Riflessioni su alcune questioni controverse nel processo del lavoro (di Angela Perrino)

A) Questioni controverse in tema di rito e competenza.
1.-La determinazione della competenza. 2.-Alcuni casi controversi di determinazione della competenza. 2.a-Il caso riguardante i soci delle cooperative. 2.b-Il caso riguardante gli amministratori delle società. 2.c-L’ipotesi dell’opposizione agli atti esecutivi in materia di lavoro. 2.d-Procedure concorsuali e controversie di lavoro.3.-La competenza per territorio nel processo del lavoro.

B) Il ricorso e la memoria: in particolare, il sistema delle preclusioni relative alle allegazioni delle parti negli atti introduttivi.
1.-Il contenuto del ricorso: raffronto tra l’art. 163 e l’art. 414 c.p.c. 1.a-Nullità del ricorso e possibilità di sanatoria. 2.-La costituzione del convenuto. 2.a-Il contenuto della memoria. In particolare, latitudine del principio di non contestazione. 2.b-Mere difese ed eccezioni. In particolare, il regime delle eccezioni in senso lato. 2.c-Eccezioni in senso lato ed eccezioni in senso stretto: possibili revisioni della distinzione tradizionale e ripercussioni in giurisprudenza. 2.d-La proposizione della domanda riconvenzionale.

C) Le preclusioni istruttorie ed i poteri ufficiosi del giudice.
1.-Orientamenti giurisprudenziali relativi alla prova testimoniale ed alla produzione documentale. 2.-I poteri istruttori del giudice: limiti di applicabilità. 3.-Poteri istruttori del giudice e posizione delle parti. 4.-Poteri di iniziativa officiosa di carattere specifico.

D) Le ordinanze di condanna.

E) La pronuncia della sentenza.
1a.-Ipotesi dell’omessa lettura del dispositivo in udienza. 1b.-Ipotesi di contrasto tra dispositivo letto in udienza e quello della sentenza depositata. 1c.-Ipotesi di inosservanza del termine di legge per il deposito della sentenza: l’esecutorietà del dispositivo. 3.-L’efficacia della sentenza.

 

A) QUESTIONI CONTROVERSE IN TEMA DI RITO E COMPETENZA.

Scorrendo i repertori di giurisprudenza degli ultimi anni, è agevole rilevare che alcuni degli orientamenti tradizionali in tema di rito e di competenza, radicati soprattutto nella giurisprudenza di legittimità, vengono oggi gradualmente scossi da pronunce innovative, che hanno rinfocolato le discussioni dottrinali e la vivacità delle pronunce di merito. Cercherò quindi, sia pure senza pretese di completezza, di fornire una breve rassegna delle novità maggiormente significative.

1.-La determinazione della competenza.
Anche per il processo del lavoro valgono le regole generali enunciate dalla Suprema Corte ai fini della determinazione della competenza (in particolare, della competenza per materia), in applicazione analogica sia dell’art. 386 c.p.c., dettato in tema di determinazione della giurisdizione, sia dell’art. 38, ultimo comma, c.p.c., che indica a fondamento del giudizio sulla competenza <<quello che risulta dagli atti>>. Dunque, in sintesi:
a)  
preminente, anche se non esclusivo, rilievo, ai fini della determinazione della competenza, va conferito all’oggetto della domanda proposta dall’attore ed ai fatti dedotti a suo sostegno, ossia al c.d. petitum sostanziale;
b)          
le contestazioni e le eccezioni del convenuto possono costituire fonte complementare di convincimento, ma non possono fondare l’individuazione di una competenza diversa da quella compiutamente ravvisabile in base al petitum sostanziale della domanda proposta dall’attore [1] ;
c)          
il giudice può assumere <<sommarie informazioni>> soltanto quando ciò appaia strettamente necessario ai fini della decisione che deve essere emessa sulla competenza, poiché l’indagine, di norma, va compiuta <<in base a quello che risulta dagli atti>>, sulla base, quindi, dei fatti dedotti e dei documenti esibiti in giudizio;
d)          
la decisione sulla competenza va compiuta non in base all’interpretazione dei fatti fornita dall’attore, ma, analogamente alle decisioni sulla giurisdizione, tenendo conto della reale consistenza della posizione soggettiva dedotta o della materia alla quale inerisce. Questi principi generali vanno integrati dalla consolidata interpretazione “ampia” della nozione di controversia assoggettata al procedimento di lavoro; è infatti opinione comune che per controversia relativa a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 409 n. 1 c.p.c., devono intendersi non solo quelle relative ad obblighi caratteristici del rapporto di lavoro, ma anche quelle per le quali la pretesa fatta valere si colleghi direttamente a detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la causa petendi della pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, non meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale [2] .Va, peraltro, rilevato che la rilevanza delle questioni relativa alla ripartizione della competenza ratione materiae è destinata a scemare per effetto dell’entrata in vigore della disciplina sul giudice unico di primo grado.
A tal fine, va ricordato che costituiscono ormai ius receptum i seguenti due principi, che potranno trovare applicazione per le sezioni distaccate dei tribunali e per il tribunale in composizione monocratica:
1)
sui rapporti tra pretura e sezioni distaccate, l’ufficio giudiziario competente è esclusivamente la pretura circondariale, costituendo le sezioni distaccate articolazioni dell’ufficio prive di autonomia funzionale [3] ;
2)
il provvedimento di trasformazione di rito non attiene alla competenza e, in conseguenza, non può essere impugnato con regolamento di competenza [4] .

2.-Alcuni casi controversi di determinazione di competenza.
2.a
- Il caso riguardante i soci di cooperative.La giurisprudenza di legittimità, dopo la pronuncia n. 5813 emanata dalle sezioni unite il 28 dicembre 1989, ha a lungo condiviso l’indirizzo secondo cui, nell’ipotesi di attività lavorativa prestata dai soci delle cooperative di produzione e lavoro, le prestazioni del socio, che si svolgano in conformità alle previsioni del patto sociale ed in relazione alle finalità istituzionali della società, integrano un adempimento del contratto societario per l’esercizio in comune dell’impresa e non sono, quindi, riconducibili a due distinti centri d’interesse: ne consegue che la relativa controversia esula dalla competenza del giudice del lavoro, spettando alla cognizione del giudice in sede ordinaria [5] . Questa interpretazione ha ricevuto l’autorevole avallo di Corte cost. 12 febbraio 1996, n. 30, che, nel ritenere non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, l. 29 maggio 1982, n. 297, nella parte in cui non prevede la tutela del fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto anche in favore dei soci di cooperative di produzione e lavoro, ai quali il diritto a tale trattamento sia attribuito dall’atto costitutivo della società o da una delibera successiva di modificazione del medesimo, ha escluso che la prestazione resa dal socio lavoratore di una cooperativa di produzione e lavoro sia connotata da subordinazione. Ciò in quanto il socio è partecipe dello scopo dell’impresa collettiva ed è titolare di poteri e di diritti di concorrere alla formazione della volontà della società e di controllo sulla gestione sociale, assumendo, in conseguenza, una quota del rischio d’impresa.Altra parte della giurisprudenza, soprattutto di merito, considerando l'evoluzione della realtà cooperativa, ha segnalato l'esigenza di realizzare qualche integrazione fra il profilo societario e quello lavoristico. Sono così venuti individuandosi due differenti filoni: il primo ha indagato lo "sviamento del fine mutualistico", valorizzando il <<modello di lavoro in concreto prescelto>> dall'impresa sociale [6] ; il secondo configura il rapporto di lavoro cooperativo come rapporto di lavoro speciale, caratterizzato dalla coesistenza di due distinte cause contrattuali (quella del contratto di società cooperativa e quella di lavoro subordinato), le quali nel loro insieme descrivono la posizione normativa del socio lavoratore [7] .Va osservato che il fenomeno cooperativo si scompone giuridicamente in una duplicità di rapporti: c'è, da un lato, il rapporto di società, oggetto del quale è -come in ogni società, anche lucrativa- l'esercizio in comune, mediante i conferimenti dei soci, di un'attività imprenditoriale; c'è, dall'altro lato, una molteplicità di rapporti di scambio, che si instaurano  tra la cooperativa ed i singoli soci e che consistono, a seconda dello specifico oggetto della cooperativa, in rapporti di compravendita o di lavoro o di credito o di assicurazione ecc. L'impresa viene esercitata al fine di offrire ai soci più vantaggiose occasioni di acquisto, o di lavoro, ecc. Ma la fruizione da parte dei singoli soci di queste più vantaggiose occasioni non si realizza sulla base del rapporto sociale ed in dipendenza del conferimento da essi effettuato: essa richiede la creazione di rapporti contrattuali ulteriori rispetto al contratto di società cooperativa, con i quali i soci effettuano un esborso ulteriore rispetto al conferimento in società e valutabile come prezzo del bene o del servizio. Anche nel caso delle cooperative di lavoro, dunque, i soci lavoratori effettuano a titolo di lavoro subordinato prestazioni ulteriori rispetto al conferimento. D’altronde, sul piano legislativo è ravvisabile un continuo processo di  assimilazione del socio-cooperatore al lavoratore subordinato, per quanto riguarda il trattamento fiscale (art. 47, lett. a, d.P.R. 29 settembre 1973, n° 597), la tutela antinfortunistica (art. 4, n° 7, d.P.R. 30 giugno 1965, n° 1124), il profilo previdenziale (d.P.R. 30 aprile 1970, n° 602), il diritto agli assegni familiari (art. 1 d.P.R. 30 giugno 1955, n° 797), la durata massima della giornata di lavoro (art. 2 r.d. 23/1995), la tutela delle lavoratrici madri (art. 1 legge n° 1204 del 1971), l’obbligo di consegna del prospetto paga all’atto della corresponsione delle retribuzioni (art. 1 l. 4/35). Primaria importanza assume in tale processo l'art. 8 della legge n° 236 del 1993, che ha esteso le disposizioni degli artt. 1,4 e 24 della legge n° 223 del 1991 anche ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro, in tal modo confermando che non esiste alcuna ontologica distinzione tra subordinazione e lavoro cooperativo. Da ultimo, il 3° comma dell’art. 24 della legge n. 196 del 1997 ha equiparato la perdita dello status di socio ad iniziativa della cooperativa (ivi compreso il caso dello scioglimento della società) e il recesso da parte del socio, rispettivamente, al licenziamento o alle dimissioni del lavoratore. Ne consegue l’estensione in favore dei soci lavoratori della possibilità di accedere al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ex art. 2 l. 297/1982 e del diritto alla garanzia dei crediti maturati negli ultimi tre mesi di lavoro, ai sensi degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 80/92 di attuazione della direttiva Cee in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Inoltre, la legge 196/97 ha riconosciuto ai soci di cooperativa di lavoro anche la fruibilità dell’integrazione salariale ordinaria, con conseguente soggezione all’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria nonché esteso loro l’indennità di mobilità ed il trattamento speciale di disoccupazione edile.Di recente, Cass. n. 4462 del 26 maggio 1997 ha affermato che la controversia fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle che il patto sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientra nella competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui essa trae origine, pur essendo associativo e non di lavoro subordinato, è comunque equiparabile ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. La sentenza ha sostenuto che alla graduale applicazione al socio cooperatore della tutela sostanziale propria del lavoratore subordinato debba corrispondere un’analoga estensione della tutela processuale [8] .
2.b- Il caso riguardante gli amministratori di società.Con la pronuncia n. 10680 resa dalle sezioni unite il 14 dicembre 1994, la Suprema Corte, risolvendo un precedente contrasto manifestatosi nelle sezioni semplici, ha stabilito che la controversia tra una società di capitali ed il proprio amministratore, nella specie riguardante il rimborso di spese a quest’ultimo spettante in relazione all’incarico svolto, rientra nella previsione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ed è quindi attratta nella sfera di competenza del pretore quale giudice del lavoro.
Tale enunciato si articola in quattro essenziali proposizioni:
a)
l’esistenza di un rapporto organico, in virtù del quale l’amministratore impersona la società all’esterno, non esclude la configurabilità, nei rapporti interni, di un vincolo di natura obbligatoria tra il medesimo amministratore e l’ente da lui gestito, né la conseguente distinzione, in quest’ambito, di due centri d’interesse contrapposti facenti rispettivamente capo alle parti di tale ultimo rapporto;
b)
l’attività che l’amministratore è tenuto a prestare in favore della società presenta i caratteri della personalità, della continuazione e della coordinazione, e quindi rientra nella previsione dell’art. 409;
c)
la circostanza che tale attività sia finalizzata al conseguimento dello scopo sociale, ed abbia perciò contenuto imprenditoriale, non impedisce di ritenerla parasubordinata, non foss’altro perché un analogo contenuto è ravvisabile anche nell’attività dell’institore, il quale certamente opera in posizione di lavoratore subordinato;
d)
la difficoltà di ipotizzare una situazione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della società non vale ad escludere il carattere di parasubordinazione, perché l’indicata situazione di debolezza non costituisce un presupposto di applicabilità della disciplina processuale delle controversie di lavoro. La giurisprudenza di merito, peraltro, si è recentemente discostata da tale dictum, sottoponendo a serrata critica le ultime tre proposizioni surriferite. In particolare, ritenendo che l’attività parasubordinata debba apparire soggetta ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato, se ne è dedotto che il rapporto da cui gli amministratori sono legati alla società non è parasubordinato, perché l’attività che essi svolgono non è coordinata da altri che loro stessi [9] . Di recente, anche la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che la domanda dell’amministratore avente ad oggetto l’accertamento dell’inesistenza di una giusta causa di revoca della nomina del consiglio di amministrazione di una società, con conseguente domanda risarcitoria, esula alla competenza del giudice del lavoro, atteso che si risolve in una censura di una delibera societaria e prescinde del tutto dal rapporto di lavoro in base al quale l’amministratore si obbliga a svolgere detta attività [10] .
2.c-
L’ipotesi dell’opposizione agli atti esecutivi in materia di lavoro.

La Corte di Cassazione ha per lungo tempo sostenuto che, ai sensi dell’art. 618 bis c.p.c., nelle esecuzioni forzate instaurate in base a titoli esecutivi costituiti da provvedimenti giurisdizionali emessi dal giudice del lavoro, le opposizioni all’esecuzione ed agli atti esecutivi, proposte a norma degli artt. 615 e 617 c.p.c., rientrano nella competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro e ciò in considerazione dell’origine del credito e della natura della relativa causa, restando salva la competenza del giudice dell’esecuzione soltanto nella prima fase del processo, qualora l’opposizione sia proposta dopo l’inizio dell’esecuzione forzata, con ricorso a quel giudice [11] . In contrario, si è di recente affermato, traendo argomento dall’art. 27, 2° comma, c.p.c. –secondo cui per le cause di opposizione a singoli atti esecutivi è competente il giudice davanti al quale si svolge l’esecuzione- nonché dalla locuzione <<in quanto applicabili>>, contenuta nell’art. 618 bis, primo comma, c.p.c., che le opposizioni agli atti esecutivi, proposte quando è già iniziata l’esecuzione ai sensi del secondo comma dell’art. 617 c.p.c., rientrano nella competenza del giudice dell’esecuzione, espressamente fatta salva dal secondo comma dell’art. 618 bis; si è al riguardo precisato che tale norma non concerne soltanto la prima fase del processo, ma si estende anche alla cognizione del merito dell’opposizione fino alla pronuncia della sentenza, prevista dal secondo comma dell’art. 618 c.p.c., con esclusione, quindi, della competenza del giudice del lavoro. Ciò a differenza dell’opposizione all’esecuzione che, ove l’opposizione sia già iniziata, ricade nella competenza del giudice dell’esecuzione limitatamente alla prima fase, mentre, per la cognizione del merito, la causa va rimessa al giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 616 c.p.c. [12]
2.d-
Procedure concorsuali e controversie di lavoro.Costituisce opinione consolidata della giurisprudenza di legittimità l’affermazione della competenza del giudice fallimentare in tutti i casi in cui dalla domanda proposta discendano effetti patrimoniali.Di recente, la Suprema Corte ha circoscritto la portata di tale principio, affermando che la vis attractiva prevista dall’art. 24 della legge fallimentare –secondo cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, anche se relative a rapporti di lavoro, eccettuate le azioni reali immobiliari- non opera per le azioni che sono già nel patrimonio del fallito e che sono in rapporto di mera occasionalità col fallimento, a meno che non si tratti di azioni che, per effetto del fallimento, abbiano subito deviazioni dal loro schema legale tipico, ivi comprese quelle derivanti dalla disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, che incidono sulla procedura fallimentare per effetto della particolare disciplina dettata dagli artt. 72 e seguenti della legge fallimentare [13] . Rimangono in ogni caso attribuite alla competenza del giudice del lavoro l’azione diretta alla declaratoria di inefficacia del licenziamento adottato dal curatore fallimentare in violazione della procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991 nonché le domande di accertamento della legittimità del licenziamento individuale.

3.- La competenza per territorio nel processo del lavoro.La Corte di Cassazione, con un indirizzo che si è andato affermando a lungo nel tempo, era stata ferma nel sostenere che, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., si doveva fare riferimento, oltre che al foro del contratto, al foro dell’azienda ed a quello della dipendenza, fori tra loro alternativi e concorrenti, fra i quali non è compreso quello dello svolgimento dell’attività lavorativa [14] .Questo indirizzo è stato disatteso da due sentenze della Corte, la n. 2618 del 25 marzo 1996 e la n. 4683 del 27 maggio 1997, nelle quali si è asserito che l’art. 413, secondo comma c.p.c., prevede soltanto due fori speciali ed esclusivi, tra loro alternativamente concorrenti, rappresentati il primo dal foro del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro ed il secondo dal foro del luogo in cui si trova l’azienda (in ipotesi di controversia riguardante lavoratore addetto alla sede principale di questa alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto) ovvero di quello in cui si trova la dipendenza aziendale (nell’ipotesi di controversia riguardante lavoratore addetto a tale dipendenza alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto), senza che la parte istante possa considerarsi libera di optare per il foro dell’azienda o per quello della dipendenza: ciò in quanto la cognizione della controversia appartiene al giudice del luogo della prestazione di lavoro, ove questo coincida con il luogo della sede principale o di una dipendenza aziendale. Il ragionamento della Corte poggia su tre argomenti: il dato testuale, l’argomento logico sistematico e quello teleologico. Anzitutto, la Corte rileva che il legislatore, nell’elencare i fori alternativamente competenti, adopera la congiunzione <<ovvero>> per contrapporre al forum contractus quello dell’azienda <<o>> della sua dipendenza. La Corte medesima, peraltro, rileva che <<la dictio legis di per sè non impedisce aprioristicamente nè l’una nè l’altra lettura>>. A tanto va aggiunto che la particella <> ha valore senz’altro disgiuntivo e non coordinante; in altri termini, essa sembra distinguere il foro dell’azienda da quello della dipendenza, anziché coordinare due fattispecie afferenti al medesimo foro.  Sotto il profilo logico-sistematico, la Corte sottolinea che non avrebbe senso la persistenza semestrale del foro della trasferita sede principale nel caso di lite riguardante un lavoratore addetto alla dipendenza. Aggiunge che milita in favore della tesi la disciplina della competenza territoriale nelle controversie individuali attinenti a rapporti di parasubordinazione prevista dalla legge 11 febbraio 1992, n° 128, che ha introdotto nel testo dell’art. 413 c.p.c. il nuovo 4° comma. Va, peraltro, osservato che la persistenza semestrale richiamata dalla Corte, anche se riferita disgiuntamente al foro dell’azienda ed a quello della dipendenza, risponde all’indubbia esigenza di garantire al ricorrente una più ampia scelta tra i fori alternativi, che si riverbera a vantaggio del lavoratore, di norma ricorrente. La disposizione contenuta nel nuovo 4° comma dell’art. 413 c.p.c., poi, si è resa necessaria in quanto, per la prevalente opinione, precedente alla legge n° 128 del 1992, il criterio di collegamento della dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la propria opera al momento della fine del rapporto non era applicabile all’ipotesi di agenti, autonomi imprenditori, i quali non sono addetti nè prestano la propria opera alle dipendenze del datore di lavoro. La previsione del legislatore, quindi, che disciplina una specifica fattispecie, non pare utilmente richiamabile a conforto della tesi proposta con riguardo ad ipotesi generali. Infine, con riguardo alla ratio, ispirata al principio della maggior tutela del lavoratore, la Corte stessa dà conto del fatto che il dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 413, 2° comma, c.p.c., sotto il profilo che esso permette al datore di lavoro la scelta del foro del contratto o del foro dell’azienda ancorché il lavoratore sia addetto a dipendenza aziendale, è stato ritenuto infondato dalla Corte costituzionale, con sentenza 23 maggio 1991, n° 5797, in termini con la pronuncia 13 marzo 1974, n° 62 concernente l’analogo disposto dell’art. 434 c.p.c. nel testo anteriore alla riforma processuale.  In definitiva, la tesi in esame, argomentando dalla ratio della norma, finisce con l’integrare, con disposizioni aggiuntive, il testo della disposizione: si confronti il punto della sentenza in questione, ove si legge che l’art. 413 c.p.c. va interpretato <<nel senso di ravvisare la competenza del foro dell’azienda allorché il lavoratore sia addetto alla sede principale di essa (o vi abbia prestato la sua opera all’epoca di cessazione del rapporto), e invece la competenza del foro della dipendenza (ovviamente sempre in concorso con quella del forum contractus) allorché il lavoratore sia addetto alla dipendenza aziendale (o lo sia stato contestualmente all’estinzione della locatio operarum)>>.Va segnalato che le pronunce più recenti della Corte di Cassazione hanno ribadito che i fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, sono tre, senza che gli ultimi due possano intendersi compendiati unitariamente in quello di svolgimento della prestazione lavorativa e senza che sia dato argomentare diversamente, né in base al disposto della legge 11 febbraio 1992, n. 128, né in base a quello dell’art. 40 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 per le controversie relative al pubblico impiego, attese le peculiarità delle situazioni ivi regolate, alla cui stregua sono altresì da escludere dubbi di illegittimità costituzionale del sistema [15] .Infine, con riguardo al rilievo dell’incompetenza territoriale, va rilevato che la Corte di Cassazione, con giurisprudenza pressoché costante, ha stabilito che la norma di cui al primo comma dell’art. 428 c.p.c., relativa al rilievo d’ufficio dell’incompetenza per territorio, deve essere interpretata in senso non rigoroso, nel senso, cioè, che il giudice ben può rilevare d’ufficio l’incompetenza anche in un momento successivo alla prima udienza di discussione, fino al momento in cui, attraverso l’interrogatorio libero delle parti ed il tentativo di conciliazione, non fosse stato delimitato l’oggetto della controversia; in particolare, si è precisato che il potere del giudice è da considerarsi precluso solo dall’adozione di provvedimenti relativi all’istruzione della causa [16] . A seguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 38 c.p.c., la Cassazione ha sottoposto a revisione critica tale indirizzo, affermando il principio secondo cui, nelle controversie di lavoro e previdenziali, l’incompetenza territoriale del giudice adito può essere rilevata dal giudice non oltre il termine perentorio dell’udienza fissata in base all’art. 415 [17] . La questione, peraltro, necessita di ulteriore approfondimento, soprattutto in considerazione della distinzione, nel rito ordinario, tra udienza di comparizione e udienza di trattazione. Va, infine, segnalato che il pretore di Roma, con ordinanza del 7 gennaio 1998, in Not.giur.lav. 1998, p. 96, ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 413, 4° comma, in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che al giudice nella cui circoscrizione si trova il suo domicilio possa far ricorso anche il lavoratore subordinato che esplichi la sua attività al di fuori della sede dell’azienda ovvero di una dipendenza di essa.