenne II”, Racc. 1976, p. 455, 476) ha chiarito avere efficacia orizzontale [16] .

2 - Detto questo, immaginiamo lo scenario che in avvenire potrebbe nascere da un’affermazione di forza giuridicamente vincolante della Carta nella parte in cui si occupa dei diritti dei lavoratori e veniamo ora al nocciolo del quesito che ci interessa: la Carta migliora la posizione dei lavoratori oppure è vero che la prudenza e la genericità di certe affermazioni reca in sé il rischio d’un arretramento rispetto ad ordinamenti nazionali più evoluti o rispetto allo stesso diritto comunitario del lavoro?

Il pericolo era oggettivamente insito nello stesso mandato di Colonia, che era solo quello di prendere in considerazione diritti economici e sociali già tutelati come tali e non come obiettivi da conseguire da parte delle politiche dell’Unione. Ciò nonostante, visto in concreto il risultato finale credo di poter rispondere che, almeno da un punto di vista strettamente giuridico, non vedo un rischio tangibile di arretramento e ciò grazie alla clausola di salvaguardia sul livello di protezione dell’art. 53, secondo cui nessuna disposizione della Carta può essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, oltre che dalle fonti di diritto internazionale, anche dalle costituzioni degli Stati membri [17] .

Resta da vedere se nella Carta, dopo che è stato ribadito lo zoccolo duro dei diritti, sono residuati margini di miglioramento di tutela per il lavoratore.

In realtà il problema non era tanto quello di accrescere in Europa i diritti del lavoratore, quanto quello di frenarne la caduta. Dunque, era già un risultato riuscire a fissare confini invalicabili.

Per essere più precisi, siamo tutti consapevoli che in tempi di globalizzazione l’affermazione solenne di princìpi di solidarietà sociale era ed è irrinunciabile anche da un punto di vista economico, oltre che culturale.

Infatti, un declino nella protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori è, purtroppo, già nell’ordine delle cose in un’epoca che vede le imprese trasferirsi verso mercati che riducono sempre di più costo del lavoro, spese sociali ed ambientali, in un’infinita corsa verso il fondo e verso una generale deregolamentazione sociale.

Questi timori ormai si diffondono trasversalmente nel mondo del lavoro poiché la globalizzazione e lo snellimento delle aziende [18] inducono anche i dirigenti a temere per la propria occupazione e, quindi, a soffrire d’una insicurezza che un tempo era caratteristica dei soli lavoratori marginali.

In Europa il problema d’un livellamento verso il basso grazie a forme più o meno nascoste di dumping sociale è aggravato dal rischio che le prospettive di allargamento dell’Unione europea verso est facciano migrare i posti di lavoro verso le regioni meno sviluppate del continente.

Se, dunque, la funzione della Carta – oggettivamente, a prescindere dall’intento storico dei suoi redattori – era anche quella di invertire la tendenza al livellamento verso il basso e prevenire il dumping sociale, va da sé che ragionevolmente non ci si poteva aspettare molto di più se non un’insistenza sotto più aspetti, evidente in tutto il capo IV relativo alla solidarietà, sul tema generale dello sviluppo socialmente sostenibile (in termini di protezione dei lavoratori, dei consumatori, della salute, di sicurezza ed assistenza sociale ecc.), oltre a quello sostenibile dal punto di vista ambientale espressamente menzionato dall’art. 37 che, non a caso, è inserito sempre nel medesimo capo.

Pertanto, penso che se nel commentare la Carta è ingiustificato un eccessivo entusiasmo, lo è ancor più un pessimismo depressivo dal momento che è obiettivamente riscontrabile un certo accrescimento di tutela dei soggetti più deboli e, comunque, un rafforzamento del modello sociale europeo, alternativo a quello asiatico o nord e centroamericano. Basti pensare che quest’ultimo oggi sta incrementando il ricorso alle maquiladoras [19] , con tutte le note conseguenze in termini di occupazione mal pagata, repressione di sindacati indipendenti, incidenti sul lavoro, degrado umano ed ambientale.

Ribadisco che nella Carta di Nizza i progressi sono non tanto nei contenuti, perché si tratta di diritti in gran parte già rinvenibili nell’ordinamento comunitario del lavoro, ma nell’essere stati inseriti in un corpus organico e posti allo stesso livello di altri diritti così detti di prima generazione.

Analogamente, non è senza significato la generale cornice di riferimento: se è vero che certi diritti sono riconosciuti conformemente all’ordinamento comunitario e/o a quello nazionale e con possibili limitazioni per esigenze di interesse generale dell’Unione europea o per proteggere altri valori, è però altrettanto certo che è sparito dall’orizzonte come criterio informatore dell’ampiezza dei diritti quello delle compatibilità economiche. Non a caso la parola “competitività” è assente in tutta la Carta [20] .

Si può anzi dire che il capo IV sulla solidarietà è la prova della resistenza a vedere il mercato come valore unico e fondante.

Altro più generale aspetto qualificante è che nella Carta di Nizza il concetto di lavoratore prescinde dalla cittadinanza d’uno Stato membro dell’Unione; ciò supererebbe una costante giurisprudenza della Corte di giustizia che, premesso che la nozione di lavoratore e quella di attività subordinata hanno una portata comunitaria [21] , aveva sempre fatto riferimento al requisito della cittadinanza d’uno Stato membro.

Secondo alcuni [22] - anzi – il concetto di lavoratore prescinde anche dall’essere immigrato legale o clandestino [23] . Mi sembra, però, che l’art. 34.2, che assicura il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale solo a chi risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione, introduca un elemento discordante rispetto a tale interpretazione sulla tutela lavorativa dell’immigrato clandestino [24] .

La Carta non distingue, poi, i diritti dei lavoratori per settore di appartenenza, pubblico o privato: non è cosa tanto trascurabile o poco significativa, se si pensa che, ad esempio, negli Stati Uniti si nega un vero e pieno diritto di contrattazione ai dipendenti pubblici [25] .

3 - Si è obiettato che la Carta sarebbe stata avara di nuovi riconoscimenti e che avrebbe esposto a rischio i diritti del lavoratore, ad esempio perché parla di diritto di lavorare (art. 15) anziché di diritto al lavoro, di libertà di impresa (art. 16) senza porre l’immediato limite che essa non metta a rischio la sicurezza e la dignità dei lavoratori ed il rispetto dell’ambiente, che avrebbe taciuto sul salario minimo garantito inteso come primario ed irrinunciabile diritto sociale, che avrebbe mortificato l’associazionismo sindacale, che non avrebbe affermato la necessità di creare le condizioni per l’esercizio effettivo dei diritti riconosciuti ecc.

Mi sembrano critiche ingenerose, perché se è vero che chi redige un testo giuridico – o che aspira a divenire tale – ha i propri compiti e le proprie responsabilità, è altrettanto vero che anche l’interprete ne ha di suoi e non certo minori.

Mi spiego.

Tralascio la distinzione fra diritto di lavorare e diritto al lavoro, forse troppo enfatizzata e che ci porterebbe su un terreno più filosofico che giuridico.

Per quel che riguarda la mancata esplicita affermazione dell’obbligo di creare le condizioni concrete idonee a rendere effettivo l’esercizio dei diritti, non dimentichiamo che l’art. 51.1 attribuisce all’Unione e agli Stati membri il compito di promuoverne l’applicazione secondo le rispettive competenze e che il penultimo capoverso del preambolo della Carta ammonisce dicendo che il godimento dei diritti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri”: mi sembrano espressioni ampie e sufficienti a far ritenere che gli Stati abbiano l’obbligo di operare in modo che l’esercizio dei diritti in questione sia effettivo e non resti solo una buona intenzione.

Quanto alle altre critiche, se è vero che non emergono grandi progressi se ci si limita ad una lettura della Carta per articoli separati, è però innegabile che esistono alcuni avanzamenti nella salvaguardia dei diritti e della libertà fondamentali del lavoratore se si fa luogo ad una lettura combinata e sistematica.

D’altronde, come è stato autorevolmente affermato [26] , quando un diritto fondamentale viene estrapolato dal suo contesto ed inserito in uno nuovo, è inevitabilmente destinato a mutare, così come cambiano i termini del suo bilanciamento con altri diritti di pari livello.

Ad esempio, la libertà d’impresa [27] (art. 16) è bilanciata dal diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione (art. 27), dalla tutela contro i licenziamenti ingiustificati, dalla protezione dei minori e dei giovani sul posto di lavoro, dal diritto del lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (art. 31), dal principio dello sviluppo sostenibile (art. 37), dalla garanzia dell’associazionismo sindacale (art. 12), dal diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 28) ecc.

Nondimeno esistono alcuni punti della Carta che già di per sé costituiscono oggettive novità.

La più importante è di sicuro quella contenuta nell’art. 30, secondo il quale “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali” [28] .

L’ordinamento giuridico comunitario conosce direttive che disciplinano i licenziamenti collettivi [29] e ne tipizzano la nozione, ma non si occupa del licenziamento individuale né contiene il principio secondo cui qualsiasi licenziamento debba essere intimato solo per un valido motivo [30] . Invece l’art. 30 della Carta, sia pur rinviando al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, stabilisce che il lavoratore abbia tutela contro “ogni licenziamento ingiustificato”, quindi anche contro il licenziamento intimato per motivi inerenti alla persona del singolo lavoratore e senza alcun collegamento con esigenze di generale riduzione del numero di occupati nell’azienda.

Ciò costituisce un’indubbia accelerazione in termini di tutela contro il licenziamento individuale, fino ad ora oggetto soltanto d’una proposta di direttiva nel 1998.

In altre parole, le direttive comunitarie fino ad oggi assicurano solo un giusto procedimento di riduzione del personale [31] e lo fanno essenzialmente a scopo di tutela del mercato e della concorrenza [32] , il che spiega il disinteresse comunitario verso il tema del licenziamento individuale [33] . L’art. 30 della Carta – invece - per la prima volta entra nel vivo d’una protezione sostanziale perché parla di licenziamento ingiustificato e non semplicemente di licenziamento intimato senza il rispetto di determinate procedure.

Inoltre l’ampiezza della dizione fa ritenere che la tutela di cui all’art. 30 si applichi al settore pubblico e a quello privato, tanto al rapporto a tempo indeterminato quanto a quello a tempo determinato che il datore di lavoro interrompa ingiustificatamente prima della scadenza del termine pattuito.

Si tratta di conseguenze che hanno un duplice pregio: innalzano il livello di protezione in quegli ordinamenti nazionali poco sensibili a riconoscere forme di controllo sostanziale dei licenziamenti e segnano un punto di non ritorno per quelli che, già abbastanza avanzati in termini di tutela dei diritti del lavoratore, potrebbero correre il rischio di involuzioni normative [34] .

Quanto alla giustificazione del licenziamento, il concetto è di per sé abbastanza chiaro se riferito al licenziamento individuale perché sta a significare che deve avere un motivo giuridicamente apprezzabile e non dettato da scopi illeciti o discriminatori (uno dei quali – ad esempio - è contenuto nell’art. 33.2 che vieta il licenziamento per un motivo legato alla maternità).

Nei licenziamenti collettivi la giustificazione è insita nella necessità di ridimensionare l’attività dell’azienda o di ristrutturarla, sempre che ciò non nasconda il fine inconfessato di allontanare lavoratori sgraditi perché sindacalmente impegnati o per altri motivi. Ciò vuol dire che il controllo sui licenziamenti collettivi dovrà avere ad oggetto la coerenza tra la scelta tecnico-produttiva e l’identificazione dei lavoratori ritenuti in eccesso, secondo uno schema antico e collaudato nella giurisprudenza di più d’un Paese membro [35] .

Diversamente, l’imprenditore incorrerebbe nel fondamentale divieto di abuso del diritto fissato dall’art. 54 della Carta, ripreso dallo schema dell’art. 17 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e che esprime il principio di autoconservazione della Carta medesima [36] .

Resta da domandarsi quale sia il contenuto essenziale del diritto del lavoratore a non essere licenziato senza giustificazione, ovvero quale sia la tutela minima che, sebbene rinviata al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, non può essere tanto insignificante da violare il contenuto essenziale del diritto medesimo, conformemente a quanto stabilito dall’art. 52.1 della Carta.

In proposito è bene chiarire che il rinvio al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali [37] , letto sempre in maniera combinata con la garanzia del contenuto essenziale stabilita dall’art. 52.1, non autorizza queste ultime fonti ad ampliare i casi in cui il licenziamento possa essere intimato senza ragione alcuna, ma consente soltanto che – fermo il principio di giustificazione del licenziamento – la tutela conseguente si collochi su piani diversi, ovvero possa spaziare dalla reintegrazione nel posto di lavoro al semplice risarcimento purché non irrisorio.

L’entità di quest’ultimo, a sua volta, certamente dipenderà dalle opzioni politiche prevalenti nei singoli ordinamenti nazionali [38] . Mi preme soltanto notare che se il diritto in questione viene armonizzato con la garanzia di protezione della famiglia anche sul piano economico così come sancito dal successivo art. 33.1 della Carta, si deve concludere che la misura del risarcimento in ogni caso non potrà ignorare la situazione familiare, oltre che l’anzianità di servizio, l’età anagrafica e le maggiori o minori chances di trovare un nuovo lavoro.

4 - Proprio il principio di tutela anche economica della famiglia ispira un’altra novità, che a mio avviso è sulla retribuzione.

Benché non se ne parli in modo esplicito, tuttavia il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro dignitose, oltre che sane e sicure, sancito dall’art. 31.1, se viene letto insieme con la rubrica del medesimo articolo 31 - che parla di condizioni di lavoro giuste ed eque -, con la protezione della famiglia sul piano (anche) economico (art. 33.1) e con il diritto alla sicurezza e all’assistenza sociale, porta a ritenere implicitamente affermato il diritto ad una retribuzione commisurata a quantità e qualità del lavoro e ad ogni modo sufficiente a consentire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa.

Se poi si tiene presente che l’art. 34.3 della Carta definisce la lotta contro l’esclusione sociale e la povertà come uno dei fini dell’Unione europea, appare difficile negare che fra di essi rientri anche quello di assicurare una generale garanzia retributiva.

Insomma, forse manca poco perché si arrivi al salario minimo garantito [39] .

5 - Quanto alla posizione dei lavoratori sindacalmente impegnati, malgrado nell’art. 21 non si proibiscano espressamente le discriminazioni per motivi sindacali, la lettura combinata del divieto di discriminazioni per opinioni politiche “o di qualsiasi altra natura” con il diritto all’associazionismo sindacale dell’art. 12.1 e con quello alle azioni collettive per la tutela degli interessi dei lavoratori sancito nell’art. 28 è però tale da determinare un quadro di tutela tranquillizzante.

Piuttosto, maggiori incertezze si rinvengono su un altro versante delle relazioni industriali, in cui ci si muoveva fra due modelli estremi, quello inglese e quello italiano tanto per esemplificare, anche se  - in verità – era improbabile che la Carta operasse una scelta chiara.

Acquisito nell’art. 12 il diritto all’associazionismo sindacale, l’art. 28 riconosce ai lavoratori il diritto di contrattazione ai livelli appropriati e quello di porre in essere altre “azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”, il tutto sempre conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.

 Ma il fatto che tali diritti siano riconosciuti – con perfetto parallelismo - anche ai datori di lavoro finisce con l’accogliere, secondo alcuni commentatori, il diritto di serrata.

La conclusione non è forse così automatica, perché aver espressamente nominato soltanto lo sciopero e non la serrata potrebbe pure intendersi semplicemente come volontà di escludere la seconda, anche perché solo impropriamente quest’ultima può tradursi come sciopero del datore di lavoro.

Comunque la formulazione dell’art. 28 è sicuramente la meno felice della Carta perché lascia aperta la via anche all’interpretazione opposta, cioè quella che ammette il diritto di serrata, compresa quella offensiva, di ritorsione o pressione. Né credo che quest’ultima possa ritenersi esclusa dall’esplicito rinvio alla difesa di interessi collettivi, perché è un argomento letterale debole.

Ad ogni modo, se il risultato è quello di porre sciopero e serrata sullo stesso piano in una logica formalmente paritaria, è cosa storicamente discutibile e scientificamente inesatta da un punto di vista giuslavoristico.

Si è poi lamentato che l’art. 28 della Carta avrebbe degradato lo sciopero a mera questione corporativa. Potrebbe sembrare così ad una prima lettura. Ma il riferimento alla sola difesa dei propri interessi, lungi dal dover essere necessariamente inteso come volontà di ridurre l’azione sindacale a pura e semplice vicenda di categoria, può meglio spiegarsi con il fatto che la cornice di riferimento dell’art. 28 era, in partenza, quella del conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, sicché è apparsa consequenziale la successiva menzione dei relativi interessi.

In ogni caso, indipendentemente da quale fosse l’intento dei redattori, ancora una volta viene in aiuto l’interpretazione sistematica, perché i lavoratori che scioperano non per rivendicazioni salariali, ma per scopi più ampiamente politici e/o di solidarietà con altre categorie, sono pur sempre garantiti dagli artt. 11 e 12 rispettivamente sulla libertà di espressione e di riunione.

6 - Altro aspetto di rilievo è la specifica tutela apprestata in favore del minore e del “giovane ammesso al lavoro” di cui si parla nell’art. 32.2: alla tradizionale dicotomia di categorie lavorative minore/maggiore d’età si aggiunge quello che sembrerebbe un tertium genus o comunque una nuova figura soggettiva accanto ad altre che si rinvengono nella Carta [40] .

La protezione dei minori sul lavoro è già oggetto della direttiva 94/33 [41] : l’art. 32 ne riprende in sintesi i vincoli [42] , sembra anzi che li renda più rigidi, come nel caso del puro e semplice divieto di lavoro minorile [43] , cui aggiunge il divieto di sfruttamento economico del giovane, che non è altro che la specificazione, in ambito retributivo, del principio di non discriminazione per età già ribadito nel precedente art. 21.1, reso più urgente dall’esigenza di contrastare la crescente convinzione che soltanto una politica di bassi salari di ingresso nel mondo del lavoro possa favorire l’occupazione giovanile [44] .

Il richiamo all’occupazione giovanile e al divieto di discriminazione segnala forse una lacuna nella Carta: a mio avviso essa non ha sufficientemente posto l’accento anche sui lavoratori anziani - visti più come fruitori di assistenza che come attori di diritti – nonostante che la discriminazione per età ai danni di costoro sia l’altra faccia della medaglia dello sfruttamento economico dei giovani, nel senso che questo va di pari passo con l’emarginazione lavorativa degli anziani.

Eppure è noto il dramma del conflitto generazionale nell’accesso al lavoro in molti paesi europei: è infatti esperienza diffusa che le imprese tendono ad espellere i lavoratori “anziani” per sostituirli con quelli più giovani. E purtroppo per anziani non si intendono, in questa accezione, i lavoratori in procinto di andare in pensione, bensì – di frequente - persino gli ultraquarantenni.

Rispetto a questi ultimi i giovani sono contrattualmente più malleabili, perché sono agli inizi della propria carriera lavorativa, spesso non hanno vincoli familiari e sono ancora sforniti d’un preciso progetto di vita; di fatto sono più disposti ad accettare forme di lavoro precario. Invece i loro colleghi che hanno superato i 45 anni d’età sono spesso vittime di trasferimenti a lunga distanza che servono soltanto a piegarne la resistenza costringendoli alle dimissioni, tanto che per certe fasce d’età determinati contratti collettivi giustamente prevedono limiti particolari al trasferimento [45] .

Pertanto, così come l’art. 23 della Carta non si limita ad affermare la parità uomo/donna in tutti i campi (compresa la materia dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione), ma vi associa anche la possibilità delle così dette “azioni positive”, del pari sarebbe stato opportuno che analoga disposizione fosse stata ribadita per prevenire il conflitto tra giovani ed anziani che, ripeto, già ora costituisce uno dei più gravi drammi nel mondo del lavoro rispetto al quale mi sembra insufficiente la generica riaffermazione – contenuta nell’art. 21.1 – del divieto di ogni discriminazione, compresa quella per età: sarebbe stato meglio rimarcare l’obbligatorietà d’una concreta solidarietà generazionale.

7 - Connesso al tema dell’occupazione giovanile è quello del diritto alla formazione professionale e continua, sancito – fra l’altro – in favore di ogni individuo nell’art. 14.1 della Carta, nel capo relativo alla libertà. Si tratta d’un diritto che in ambito giuslavoristico acquista connotati particolari in funzione della sempre maggior flessibilità richiesta dalle imprese, con una ricaduta che non si limita al tema tradizionale dei permessi di studio, ma coinvolge soprattutto quello dell’attribuzione delle mansioni (sempre – s’intende - nel presupposto d’una valenza anche orizzontale del diritto).

Infatti, premesso che la vera formazione professionale continua ed aggiornata è soprattutto quella che si realizza all’interno dell’ambiente di lavoro e che essa serve a conservare concrete possibilità di impiego per il futuro, mi domando se per caso il lavoratore non possa pretendere di essere adibito a mansioni di contenuto sufficientemente vario da arricchirlo professionalmente. Altrimenti al danno gli si aggiungerebbe la beffa di sentirsi licenziare perché, magari dopo anni di mansioni sempre uguali, la sua professionalità è divenuta obsoleta.

Quanto meno il diritto alla formazione professionale e continua dovrebbe assicurare a tutti i dipendenti uguale accesso ad iniziative di aggiornamento organizzate in azienda.

8 - Eloquente è il diritto all’accesso gratuito al collocamento sancito dall’art. 29, principio che ha una duplice valenza perché destinato tanto al collocamento pubblico quanto a quello privato.

In ordine al primo, l’art. 29 della Carta si muove in sintonia col principio di libera circolazione dei lavoratori [46] .

In ordine al secondo, la gratuità dello stesso costituisce un’altra implicita ammissione della legittimità in ambito comunitario del lavoro temporaneo ovvero interinale, riconoscimento che in sostanza si aggiunge alla direttiva n. 96/71/CE del 16/12/96 [47] e che si colloca nel solco della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che con sentenza 11 dicembre 1997 [48] ha anche affermato che lo Stato membro che vietasse ogni attività di mediazione ed interposizione tra domanda ed offerta di lavoro che non sia svolta da uffici pubblici di collocamento finirebbe con il costringere questi ultimi a violare l’art. 86 del Trattato di Roma e, conseguentemente, lo Stato ne trasgredirebbe l’art. 90 n. 1.

Il principio secondo cui il costo dell’incontro fra domanda ed offerta di lavoro deve gravare in ultima battuta su soggetti diversi dal lavoratore comporta un effetto ulteriore, sempre nel caso del lavoro interinale: siccome il costo del servizio di intermediazione non può certo gravare neppure sull’impresa che lo fornisce professionalmente, esso non potrà che addossarsi all’impresa utilizzatrice senza che quest’ultima possa – a sua volta – scaricarlo sul lavoratore temporaneo diminuendone in misura corrispondente la retribuzione; diversamente, il collocamento privato finirebbe col non essere più gratuito per il lavoratore.

Logica conseguenza di ciò è che il lavoratore interinale non potrà essere retribuito meno del suo collega stabilmente occupato presso l’impresa utilizzatrice sol perché questa vuole rivalersi del costo del contratto di fornitura. In tal modo l’art. 29 della Carta finisce in sostanza con il recepire un principio di parità retributiva fra lavoratori temporanei e lavoratori stabili già conosciuto dalla legislazione di vari Paesi in tema di lavoro interinale [49] .

9 - La Carta è, poi, giustamente cauta sull’orario di lavoro, sui riposi e sulle ferie (art. 31.2), nel senso che interviene solo per ribadire genericamente il principio della durata massima della giornata lavorativa, del diritto a riposi giornalieri e settimanali e alle ferie annuali retribuite.

D’altronde, analoga prudenza si riscontra anche nella direttiva comunitaria n. 93/104 che – conformemente alla Convenzione O.I.L. n. 106/57 – disciplina solo indirettamente la durata massima della giornata lavorativa, attraverso il vincolo di 11 ore consecutive quotidiane di riposo minimo giornaliero [50] , con un periodo di pausa quando l’orario supera le 6 ore ed un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore per ogni 7 giorni. Quanto alle ferie annuali retribuite, esse sono fissate in un minimo di 4 settimane.

La Carta ha poi mantenuto totale riserbo sul tema dell’unità di tempo – giorno, settimana, mese o anno – per calcolare i limiti di durata della prestazione lavorativa, materia che non si presta a rigide codificazioni e che è una delle più esposte a cambiamento in forza del progresso tecnologico [51] .

Per questo motivo ben si comprende come l’art. 31.2 abbia preferito lasciare la strada aperta ad un’ampia elasticità nella distribuzione oraria della prestazione lavorativa, che resta affidata alla più rassicurante sede nazionale, legislativa o contrattuale.

10 - Non vi sono novità di rilievo sul diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti ad essere informati e consultati alle condizioni e nei casi previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali. La formulazione del principio generale non sembra apportare arricchimenti interpretativi alle varie direttive che disciplinano la partecipazione dei lavoratori sotto forma di diritti ad essere informati e consultati [52] .

Può soltanto osservarsi che la partecipazione dei lavoratori non ha una valenza politica univoca nei sistemi giuridici nazionali ed in quello comunitario, sicché i diritti di informazione continuano a mantenersi in una posizione equidistante fra la mera garanzia d’una contrattazione collettiva consapevole ed una possibile evoluzione verso forme di “codeterminazione” già conosciute in qualche Stato membro dell’Unione [53] .

                                                                                                       Antonio Manna                                                                             

 

[1] Il presente intervento costituisce il testo della relazione tenuta al convegno sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea organizzata da A.E.D. a Berlino, il 29.6.2001.

[2] Approvata il 7-9 dicembre 2001 dal Consiglio europeo.

[3] V. MANZELLA, Dal mercato ai diritti, in AA.VV., Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2001, pag. 42.

[4] Ciò è coerente con il titolo VIII del Trattato dell’Unione europea, che pone come obiettivo dell’Unione medesima la promozione d’un elevato livello di occupazione, cui il nuovo testo dell’art. 2 del Trattato della Comunità europea aggiunge anche quello d’un elevato livello di protezione sociale.

[5] Relativi alla dignità umana, alla libertà, all’uguaglianza, alla solidarietà, alla cittadinanza e alla giustizia.

[6] Per quest’ultimo v. risoluzioni del 16 marzo e del 14 novembre 2000: l’inserimento nei trattati per ciò solo collocherebbe la Carta tra le fonti di diritto comunitario primario.

[7] Si tratta del vecchio art. F, 2° comma, del Trattato istitutivo dell’Unione europea, ora art. 6, 2° comma, in virtù della nuova numerazione del Trattato UE di Amsterdam, secondo il quale l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto comunitario.

[8] Inoltre è stato utilizzato lo spunto contenuto nell’art. 215, 2° comma, del Trattato istitutivo della Comunità europea, ora art. 288, 2° comma, secondo la nuova numerazione conseguente alle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam. Esso costituisce la base giuridica pattizia per annoverare tra le fonti del diritto comunitario – cfr. KOENIG, HARATSCH, BONINI, Diritto europeo, Milano 2000, pag. 97 - anche i princìpi giuridici generali individuati come tali dalla Corte di giustizia della Comunità europea mediante una valutazione comparativa degli ordinamenti degli Stati membri che consenta di estrapolare norme giuridiche e princìpi fondamentali comuni che possano inserirsi nella struttura e nel novero degli scopi della Comunità. Il tutto, in virtù del principio di attribuzione, avviene nell’ambito delle competenze riconosciute alla CE. Alla base di tale iter logico-giuridico di estrapolazione condotto dalla Corte di giustizia vi è la convinzione che gli Stati membri siano propensi ad accettare come norma nelle relazioni reciproche quel che ognuno di essi già qualifica come tale nel proprio ordinamento interno.

[9] Peraltro ratificata da tutti gli Stati membri della Comunità.

[10] V. ad esempio sentenza National Panasonic, Racc. 1980, pagg. 2033, 2056 e ss., sulla tutela della sfera privata; sentenza Commissione c. Germania, Racc. 1989, pag. 1263, sul rispetto della vita familiare; sentenza Hauer, Racc. 1979, pag. 3727, sulla libertà professionale e sul diritto di proprietà; sentenza Casagrande, Racc. 1974, pag. 773, sulla dignità umana; sentenza Klöckner-Werke AG, Racc. 1962, pag. 653, sul principio di parità; sentenza Prais, Racc. 1976, pagg. 1589 - 1599, sulla libertà religiosa e confessionale; sentenza Commissione c. Repubblica federale di Germania, Racc. 1992, pag. 2575, sul segreto medico; sentenza Intern. Handelsgesellschaft, Racc. 1970, pagg. 1125, 1135 e ss., sulla libertà di commercio; sentenza Usinor, Racc. 1984, pag. 4177 e ss., sulla libertà economica; sentenza Johnston c. Chief Constable of the Royal Ulster Constabulary, Racc. 1986, pag. 1651 e ss., pag. 1682, nonché sentenza Pecastaing c. Belgio, Racc. 1980, pag. 691 e ss., pag. 716, sul diritto ad una tutela giudiziaria effettiva e a un processo corretto; sentenza Hoechst AG c. Commissione, Racc. 1989, pag. 2919, sull’inviolabilità del domicilio.

[11] D’altro canto, a Colonia nel giugno 1999 proprio il Consiglio europeo, nel conferire il mandato per l’elaborazione della Carta, aveva riaffermato che l’obbligo dell’Unione di rispettare i diritti fondamentali è ribadito e definito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (“La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. L’obbligo dell’Unione di rispettare i diritti fondamentali è confermato e definito dalla Corte di giustizia europea nella sua giurisprudenza. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”). In breve, anche il mandato di Colonia aveva rimarcato il principio secondo cui i diritti fondamentali veicolati attraverso la giurisprudenza della Corte hanno un proprio indiscutibile tasso di giuridicità, fermo restando che la giurisprudenza della Corte di giustizia viene vista come confermativa e non creativa dell’obbligo dell’Unione europea di rispettare i diritti fondamentali, pur avendo il compito di darne la definizione.

[12] MANZELLA, op. cit., pag. 50.

[13] Una volta che la Corte di giustizia affermasse che taluni princìpi contenuti nella Carta di Nizza derivano in via immediatamente precettiva dai Trattati come diritti fondamentali senz’altro vigenti, in futuro i giudici nazionali potrebbero verificare la possibilità dell’eventuale disapplicazione delle norme interne incompatibili; la cosa ovviamente dipende molto dai singoli ordinamenti statali e dalla loro costituzione. In Italia, per un caso di disapplicazione di direttiva comunitaria immediatamente efficace nei rapporti verticali cfr., ad es., Cass. 18/5/99 n. 4817, in Foro it., 1999, I, 2542, con nota di PALMIERI.

[14] Inoltre si aprirebbe la strada ad azioni di responsabilità che i privati potrebbe promuovere davanti al giudice nazionale contro il singolo Stato per il danno da loro sofferto come conseguenza diretta d’una norma interna incompatibile, analogamente a quanto avviene in caso di violazione sufficientemente caratterizzata d’una qualsiasi norma comunitaria primaria o secondaria destinata ad attribuire diritti ai singoli ed immediatamente efficace: infatti, è noto che il singolo Stato può incorrere in responsabilità anche nell’esercizio del proprio potere legislativo: v. ad es. Corte di giustizia, sentenza Francovich, Racc. 1991, p. I-5337, 5413 e ss., nonché sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, Racc. 1996, p. I-1029, 1150; in quest’ultima la Corte chiarisce, fra l’altro, che il giudice nazionale “non può, nell'ambito della normativa nazionale che esso applica, subordinare il risarcimento del danno all'esistenza di una condotta dolosa o colposa dell'organo statale alla quale è imputabile l'inadempimento, che vada oltre la violazione sufficientemente caratterizzata del diritto comunitario”, anche se poi suggerisce quali criteri di individuazione della violazione sufficientemente caratterizzata “il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l'ampiezza del potere discrezionale che tale norma consente alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l'inescusabilita di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un'istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all'omissione, all'adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario. Comunque sia, una violazione del diritto comunitario è grave e manifesta quando sia perdurata nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l'inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l'illegittimità del comportamento in questione”.

[15] Ad esempio, secondo l’art. 35 co. 2° della Costituzione italiana la Repubblica “cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”: si tratta di norma da tempo negletta, nel senso che non risulta che abbia avuto sviluppi particolari in giurisprudenza e che prefigura un’efficacia meramente verticale. Ma ora potrebbe essere rivitalizzata attraverso il richiamo all’art. 14.1 della Carta ed una diversa lettura del complesso normativo esistente in tema di formazione, anche al fine di verificare la possibilità d’una efficacia orizzontale. Continuando con gli esempi, se in un dato ordinamento vi sono frequenti norme che predispongono forme di assistenza abitativa – diretta od indiretta - a chi sia privo di risorse sufficienti, l’art. 34.3 della Carta può contribuire a far ritenere che in quel dato ordinamento il diritto ad ottenere la disponibilità d’un alloggio è un principio fondamentale ancorché non espressamente codificato.

[16] D’altronde, mentre i diritti alla sicurezza e all’assistenza sociale hanno come naturale interlocutore lo Stato, i diritti dei lavoratori vivono nell’ambito paritario proprio del rapporto di lavoro, anzi sono nati in un campo storicamente di rilevanza privatistica e che solo in progresso di tempo ha assunto valenze anche pubblicistiche.

[17] Quindi non sono ammesse interpretazioni peggiorative. In tal modo la Carta, in vista d’una propria futura effettività giuridica, realizza una sorta di self restraintallo scopo di prevenire utilizzi strumentali del principio di prevalenza della normativa comunitaria su quella nazionale.

[18] Realizzato dalle grandi imprese transnazionali.

[19] Le “maquiladoras” (dallo spagnolo “maquilar”, che indica l’attività del mugnaio che prende per sé una parte della farina macinata in cambio dell’uso del mulino concesso ai contadini) sono fabbriche che lavorano con contratti di subappalto per conto delle grandi imprese transnazionali. Le “maquiladoras”, nate negli anni ‘60 in Messico, si sono poi estese in tutto il Centro America, passando da attività produttive a scarso contenuto tecnologico e prevalentemente di mero imballaggio ad attività tecnologicamente più avanzate, ma ancora con utilizzo intensivo e non protetto della forza lavoro.

[20] Ciò accade malgrado il preambolo, che ricorda – cosa pur sempre inevitabile nell’ottica comunitaria - la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali e la libertà di stabilimento.

[21] Ciò in base all’art. 8 del Trattato di Roma (ora art. 7 secondo la nuova numerazione del Trattato della Comunità europea dopo Amsterdam) e al regolamento n. 1612/68.

[22] RODOTA’, La Carta come atto politico e documento giuridico, in AA.VV., Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2001, 76.

[23] Lo spunto è dall’art. 21.2,  che vieta discriminazioni basate sulla cittadinanza che non siano contenute nei trattati.

[24] Invece il successivo art. 35 – che più radicalmente adotta l’onnicomprensiva dizione “ogni individuo” – riconosce anche all’immigrato clandestino il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali

[25] In genere lo statuto dei pubblici dipendenti negli U.S.A. continua a soffrire d’uno storico divario rispetto al settore privato: cfr. ANDERMAN, in AA.VV., Diritto del lavoro e comunità, Padova 1990, 121 e ss.

[26] Il punto è sottolineato e ripreso da MANZELLA, op. cit., 33.

[27] Anch’essa riconosciuta sempre “conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

[28] Quanto sia antica e ricorrente l’esigenza di limitare il potere di licenziamento è testimoniato - ad esempio - dal proclama del 24 Piovoso (12 febbraio) 1799, con cui il Governo della Repubblica napoletana proibì i licenziamenti che non avvenissero se non per “forza maggiore”.

[29] La 75/129, modificata dalla 92/56, entrambe poi “codificate” dalla 98/59.

[30] Come, invece, recita l’art. 2.1 della Raccomandazione n. 119 del 1963 dell’OIL: “Nessun licenziamento dovrebbe avere luogo se non vi è un motivo valido di licenziamento collegato all’attitudine o al comportamento del lavoratore fondato sulle necessità di funzionamento dell’azienda, dello stabilimento o del servizio”.

[31] Il che è pacifico, visto il tenore letterale della direttiva, così come interpretato anche dalla Corte di giustizia nella sentenza Nielsen, in causa 284/83.

[32] Fino ad ora l’ordinamento comunitario, nell’occuparsi soltanto dei licenziamenti collettivi, si era prefisso come obiettivo primario quello di armonizzare le procedure di licenziamento in vista di riduzioni di personale in aziende operanti in più Paesi o di rendere quanto più possibile omogenee le procedure stesse, affinché sensibili diversità fra i vari ordinamenti nazionali non avessero negative ripercussioni sul mercato e sulla concorrenza, esigenza – questa – ritenuta insussistente rispetto ai licenziamenti individuali. Solo in seconda battuta le direttive sui licenziamenti collettivi si proponevano di attenuare le conseguenze sfavorevoli sui lavoratori mediante strumenti di protezione del reddito ed obblighi di consultazione diretti a far sì che il numero dei lavoratori licenziati fosse il più ridotto possibile.

[33] L’osservazione è di ARRIGO, Il diritto del lavoro nell’Unione europea, Milano, 2001, tomo II, 63, nota.

[34] Involuzioni che verrebbero scongiurate – sempre in caso di effettività giuridica della Carta - perché è ormai acquisita l’applicabilità della normativa comunitaria anche a fronte di norme posteriori emanate negli ordinamenti nazionali, esito raggiunto dalla Corte di giustizia europea e dalle Corti costituzionali di vari Stati membri. Tanto per fare l’esempio italiano, l’art. 30 della Carta impedirebbe il ritorno alla libertà di licenziamento che, prima del 1966, era praticamente la regola nel settore privato. Contrariamente a quanto ipotizzato da FERRAJOLI, in “Il Manifesto”, gennaio 2001, non avrebbe invece di per sé impedito il referendum della primavera 2000, poi invalidato per difetto del quorum di votanti, perché l’accoglimento del quesito avrebbe ridotto grandemente, ma non annullato, gli spazi di tutela.

[35] E’ chiaro, infatti, che l’esercizio del diritto dell’imprenditore di scegliere le modalità organizzative della propria impresa si rivelerebbe un mero abusivo pretesto se servisse soltanto a nascondere una volontà punitiva o discriminatoria nei confronti di determinati lavoratori. La cosa ovviamente non sarebbe consentita alla luce del diritto comunitario, anche grazie al generale divieto di discriminazione, peraltro già contenuto da tempo in varie fonti di diritto internazionale Contenuto, fra l’altro, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nelle Convenzioni O.I.L. nn. 111 e 117, nell’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nel Patto di New York 16-19 dicembre 1966, nell'art. 69 del Trattato istitutivo della C.E.C.A., nell'art. 119 del Trattato istitutivo della C.E.E. del 25 marzo 1957 (ora art. 141 della nuova numerazione del Trattato C.E.).

[36] A sua volta il divieto di abuso di diritto evoca di per sé l’intervento pretorio della Corte di giustizia, il che è perfettamente coerente con il rilievo che una Carta di valori non può che rinviare alla giurisprudenza – più che alla legge – per essere tradotta in concreto.

[37] Rimando a fonti in grado di ridurre entro certi limiti la portata del diritto.

[38] Se è vero che solo questi ultimi possono valutare in maniera adatta alle proprie tradizioni giuridiche e culturali il livello minimo di tutela compatibile con il rispetto di altri diritti di uguale peso, ma potenzialmente collidenti, non può però dimenticarsi che dalla Carta traspare la costante preoccupazione di assicurare ai diritti sociali la stessa dignità di quelli di natura economica, al punto che si è detto che con la Carta di Nizza l’Europa dei mercanti diventa anche l’Europa dei cittadini e del lavoratori. Ne consegue che in nessun caso al lavoratore si potrà riservare uno statuto manifestamente meno favorevole, per quanto riguarda l’entità minima del risarcimento, a quello d’un imprenditore o d’un consumatore che abbia sofferto danni per effetto della rottura ingiustificata d’un qualsiasi contratto di durata.

[39] La valenza innovativa dell’enunciato emerge se si pensa che esso si cala all’interno d’una visuale, come quella comunitaria, che per decenni è stata concentrata sul mercato e che, quindi, è naturalmente favorevole a che il livello del salario sia sempre e soltanto quello derivante dalla libera contrattazione e null’altro.

[40] Come - ad esempio - “le generazioni future” evocate nel preambolo.

[41] Tale direttiva si applica “a tutte le persone di età inferiore ai 18 anni che abbiano un contratto o un rapporto di lavoro”; essa vieta il lavoro dei bambini e, per i giovani, aggancia l’età minima per essere ammessi ad un impiego a quella in cui cessano gli obblighi scolastici imposti dalle legislazioni nazionali e, in ogni caso, ai 15 anni, con poche eccezioni che riguardano i minori che abbiano – a seconda dei casi - almeno 13 o 14 anni, che seguano un tirocinio nell’impresa, oppure che compiano lavori leggeri, di carattere culturale, sportivo, artistico o pubblicitario, sempre che non ne pregiudichino lo sviluppo e la formazione professionale.

[42] L’art. 32 parla anche di istruzione, salute e sicurezza, che sono diritti di tutti e non solo dei giovani ammessi al lavoro (vedi artt. 31.1, 14.1, 34 e 35), ed opera anche una puntualizzazione che serve semplicemente a ricordare le possibili specificità, in materia di sicurezza, della posizione del giovane, in quanto privo di adeguata esperienza e preparazione, specificità che era già riconosciuta – appunto - dalla direttiva 94/33.

[43] Continua a non chiarire, però, a quale precisa fascia d’età debba riferirsi il concetto di “giovane ammesso al lavoro”.

[44] Quindi, tutelare il diritto del giovane lavoratore a non veder compromessa la propria istruzione e le proprie potenzialità di crescita fisica, mentale, morale e sociale può rivelarsi incompatibile con l’estrema flessibilità nel lavoro che caratterizza le occasioni di impiego per i più giovani.

[45] In effetti in molti Paesi stiamo assistendo ad una massiccia discriminazione ai danni dei lavoratori più anziani che tende a sommarsi alla tradizionale discriminazione ai danni delle donne.

[46] Il Trattato di Roma (v. parte III, relativa alle politiche della comunità, titolo III, sulla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, capo I, art. 49) prevede – fra l’altro – che, nello stabilire mediante direttive o regolamenti le misure necessarie per attuare la libera circolazione dei lavoratori, vengano eliminate “quelle procedure e pratiche amministrative, come anche i termini per l'accesso agli impieghi disponibili, contemplati dalla legislazione interna ovvero da accordi conclusi in precedenza tra gli Stati membri, il cui mantenimento sarebbe d'ostacolo alla liberalizzazione dei movimenti dei lavoratori” e stabilisce, inoltre, che siano istituiti “meccanismi idonei a mettere in contatto le offerte e le domande di lavoro e a facilitarne l'equilibrio a condizione che evitino di compromettere gravemente il tenore di vita e il livello dell'occupazione nelle diverse regioni e industrie”.

[47] Per l’esattezza, quest’ultima è relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito d’una prestazione di servizi, ma al comma 19° del preambolo, nel precisare che la direttiva medesima, fatte salve altre disposizioni comunitarie, “non implica l'obbligo del riconoscimento giuridico dell'esistenza di imprese di lavoro temporaneo né osta all'applicazione, da parte degli Stati membri, della loro legislazione in materia di cessione temporanea di manodopera e di imprese di lavoro temporaneo presso imprese che non sono stabilite nel loro territorio, ma vi esercitano attività nel quadro di una prestazione di servizi”, finisce con il dare atto d’una realtà già molto diffusa negli Stati membri.

[48] Emessa in causa C-55/96 Job Centre Coop. a r.l. a seguito di questione pregiudiziale sollevata dalla Corte d’Appello di Milano con ordinanza 16 febbraio 1996, che può leggersi in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 278, con nota di RUCCI, Il nuovo rinvio alla Corte di giustizia della questione di monopolio statale italiano del collocamento e del divieto del lavoro interinale.

[49] Vedi ad es. in Italia l’art. 4 della legge n. 196/97.

[50] Sulla durata massima della giornata lavorativa in 13 ore, secondo la citata direttiva n. 93/104, v. – sia pure in termini dubitativi – ARRIGO, op. cit., 218.

[51] Inoltre una maggior durata della giornata di lavoro può dipendere non solo da necessità meramente produttive, ma anche dall’esigenza di garantire adeguati livelli di assistenza nel settore dei servizi.

[52] Basti ricordare le direttive n. 75/129 sui licenziamenti collettivi, n. 77/187 sul trasferimento d’azienda, n. 89/391 in tema miglioramento della sicurezza e della salute, o la direttiva n. 94/45 su informazione e consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie, la n. 91/533 sulle condizioni di lavoro e così via.

[53] Sul caso tedesco v. ARRIGO, op. cit., 322 e ss.