Le recenti modifiche legislative in materia di trasferimento d'azienda (di Lorenzo Franceschinis)

1) L’art.1 del nuovo D.Lgs. contiene le modifiche apportate all’art.2112 c.c. - 2) Le modifiche all’art. 47 L.428/90. - 3) Alcune riflessioni conclusive.

Il D.Lgs. 2 febbraio 2001 n.18 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.43 del 21/2/01), contenente l’“Attuazione della direttiva 98/50/Ce relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”, modifica in misura significativa l’impianto normativo contenuto nell’art.2112 del codice civile e nell’art.47 della legge 29/12/90 n.428 [1] .

In tal modo il legislatore italiano ha portato a compimento l’opera di complessiva revisione della disciplina codicistica in questa materia, già iniziata con l’art.47 della L.428/90 che costituiva attuazione della direttiva 77/187/Ce, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di azienda.

Il nuovo testo normativo entra in vigore a decorrere dall’1/7/2001.

L’art.1 del nuovo D.Lgs. contiene le modifiche apportate all’art.2112 c.c..

I primi due commi dell’articolo, che prevedono la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario con conservazione di tutti i diritti e l’obbligazione solidale del cedente e del cessionario per i crediti che il lavoratore aveva al momento della cessione, restano invariati, con la sola modifica, recepita nell’intero testo legislativo, dei termini in precedenza utilizzati di alienante e acquirente con quelli di cedente e cessionario. Tale modifica terminologica recepisce un orientamento ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza che ritiene configurabile la fattispecie di circolazione dell’azienda, ai fini che qui interessano, anche attraverso schemi negoziali diversi da quelli della cessione e dell’acquisto [2] .

Il 3° comma, che contiene la disciplina della successione dei contratti collettivi applicati presso il cedente e presso il cessionario, introduce invece un primo elemento di novità, volto a chiarire, ma solo in minima parte, alcuni dei dubbi che erano insorti nella giurisprudenza che si era occupata della previgente disciplina.. Fermo restando che il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario, la nuova norma si incarica infatti di chiarire che “l’effetto di sostituzione si produce esclusivamente tra contratti collettivi del medesimo livello”. Non è questa la sede per entrare nel merito delle divergenti opinioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa i limiti, le modalità e il momento in cui si produce l’effetto sostitutivo tra il contratto collettivo applicato presso la azienda cedente e quello applicato presso la cessionaria [3] . Va comunque osservato che, dalla nuova formulazione della norma, consegue quantomeno, in modo inequivocabile, che i lavoratori conservano tutti i trattamenti derivanti da accordi aziendali e/o territoriali applicati presso la azienda cedente anche qualora si applichi, presso la cessionaria, un nuovo e diverso contratto collettivo nazionale. Non si deve dimenticare infatti che questa ultima ipotesi è quella che più frequentemente si presenta nella realtà sindacale, allorquando l’impresa cessionaria ritenga di sostituire tutti i precedenti trattamenti collettivi, anche quelli aziendali, con il contratto nazionale dalla stessa applicato.

Viene poi introdotto un 4° comma all’art.2112, che ripete quanto prevedeva in precedenza il 4° comma dell’art.47 L.428/90 e cioè che il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. A tale disposizione viene aggiunta una norma nuova che dispone che “Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’art.2119, primo comma.”  Con questa norma il legislatore traspone nell’ordinamento interno una disposizione che era già contenuta nell’art.4, comma 2, della direttiva 77/187/Ce e che non era stata recepita dal legislatore del 1990 nell’art.47 della L.428/90. Gli effetti concreti di tale nuova disposizione saranno prevedibilmente assai scarsi, se non per i lavoratori al vertice della gerarchia aziendale che possono godere di cospicue indennità di preavviso nel caso di dimissioni per giusta causa.

Va evidenziato peraltro che il legislatore ha mancato di coraggio nella circostanza e ha lasciata irrisolta la questione circa la rilevanza del consenso dei singoli lavoratori affinché si produca il passaggio del loro rapporto di lavoro dal cedente al cessionario.

E’ noto infatti che si aperto negli ultimi anni un serrato dibattito dottrinale e, in parte, giurisprudenziale circa la rilevanza da attribuire al consenso del lavoratore ceduto affinché si perfezioni l’effetto traslativo del rapporto di lavoro dall’impresa cedente a quella cessionaria. Tale complesso dibattito ha trovato occasione di originarsi nel nostro paese solamente quando la norma fondamentale di tutela prevista dall’art.2112 c.c., e cioè il diritto del lavoratore alla prosecuzione del suo rapporto di lavoro con il cessionario nel caso di cessione di azienda (di tutta l’azienda, giacchè prima del D.Lgs. in commento non esisteva una nozione legislativa di “ramo” di azienda), è stata usata da molte aziende al fine di scorporare (o esternalizzare che dir si voglia) attività accessorie e complementari rispetto al cd. core business. Da qui si è originata l’iniziativa dei lavoratori ceduti (il casus assurto alla notorietà è quello Ansaldo [4] ) di opporsi al trasferimento del proprio rapporto di lavoro alle varie aziende cessionarie dei servizi accessori, che in molti casi non garantivano la possibilità di conservare il complesso dei precedenti diritti (spesso nemmeno quello alla stabilità del posto di lavoro), chiedendo di rimanere alle dipendenze della cedente.

E’ così venuta in rilievo una giurisprudenza comunitaria in precedenza poco conosciuta nel nostro paese, che afferma chiaramente che il diritto di opposizione del lavoratore alla cessione del suo contratto trova fondamento direttamente nella disposizione di cui all’art.3.1 della Direttiva, che “non osta a che un lavoratore decida di opporsi al trasferimento del suo contratto o rapporto e di non fruire quindi della tutela accordatagli dalla Direttiva” [5] ; in particolare, secondo il ragionamento della Corte, il lavoratore deve essere libero di scegliere il suo datore di lavoro e non può essere obbligato, in nome del rispetto dei suoi diritti fondamentali, a lavorare per un datore che non ha liberamente scelto.La sorte del rapporto di lavoro, rimasto in essere con il cedente, è rimessa, secondo i giudici comunitari, ai singoli ordinamenti degli stati membri. [6]

Di recente altro autorevole Autore [7] ha trovato “ripugnante” l’idea che il lavoratore non avrebbe diritto di parola nelle vicende circolatorie del suo rapporto di lavoro, paragonandolo a un sacco di carbone liberamente commerciabile.

Su tale problematica, che tocca principi e diritti di libertà fondamentali, il legislatore nulla ha affermato, lasciando quindi la questione al dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

L’art.1 del D.Lgs. in oggetto detta infine un nuovo comma 5° dell’art.2112 c.c., che si incarica, per la prima volta, di definire il concetto di trasferimento d’azienda e di introdurre la nozione legislativa di ramo d’azienda.

Il testo del nuovo 5° comma dell’art.2112 è il seguente: “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

La norma è complessa  ed in essa si percepisce l’eco del dibattito dottrinario e giurisprudenziale che ha coinvolto il giuslavorismo negli anni più recenti.

Un primo problema è quello relativo alla definizione del significato stesso di “trasferimento di azienda”, cioè a quando si verifichi la fattispecie prevista dalla norma e se in essa possa trovare collocazione anche il fenomeno, di rilevante attualità, dei passaggi dei pacchetti azionari di controllo. Scontata la sussistenza del fenomeno traslativo nel caso di accorpamenti o fusioni, è noto che dottrina e giurisprudenza, tranne isolate opinioni rese in riferimento alle clausole contrattuali che prevedono in favore dei dirigenti il diritto di recesso per giusta causa in caso di trasferimento di azienda [8] , sono concordi nell’escludere l’applicabilità della disciplina del trasferimento di azienda nel caso di semplice trasformazione del tipo societario o di circolazione dei pacchetti azionari di controllo, in quanto non verrebbe intaccata in questi casi la identità del soggetto societario.

La nuova disposizione parla di mutamento della titolarità e pare perciò ancora legata alla necessità del mutamento del soggetto titolare dell’impresa. Tuttavia è da notarsi che il successivo art.2 contiene un primo accenno legislativo, ai fini degli adempimenti comunicativi alle organizzazioni sindacali, della rilevanza del fenomeno del controllo societario. [9]

Un secondo aspetto della norma, connesso a quanto si diceva in relazione ai nuovi temini di cedente e cessionario in luogo dei precedenti alienante e acquirente, risiede nel fatto che la nuova formulazione non fa più esclusivo riferimento ad atti negoziali dai quali si origina il trasferimento di azienda o di ramo di azienda, ma a qualsiasi atto (“a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato”). Pare quindi accolta una nozione estensiva del campo di applicazione della normativa, già fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria, volta a ricomprendervi anche fenomeni traslativi che prescindono da un rapporto contrattuale diretto tra cedente e cessionario, come ad esempio il caso classico della successione di due aziende nella gestione di un appalto a favore di una terza azienda o del rientro nella azienda madre di un’attività precedentemente affidata in appalto o in gestione ad un diverso soggetto.

Il terzo e più rilevante aspetto investito dalla norma in commento è quello della definizione legislativa di azienda e di ramo di azienda, ai fini della applicabilità della normativa di tutela contenuta nell’art.2112 c.c. e nell’art.47 L.428/90.

Il legislatore è qui intervenuto opportunamente a fissare dei limiti all’abuso dell’istituto del trasferimento dei rami di azienda, attraverso il quale molte aziende in questi anni hanno fatto facendo passare delle vere e proprie riduzioni di personale. [10]

Come già si è accennato, lo strumento del trasferimento di azienda è stato abusato da alcune delle più grandi aziende (basti citare Fiat, Ansaldo, Olivetti) per liberarsi di interi settori collaterali di servizi (non solo i classici settori delle pulizie e della mensa, ma anche fotocopiatura, manutenzione impianti, giardinaggio, segreteria, gestione archivi e personale, centralini telefonici e altri simili) e di tutti gli addetti ai medesimi.

La parte imprenditoriale ha fatto leva, ai fini della legittimità di tali operazioni, su quella giurisprudenza comunitaria che, ai fini della estensione progressiva delle tutele dei lavoratori, ha dilatato la nozione di trasferimento di azienda sino a considerare tale anche il trasferimento di mere attività o servizi, a scarsissimo contenuto di beni materiali e con preponderanza netta della forza lavoro [11] .

La giurisprudenza che ha ritenuto di assecondare tali operazioni [12] ha ritenuto che non sia necessario che le attività oggetto della cessione abbiano una propria autonoma organizzazione imprenditoriale presso la cedente, potendo essere successivamente organizzate come tali dal cessionario. A questo orientamento si è opposta altra giurisprudenza che ha escluso che possa sussistere un legittimo trasferimento di ramo d’azienda in caso di cessione di meri servizi accessori e complementari [13] .

Il D.Lgs. in oggetto prende decisamente le parti di tale secondo orientamento e chiarisce che il trasferimento di azienda comporta il mutamento della titolarità “di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” e che la disciplina si applica anche al trasferimento di parte dell’azienda, purchè si tratti di una “articolazione autonoma di un’attività economica organizzata” e anch’essa “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

Con tale disposizione la legge ha dato ingresso al concetto di ramo di azienda, sino ad ora frutto di elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, ma ha chiarito, onde evitare operazioni sostanzialmente elusive della norma quali si erano determinate negli anni più recenti, che il ramo deve possedere una propria autonomia organizzativa già presso il cedente.

Altra novità di rilievo è costituita dalla precisazione circa l’applicabilità della normativa anche alle attività economiche senza fine di lucro e quindi oltre i confini tradizionali dell’azienda (associazioni, professionisti).

Da notarsi infine che da tutte le modifiche introdotte dal D.Lgs n.18/2001 in commento risulta indenne tutta la normativa relativa alle deroghe previste per  le aziende in stato di insolvenza e soggette a procedure concorsuali, che resta pertanto interamente in vigore nella sua formulazione dettata dall’art.47 L.428/90, permanendo quindi i noti problemi sui quali peraltro si rinvia ad altri autori. [14]

Le modifiche all’art. 47 L.428/90.

Altri rilevanti innovazioni sono state introdotte dal D.Lgs. n.18/2001 relativamente alla procedura di informazione e consultazione sindacale.

La nuova norma sostituisce i primi 4 commi dell’art.47 L.428/90, dei quali i primi due si riferivano propriamente alla procedura sindacale, che è stata fatta oggetto delle modifiche nel senso che si dirà, il terzo comma introduceva le originarie modifiche apportate dal legislatore del 1990 all’art.2112 c.c. e quindi non si rende più necessario in quanto l’intero testo dell’articolo in parola viene sostituito dall’art.1 del D.Lgs. sopra commentato e il quarto comma è stato accolto con modifiche nel nuovo testo dell’art.2112 e quindi si è reso anch’esso superfluo.

La normativa che disciplina la procedura sindacale in caso di cessione di azienda o di parti di azienda viene dunque dettata in quattro commi in luogo dei due precedenti.

Il 1° comma è quello maggiormente investito dalle modificazioni:

a)      Anche qui il legislatore introduce la nozione di cessione di “parte d’azienda”, estendendo anche a tale ipotesi l’obbligo di comunicazione per iscritto.

b)      Viene previsto un termine per le comunicazioni ai sindacati di venticinque giorni “prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente”. E’ evidente la decisiva importanza di questa modifica che obbliga l’azienda a far conoscere alle controparti sindacali il proprio progetto di cessione prima che lo stesso venga portato a compimento. La precedente norma prevedeva infatti un uguale termine preventivo riferito però al trasferimento di per sé e non al perfezionamento dell’atto dal quale il trasferimento stesso deriva.  Questo nuovo obbligo, la cui violazione costituisce condotta antisindacale ai sensi del successivo comma 3°, fornisce al sindacato la possibilità di operare, a tutela degli interessi propri e dei lavoratori coinvolti nelle vicende traslative, azioni preventive volte a condizionare i termini contrattuali della cessione d’azienda o di ramo d’azienda o a scongiurare la stessa, attraverso la prospettazione, anche nei confronti della promettente acquirente non ancora vincolata dal contratto di acquisto, di azioni di lotta sindacali o di vertenze giudiziarie. Ben diverso è trovarsi di fronte ad una cessione d’azienda già perfezionata e, come tale, di per sé ormai non più modificabile se non nei suoi risvolti sulle condizioni contrattuali dei dipendenti, rispetto invece alla possibilità di azione preventiva che scoraggi dall’inizio un’operazione non condivisa. Altro effetto rilevante dell’obbligo di comunicazione preventiva è che può darsi luogo ad una condotta antisindacale preesistente alla firma del contratto di cessione e quindi anche ad un ordine giudiziali di rimozione degli effetti della stessa, ai sensi dell’art.28 SL, che travolga ab origine l’efficacia dello stesso strumento contrattuale, contrariamente a quanto sino ad oggi ritenuto dalla maggioritaria dottrina. [15]

c)      I destinatari delle comunicazioni divengono le rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero le r.s.a. costituite a norma dell’art.19 SL, nonché i sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In mancanza delle predette rappresentanze aziendali, cioè Rsu e/o Rsa, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti, non più delle “associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, ma dei “sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi”. La nuova norma recepisce così, una fra le prime, le nuove strutture di rappresentanza aziendale denominate Rsu. La cosa desta qualche perplessità se si considera che le stesse trovano legittimazione unicamente in fonti negoziali [16] e che quindi, in attesa di un’organica disciplina legislativa sulla rappresentanza sindacale che è di là da venire, restano soggette al potere di revoca, di disdetta e di modifica delle parti stipulanti. Resta poi l’incertezza sottesa alla definizione dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi in assenza di qualsiasi criterio, anche solo giurisprudenziale, cui affidare la valutazione comparativa (più rappresentativi nelle singole aziende oggetto delle cessione oppure nell’intera categoria? E ci si riferisce alla categoria merceologica o a quale altra? I sindacati devono essere  comparativamente più rappresentativi in entrambe le categorie nei casi non infrequenti in cui la cedente e la cessionaria appartengano a rami categoriali distinti oppure basta la rappresentatività nella singola categoria di appartenza della cedente o della cessionaria?).

d)      L’informazione che deve essere contenuta nella comunicazione ha per oggetto, oltre a quanto prevedeva già la norma previgente e cioè i motivi del trasferimento, le sue conseguenze per i lavoratori e le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi, anche “la data o la data proposta del trasferimento”, in coerenza con l’obbligo, evidenziato al punto b che precede, di comunicare l’intenzione di cedere l’azienda o la parte di azienda prima che venga posto in essere qualsiasi strumento negoziale vincolante.

Il nuovo comma 2° non contiene modifiche sostanziali e ribadisce la tempistica della procedura di consultazione: richiesta scritta da parte sindacale di esame congiunto entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione aziendale di cui al primo comma; esperimento dell’esame congiunto entro sette giorni dalla richiesta con i sindacati richiedenti; esaurimento della consultazione qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.

Il 3° comma precisa che “il mancato rispetto, da parte del cedente o del cessionario, degli obblighi previsti dai commi 1 e 2 costituisce condotta antisindacale”. La condotta antisindacale si configura quindi per qualsiasi violazione degli obblighi procedurali e non più solamente in relazione al mancato rispetto dell’obbligo di esame congiunto. La modifica estende pertanto in modo esplicito la sanzione ex art.28 SL anche in relazione agli obblighi di informazione, che, divenendo oltretutto preventivi, assumono così una rilevanza centrale nell’operazione traslativa.

Il 4° comma, totalmente nuovo, prevede che: “Gli obblighi d’informazione e di esame congiunto previsti dal presente articolo devono essere assolti anche nel caso in cui la decisione relativa al trasferimento sia stata assunta da altra impresa controllante. La mancata trasmissione da parte di quest’ultima delle informazioni necessarie non giustifica l’inadempimento dei predetti obblighi.”

Tale ultima disposizione introduce nel testo legislativo il fenomeno del controllo societario pur se solamente ai fini di evitare che i meccanismi di controllo possano essere assunti a giustificazione di pratiche elusive degli obblighi di informazione e consultazione sindacale.

Alcune riflessioni conclusive.

Il D.Lgs. in commento si fa apprezzare per il suo sforzo, quasi sempre riuscito, di affrontare e risolvere i nodi lasciati irrisolti dalla precedente versione dell’art.47 L.428/90.

In particolare viene affrontata di petto la questione principale della definizione di cosa sia e debba intendersi per trasferimento di azienda e per trasferimento di ramo di azienda, accogliendo pienamente le critiche di parte sindacale nei confronti di interpretazioni talmente estensive di tali concetti da ritenere sussistente la fattispecie in ipotesi di totale rarefazione degli elementi materiali e organizzativi dell’azienda o del ramo di azienda. Si può certamente dire che il nuovo testo legislativo affossa definitivamente le operazioni di riduzione del personale addetto ad eterogenei servizi accessori realizzate abusivamente attraverso il ricorso al meccanismo della cessione di supposti rami aziendali. Solo per questo motivo, ma ve ne sono altri che sono stati messi in rilievo nel commento delle singole norme, il legislatore merita un plauso convinto.

Restano ancora problemi irrisolti di notevole rilevanza, sui quali il D.Lgs. sorvola, quale quello della necessità del consenso del singolo lavoratore ceduto ai fini del perfezionamento del passaggio del rapporto di lavoro dal cedente al cessionario o quello relativo ai meccanismi di successione dei contratti collettivi applicati che è stato risolto solo in parte, ma sarebbe stato chiedere troppo, dati i tempi, che tutti i problemi posti dal mondo sindacale, al fine di evitare che la normativa sui trasferimenti di azienda venga usata per fini diversi dalla tutela dei dipendenti, venissero affrontati e risolti esplicitamente a suo favore.

Lorenzo Franceschinis

 

[1] Il D.Lgs. n.18/2001 costituisce attuazione della delega attribuita al Governo con la L.526/99 (Legge comunitaria per l’anno 2000).

[2] V.Cass.3 giugno 1998, n.5466, in Mass.Giur.Lav., 1998, 635.

[3] Sul punto si rimanda a Castelvetri, Trattamenti normativi e contratti collettivi applicabili nel trasferimento di azienda, in Riv.Giur.Lav., 2000, II, 353, in nota fortemente critica a Cass.8.9.99 n.9545, che leggesi anche in Notiz.Giur.Lav. 1999, 675

[4] Sulla vicenda Ansaldo vedasi Pret.Milano 16.9.98 e Pret.Genova 22.10.98, entrambe in RIDL, 1999, II, 416, nota Corazza; Trib.Genova 10.9.99, in questa Rivista, 2000, 196.

[5] Corte di Giustizia 16.12.92, cause riunite 132/91, 138/91, 139/91, Katsikas v.Kostantinidis e Skreb e Schroll v.PCO Paetz & Co. Gmbh, in Racc., 1992, p.6577 ss.; nello stesso senso Corte di Giustizia 7.3.96, Merckx e Neuhuys v. Ford Motors Co. Belgium Sa, in Racc., 1996, pp.1253 ss e Corte di Giustizia 12.11.98, Europieces SA v. Sanders.

[6] Sul tema: P.O’Higgins, Il lavoro non è una merce. Un contributo irlandese al diritto del lavoro, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1996, pp.304 ss ; Scarpelli, «Esternalizzazione» e diritto del lavoro : il lavoratore non è una merce, ibidem, 1999, 491 ss; Aimo, Le garanzie individuali dei lavoratori (Dossier: Il trasferimento d’azienda fra diritto comunitario e diritto interno), in Riv.Giur.Lav., 1999, II, 839. In giurisprudenza, in senso conforme, si segnala Pret.Milano 14.5.99, in questa Rivista, 1999, 561, ampia nota adesiva di Chiusolo. Contra Pret.Ivrea 23.1.99, in questa Rivista, 1999, 154.

[7] Pera, Movimenti del capitale e libertà dei lavoratori, in RIDL, 2000, I, 461.

[8] Cfr.Cass.10.8.91 n.8671, in Foro it., 1991, I, 3031 ss.; Cass.6.6.91 n.6445, in Not.giur.lav., 1991, 636 ss.

[9] Sulle modifiche delle strutture societarie, le trasformazioni e i meccanismi di controllo, in relazione al problema dell’applicabilità della normativa di tutela dei lavoratori vedasi: Pelissero, L’Individuazione della fattispecie (Dossier: Il trasferimento d’azienda fra diritto comunitario e diritto interno), in Riv.Giur.Lav., 1999, II, 812 ss.

[10] In tal senso S.Ciucciovino, La nozione di “azienda trasferita” alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza interna e della disciplina comunitaria, in Arg.dir,lav., 1998, p.912.

[11] Cfr.Corte di Giustizia 11.3.97, causa 13/95, Suzen, in Racc., 1997, I, 1259 ss.

[12] V. Trib.Milano 29.9.99, in Lav.nella giur., 2000, II, 172.

[13] Trib.Genova 10.9.99 cit.; nello stesso senso anche la Corte di Cassazione di Parigi 18.7.2000 in un giudizio promosso contro la Vittel Perrier, in Liaisons Sociales, Venerdì 21.7.2000. V. anche articolo “Bollicine fatte in casa”, Il Manifesto, martedì 25.7.2000, p.8.

[14] Vedasi sempre il contributo di Pelissero, cit., 829 ss.

[15] Sul tema: Izzi, La dimensione collettiva della tutela (Dossier: Il trasferimento d’azienda fra diritto comunitario e diritto interno), in Riv.Giur.Lav., 1999, II, 895 ss.

[16] In particolare nell’Accordo Interconfederale del 20.12.93, che ha dato attuazione al Protocollo di Intesa tra Governo e Parti sociali del 27.7.93.