La riforma delle dimissioni per giusta causa (di Mario Fezzi)

Nel passato recente sono stati pubblicati degli articoli in favore di un intervento legislativo di modifica dell'art. 2119 del codice civile. Gli autori, pur muovendo da considerazioni diverse e nell'ambito di scenari differenti, ritenevano necessario procedere a una riforma dell'istituto delle dimissioni, in particolare di quelle per giusta causa (1). Franceschinis muove dalla premessa della difficoltà e spesso dell'impossibilità di tutela dei diritti dei lavoratori, determinata dall'incoercibilità degli ordini emessi dall'autorità giudiziaria.  A ciò si aggiunge l'abuso del diritto sovente posto in essere dai datori di lavoro, che si traduce in molti casi in vessazioni e angherie in danno dei lavoratori subordinati, per costringerli alle dimissioni o comunque per render loro insopportabile la prosecuzione del rapporto di lavoro.  Da tali considerazioni Franceschinis trae la conclusione della necessità di una modifica dell'art. 2119 c.c., nel senso di riconoscere al lavoratore dipendente, nel caso di comportamenti colpevoli del datore di lavoro, la possibilità di dimettersi per giusta causa, ottenendo il pagamento non solo della modesta cifra oggi prevista, corrispondente all'indennità sostitutiva del preavviso, ma anche di una cifra forfetizzata, a titolo di risarcimento del danno, nella misura di 15 mensilità (cioè nella stessa misura già legislativamente prevista dall'art. 1 L. 108/90, per la rinuncia alla reintegrazione, nel caso di licenziamento riconosciuto illegittimo). Tale soluzione avrebbe il pregio di fungere innanzitutto da deterrente nei confronti del datore di lavoro, nei casi di ripetuto e insistito abuso del diritto, che non arrivi tuttavia a tradursi in comportamenti giuridicamente giustiziabili.  In secondo luogo riporterebbe su un piano di parità sostanziale le parti contraenti il rapporto di lavoro, in tema di risoluzione del rapporto. Davanti a comportamenti illegittimi del lavoratore, il datore di lavoro ha, infatti, la possibilità di recedere dal contratto per Giusta causa o per Giustificato motivo; all'inverso tale possibilità non è concretamente esercitabile da parte dei lavoratore, che, a fronte di comportamenti datoriali illegittimi, ha a propria disposizione solo la possibilità di andarsene, con un modestissimo risarcimento (l'indennità sostitutiva dei preavviso da 1 a 4 mesi, nella migliore delle ipotesi) e con il risultato di fare esattamente ciò che il datore di lavoro sperava di ottenere, vale a dire liberarsi proprio di quel dipendente.  Ed è chiaro che avere come scelta solo la possibilità di perdere il posto di lavoro, senza un vero risarcimento, equivale a non avere scelta e a essere costretti a continuare a subire le vessazioni del datore di lavoro.

Tagliagambe muove invece dall'incostituzionalità dell'art. 2119 c.c., che, in violazione dell'art. 3 della Costituzione, consentirebbe un trattamento differenziato a situazioni identiche.  Tale disparità non poteva dirsi sussistente fino all'introduzione delle leggi a tutela dei licenziamenti ingiustificato, essendo consentito a entrambe le parti di recedere dal rapporto di lavoro per giusta causa, con conseguenze praticamente identiche.  Invece l'introduzione nel nostro sistema della normativa a tutela dei licenziamenti illegittimi ha determinato un'ingiustificata disparità di trattamento a situazioni sostanzialmente identiche. Infatti, il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto di ottenere (almeno) 5 mensilità di retribuzione a titolo di risarcimento danni, oltre alla reintegrazione o ad altre 15 mensilità, nel caso in cui ritenga di esercitare l'opzione prevista dall'art. 1 L. 108/90, rinunciando alla reintegrazione.  Il dipendente invece che sia costretto a rassegnare le dimissioni per fatto imputabile al datore di lavoro (ad esempio per tentativo di violenza carnale, per molestie sessuali, per intervenuta e protratta dequalificazione, per trasferimento illegittimo, per mancato e protratto pagamento della retribuzione, etc.) può ottenere soltanto il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, che s'è già visto consistere in una somma esigua, corrispondente nell'ipotesi più favorevole a 4 mensilità di retribuzione. Purtuttavia, le due ipotesi esaminate (licenziamento illegittimo e dimissioni per giusta causa) non sono, nella sostanza, che due diversi aspetti di un unico fenomeno giuridico: la risoluzione del rapporto di lavoro per fatto imputabile al datore di lavoro.Nell'ipotesi del licenziamento ingiustificato, infatti, il rapporto di lavoro si risolve come diretta conseguenza di una colpa del datore di lavoro, consistente nell'arbitrario esercizio del potere di recesso, inassenza dei presupposti di legge che lo giustificano. Nelle dimissioni per giusta causa il rapporto si risolve per effetto di un illecito comportamento datoriale, che, precludendo ogni possibilità di prosecuzione del rapporto, obbliga il lavoratore alla risoluzione del contratto. Non vi è dunque alcuna apprezzabile differenza tra le due fattispecie: in entrambi i casi si verifica un inadempimento della medesima parte (il datore di lavoro), che produce l'identico effetto della risoluzione del rapporto di lavoro. Tuttavia, come s'è già detto, mentre la tutela dei lavoratori dimissionari per giusta causa è rimasta inalterata rispetto a quella originaria, dettata dal legislatore del 1942, la tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati si è invece andata progressivamente intensificando, giungendo a ricomprendere, in aggiunta al preavviso, sia la penale risarcitoria, ora ragguagliata alle retribuzioni perdute, e comunque non inferiore a 5 mensilità, sia il diritto alla reintegrazione convertibile in un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione. Si è così progressivamente creata una sempre più marcata disparità di trattamento tra lavoratori illegittimamente licenziati e lavoratori dimissionari per giusta causa, che non appare in alcun modo giustificata in considerazione della sostanziale uguaglianza fra le due situazioni. Ecco allora che Tagliagambe ritiene incostituzionale l'art. 2119 c.c., per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui, a parità di condizioni, prevede, per i dimissionari per giusta causa, un trattamento deteriore, rispetto a quello garantito dalla disciplina dei licenziamenti, ai lavoratori licenziati ingiustificatamente.  La soluzione al problema, secondo Tagliagambe, potrebbe essere raggiunta attraverso una modifica legislativa dell'art. 2119 c.c., con la previsione del diritto in favore del lavoratore dimissionario di un'indennità, aggiuntiva a quella di preavviso, pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto. Per vie diverse, si perviene dunque alla medesima conclusione: per il necessario rispetto del principio generale di parità di trattamento, ma anche per sanzionare (e quindi, con effetto deterrente, anche per impedire o perlomeno ridurre) i comportamenti vessatori del datore di lavoro in danno del dipendente, sarebbe opportuno procedere alla modifica legislativa dell'art. 2119 c.c., parificando il licenziamento ingiustificato alle dimissioni per giusta causa. Al lavoratore dimissionario per giusta causa deve cioè essere riconosciuto il diritto a percepire, oltre al preavviso, un'indennità. Alcuni correttivi potrebbero inoltre essere introdotti: nei casi di inadempimento lieve il giudice potrebbe ridurre fino alla metà le mensilità aggiuntive; mentre nei casi particolarmente gravi e, eventualmente anche nelle imprese con un grande numero di addetti, le mensilità aggiuntive potrebbero essere raddoppiate. Nei casi particolarmente odiosi di comportamenti vessatori, infine, potrebbe essere prevista la possibilità per il giudice di condannare l'impresa al pagamento della penale di cui sopra, oltre al versamento della retribuzione fino al reperimento di una nuova occupazione.  Una condanna di tal genere potrebbe evidentemente prestarsi ad abusi da parte dei dipendenti dimessi per giusta causa, i quali potrebbero rinunciare alla ricerca di un nuovo posto di lavoro, limitandosi a percepire «in eterno» la retribuzione da parte del vecchio datore di lavoro. Si creerebbe così un potenziale esercito di disoccupati. regolarmente retribuiti. Ma forse proprio la potenziale esplosiva esagerazione di tal genere di condanna porrebbe un freno, nel suo evidente aspetto deterrente, a comportamenti inutilmente vessatori in danno dei lavoratori dipendenti. Ma l'istituto delle dimissioni dovrebbe, peraltro, essere modificato anche sotto un altro punto di vista. Troppo spesso in questi anni si è assistito a dimissioni estorte, con o senza insignificanti incentivi; quando le imprese intendono procedere a surrettizie riduzioni di personale, nel caso di banali mancanze del dipendente esageratamente enfatizzate dal datore di lavoro, nel caso di mancanze pur disciplinarmente rilevanti, ma purtuttavia non sanzionabili con il licenziamento: in tali, e in molte altre circostanze, il dipendente viene spesso indotto ad accettare di sottoscrivere una lettera di dimissioni, in cambio dell'affermata rinuncia del datore di lavoro a esercitare il potere di risoluzione del rapporto di lavoro e di un modesto incentivo economico.  In queste circostanze il dipendente è quasi sempre costretto ad assumere una decisione in tempi brevissimi e, quasi sempre, in una situazione di totale soggezione (soprattutto se si ritiene colpevole di una mancanza, che in assenza di soggetti qualificati cui richiedere un consiglio, quali un sindacalista o un legale, può ritenere tale da giustificare il licenziamento).  In queste circostanze il dipendente è indotto ad accettare quello che ritiene il male minore, e cioè la sottoscrizione della lettera di dimissioni.  Solo a posteriori, in molti casi il dimissionario si rende conto di avere agito contro la propria volontà e in condizioni «non libere», ovvero viene successivamente a sapere che la colpa commessa poteva essere punita forse solo con una sanzione conservativa e non certo con il licenziamento.  Ma a quel punto la situazione è irreversibile: solo dimostrando in modo rigoroso (il che è quasi sempre praticamente impossibile) un vizio del consenso indotto da errore, dolo o violenza, il dimissionario può ottenere la revoca giudiziale delle dimissioni.  A fronte del numero rilevantissimo di episodi del genere effettivamente avvenuti, i casi in cui è stato possibile ottenere la revoca giudiziale delle dimissioni sono una percentuale minima e assolutamente insignificante. Ecco allora la necessità di modificare anche sotto questo profilo l'istituto delle dimissioni: le dimissioni debbono divenire un negozio sottoposto a condizione.  Esse saranno pienamente valide ed efficaci solo nel caso in cui entro un termine da definire, comunque necessariamente breve (sette o quindici giorni), non vengano revocate.  La revoca dovrà avere efficacia ex tunc, e operare la immediata ricostituzione del rapporto, con la sola perdita della retribuzione per le giornate trascorse dal giorno delle dimissioni a quello della revoca delle stesse. Una soluzione del genere appare prima di tutto una soluzione di civiltà, in quanto consentirebbe al dipendente di rinunciare a un bene della vita di primaria importanza, quale il posto di lavoro - presupposto indispensabile per un'esistenza libera e dignitosa - solo dopo un'accurata riflessione e una valutazione della situazione con l'eventuale ausilio di esperti.  Inoltre, non sarebbe una novità per il nostro ordinamento.  Il DPR 25/11/76 n. 1026 (Regolamento di esecuzione della legge 1204/71 sulla tutela delle lavoratrici madri), all'art. 11, stabilisce, infatti, che le dimissioni presentate dalla donna lavoratrice, nel periodo durante il quale opera il divieto di licenziamento a norma dell'art. 2 L. 1204/71, debbono essere comunicate all'Ispettorato del lavoro, che le convalida.  La risoluzione del rapporto di lavoro è espressamente condizionata da tale convalida. Anche l'art. 11 n. 19, della recente Legge Finanziaria (L. 537/93), pur muovendo da esigenze di risanamento dell'Erario, produce effetti simili, stabilendo che coloro che hanno presentato domanda di collocamento in pensione - e quindi mediante dimissioni - successivamente al 31/12/1992 e che ne facciano domanda entro sessanta giorni dalla entrata in vigore della legge, possano revocare le dimissioni, ovvero, qualora già cessati dal servizio, possano essere riammessi con la qualifica e con l'anzianità maturata all'atto del collocamento a riposo, con facoltà di riscattare il periodo scoperto ai fini della previdenza e della quiescenza. Si può ancora ricordare il D. Lgs. n. 50 del 1992 [1] con il quale è stato introdotto il diritto di recesso, nel settore della vendita a domicilio e nella vendita effettuata al di fuori degli esercizi commerciali.  Al contraente è consentito, entro un termine breve, il diritto di recesso dal contratto stipulato. E' infatti previsto che il consumatore che intenda esercitare il diritto di recesso debba inviare all'operatore commerciale una comunicazione in tal senso nel termine di sette giorni che, secondo i casi, decorrono dalla sottoscrizione del contratto, o dal ricevimento della merce.  Con la ricezione da parte dell'operatore commerciale di tale comunicazione, le parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto sottoscritto. Le ragioni che hanno portato all'introduzione nel nostro ordinamento di una normativa del genere non sono molto dissimili da quelle che imporrebbero di modificare l'istituto delle dimissioni: impedire che un soggetto «debole», sotto l'onda di pressioni anche garbate, si convinca a sottoscrivere un oneroso impegno, senza che tale assunzione di obbligazioni sia supportata da una completa e libera manifestazione di volontà. In tal modo si consente al contraente più debole la possibilità di ripensare liberamente agli impegni assunti ed eventualmente di assumere informazioni o consigli.  Solo dopo una serena e libera valutazione il contraente potrà decidere se mantenere l'impegno assunto, in quanto effettivamente conforme alla propria volontà, ovvero esercitare il diritto di recesso, sciogliendosi da un impegno assunto frettolosamente o comunque sotto l'impulso di emozioni indotte da altri. Allo stesso modo, dunque, se una scelta ben più importante dell'acquisto di un'enciclopedia o di un corso di lingue, quale la decisione di rinunciare al posto di lavoro, deve corrispondere a una ponderata e libera manifestazione di volontà, appare allora necessario che anche per le dimissioni si introduca una sorta di possibilità di recesso, da esercitare in un termine ragionevole. La tutela delle dimissioni libere e consapevoli può essere attuata con la stessa possibilità di esercizio del diritto di recesso introdotta per la vendita a domicilio, oppure con la trasformazione delle dimissioni in un negozio sottoposto alla condizione sospensiva (negativa) del mancato inoltro, entro un termine breve. di una comunicazione di revoca con efficacia ex tunc (fatti salvi solo gli effetti economici, e con il limite di poter godere di questo diritto di revoca per non piùdi una volta all'anno o di due volte nel corso dello stesso rapporto di lavoro, per non creare possibilità di usi distorti e strumentali di tale diritto). Se infatti una legislazione civile deve garantire che gli impegni assunti siano effettivamente frutto di una scelta libera e ben valutata e non il risultato di pressioni o emozioni da altri indotte, non è pensabile che venga assicurata tutela in questo senso alle vendite a domicilio e non a un atto che determina, nella sfera giuridica del dimissionario, conseguenze ben più gravi e definitive, che, in quanto tali, meritano una ben più attenta e meditata decisione. Riepilogando, quindi, le considerazioni sin qui svolte, sembra opportuna una riscrittura della seconda parte dell'art. 2119 c.c. in questi termini: «Al prestatore di lavoro che recede per giusta causa dal contratto di lavoro a tempo indeterminato compete l'indennità sostitutiva del preavviso, oltre a un'ulteriore indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.  Tale indennità può essere ridotta sino alla metà dal giudice per comprovata lievità dell'inadempimento del datore di lavoro; può però essere aumentata sino a trenta mensilità nei casi di inadempimento di particolare gravità.  Nelle imprese che occupino più di duecento dipendenti e nei casi particolarmente gravi il giudice può anche disporre, in aggiunta alle indennità di cui sopra, il pagamento in favore del prestatore di lavoro, di una somma corrispondente alla normale retribuzione mensile, fino al reperimento di una nuova occupazione». A sua volta, l'art. 2118 c.c. dovrebbe essere integrato con un comma del genere: «Le dimissioni del prestatore di lavoro possono essere revocate con effetto retroattivo, per non più di due volte nel corso dello stesso rapporto di lavoro, con la perdita del trattamento economico dal giorno delle dimissioni sino a quello della revoca delle stesse.  La revoca delle dimissioni, che determina la ricostituzione immediata del rapporto, deve essere comunicata al datore di lavoro mediante lettera raccomandata consegnata all'ufficio postale entro quindici giorni da quello delle dimissioni».

Mario Fezzi

 

1) L. Franceschinis, "Sanzioni disciplinari anche ai datori di lavoro", in D&L 1993, 724; G. Tagliagambe, "Licenziamento illegittimo e dimissioni per giusta causa. Incostituzionalità dell'art. 2119 c.c.?", in D&L 1994, 7.

2) D. Lgs. 15/1/1992 n. 50, in Gazzetta Ufficiale 3/2/1992 n. 27 S. O.