Risarcimento del danno, reintegra e opzione per l'alternativa economica in caso di licenziamento invalido (di Mario Meucci)

 

Sommario

 
1. Autonomia tra tutela risarcitoria per licenziamento invalido e tutela reale (o reintegratoria) nell'art. 18 S.d.l.
 
 
2. Natura del rapporto giuridico costituito dall'obbligo di reintegra accompagnato dall'alternativa economica, nell'opinione della Corte costituzionale e della Cassazione
 
 
2a) Equiparazione giudiziale per i rapporti in regime di tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 604/1966 (nella modifica ex art. 2 l. n. 108/1990)
 
 
3. Conseguenze dell'inattualità dell'ordine di reintegra sull'opzione economica
 
 
3a) Se le presunte cause di inattualità della reintegra possano precludere l'emissione dell'ordine di ripristino del rapporto ovvero se non siano altro che nuove causali per un successivo licenziamento valido, non preclusivo dell'opzione economica (ma solo limitativo della misura del risarcimento di danno ex art. 18, 4°co., S.d.l.)
 
 
3b) L'impossibilità sopravvenuta di emissione (o eseguibilità) dell'ordine di reintegra per fatto imputabile al datore di lavoro non preclude comunque il diritto all'opzione per l'alternativa economica.
 
     

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1. Autonomia tra tutela risarcitoria per licenziamento invalido e tutela reale (o reintegratoria)

 

L'art. 18 dello Statuto dei lavoratori – con le modifiche apportategli dall'art. 1, punto 1, della L. n. 108/1990 (che ha sostituito gli originari primi due commi del 1970 con gli attuali cinque) – ha travagliato non poco dottrina e giurisprudenza e non si può ancora dire che si sia giunti a soluzioni definitive ed univoche, anche se si è consolidato – sulle principali questioni controverse – un orientamento prevalente che, in queste note, passeremo in esame.

La prima questione che si è posta è stata quella della subordinazione o connessione (ovvero, all'opposto dell'autonomia) della tutela risarcitoria (conseguente al licenziamento invalido o illegittimo che dir si voglia) dalla sussistenza e persistenza della tutela reintegratoria. Si sosteneva (eminentemente da parte conservatrice) che - qualora non fosse più attuale la tutela reintegratoria (ad. es. perché l'azienda, nelle more del giudizio, aveva riammesso il lavoratore in azienda, revocando concludentemente il precedente licenziamento, ovvero perché il lavoratore aveva, sempre nelle more del giudizio, reperito un'altra occupazione, ovvero perché il lavoratore versava in stato di sopravvenuta inabilità psico-fisica alla riammissione al lavoro, ovvero perchè deceduto nel frattempo, o perché l'azienda aveva nel frattempo cessato l'attività, ecc.) - al lavoratore non spettava il risarcimento del danno di cui al 4° co. dell'art. 18 S.d.l. (fissato nella misura minima di 5 mensilità della retribuzione globale di fatto, con connesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali), parametrato al periodo ( necessariamente non retribuito) decorrente dalla data del licenziamento di cui era stata accertata giudizialmente l'invalidità e fino a "quello dell'effettiva reintegrazione". Questa tesi faceva leva, in particolare, sulla carenza o impossibilità del verificarsi della condizione della "effettiva reintegrazione".

A togliere qualsiasi dubbio sull'inconsistenza della tesi sopra riferita intervenne – dopo oscillante giurisprudenza – la Cassazione a sezioni unite n. 3957 del 23 aprile 1987 (1) la quale stabilì a chiare note che: "La tutela cosiddetta risarcitoria, accordata dall'art. 18…della L. 20 maggio 1970, n. 300 in favore del lavoratore, il cui licenziamento risulti invalido od inefficace (nella misura non inferiore a 5 mensilità della retribuzione), ha carattere autonomo rispetto alla tutela cosiddetta ripristinatoria contemplata dal primo comma della medesima norma, in quanto configura sanzione a carico del datore di lavoro non derivante dall'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, bensì direttamente discendente da detta invalidità od inefficacia del licenziamento. L'indicato risarcimento, pertanto, deve essere riconosciuto anche al dipendente illegittimamente licenziato che non voglia o non possa chiedere la suddetta reintegrazione (ivi inclusa l'ipotesi in cui sia sopravvenuta revoca del licenziamento e riammissione al lavoro)." Ed in motivazione le stesse sezioni unite chiarirono – a scanso di equivoci – che la collocazione dell'ordine di reintegrazione al primo comma dell'art. 18 S.d.l. non significava affatto che tutta la normativa fosse "preordinata allo specifico scopo primario della reintegrazione nel posto di lavoro e che, pertanto, il lavoratore possa avvalersi della normativa stessa, in punto di risarcimento, solo nel caso in cui debba (o possa) domandare la reintegrazione. Tale conclusione è testualmente smentita dalla prima parte del secondo comma (nel vecchio testo ed ora 4° comma, n.d.r.) della disposizione, che espressamente ricollega il diritto al risarcimento del danno all'inefficacia o alla invalidità del licenziamento, non già all'ordine di reintegrazione, con ciò attribuendo piena autonomia alla tutela risarcitoria."

Ne consegue (come è stato confermato da successiva giurisprudenza della Suprema corte, conformatosi all'orientamento soprariferito delle Sezioni unite) che sussiste "interesse ad agire" ex art. 100 c.p.c da parte del lavoratore – impossibilitato o non interessato ad essere riammesso in servizio nell'azienda che gli ha comminato il licenziamento, rivelatosi poi invalido – per la rivendicazione del solo risarcimento di danno (nella misura ex art. 18, 4 co., S.d.l.) in quanto l'indennizzo (invero a carattere retributivo a tutti gli effetti) costituisce una forma di riparazione (e nello stesso tempo "sanzione" o "penale", a carico dell'azienda) per un atto offensivo della dignità del lavoratore medesimo. Indennizzo che colma il vuoto delle retribuzioni perdute e che trova la sua radice in un atto sostanzialmente ingiurioso che avendo fatto venir meno nel lavoratore l'interesse alla reintegrazione - per perdita della reciproca fiducia fra le parti, per l'ipotetica ostilità ambientale che una riammissione comporterebbe, per l'avvertita difficoltà di reinserimento in un'organizzazione del lavoro immutata, ecc. – può indurre, quand'anche emesso l'ordine di reintegrazione, successivamente il lavoratore a preferire l'alternativa economica forfettaria delle 15 mensilità (di cui parleremo infra).

Il principio di diritto in ordine alla "autonomia" fra tutela risarcitoria ex art. 18, 4° comma, S.d.l. e tutela reintegratoria, è stato poi ripreso da tutta la giurisprudenza successiva della Suprema corte (2), - la più recente delle quali, costituita da Cass. n. 9464/1998, ha definito la misura indennitaria ex art. 18, 4° comma, S.d.l. come "assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischio d'impresa e può assumere la funzione di assegno di tipo, in senso lato, assistenziale in caso di assenza di una responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro" (in fattispecie indotto al licenziamento da certificazioni delle strutture sanitarie pubbliche attestanti l'inidoneità fisica al lavoro del prestatore). Tale principio è stato altresì riconfermato dalla stessa Corte costituzionale nella recente decisione n. 420 del 23 dicembre 1998 (3), che ha dichiarato che il risarcimento nella misura minima di 5 mensilità (incrementabile in relazione alle maggiori mensilità di retribuzione perduta) spetta anche nel caso di licenziamento invalido per assenza di colpa del datore di lavoro ( anche in questa fattispecie indotto dalla certificazione, ex art. 5 stat. lav., di inidoneità del lavoratore, rivelatasi poi insussistente a seguito di C.t.u. sanitaria), trovando la sua radice nel "rischio d'impresa" ovverosia nel rischio cui va incontro l'imprenditore che adotta un provvedimento espulsivo rivelatosi poi invalido (aderendo, in sostanza, alla stessa impostazione di Cass. n. 9464/1998, cit.). L'obbligo di corrispondere la retribuzione – in forma indennitaria, nel caso – peraltro non potrebbe venire meno in ragione dell'intervenuta interruzione della prestazione del lavoratore indotta dal provvedimento di licenziamento (invalido), poiché, in tal caso di licenziamento illegittimo, l'inadempimento del dipendente trova la sua causa nel rifiuto di ricevere la prestazione da parte del datore d lavoro (che lo ha estromesso dall'azienda), il quale resterà obbligato, ex art. 1206 e 1207 c.c., ad eseguire la prestazione corrispettiva, ovverosia quella retributiva.

 

 

2. Natura del rapporto giuridico costituito dall'obbligo di reintegra accompagnato dall'alternativa economica, nell'opinione della Corte costituzionale e della Cassazione

Altra problematica, dibattuta e finalmente risolta, è stata quella afferente alla natura dell'ordine di reintegra, in dipendenza ed in correlazione alla previsione – di cui al 5° co. dell'art. 18 S.d.l. – del poter essere la ripresa del servizio sostituita, su opzione del lavoratore, dalla percezione dell'indennità economica forfetariamente prevista in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Stabilisce il 5° comma dell'art. 18 S.d.l. (introdotto dall'art.1, 5° comma, l. n. 108/1990) che: "Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al 4° comma, al prestatore di lavoro è data facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto."

L'indennità in parola tramite la quale il legislatore - consapevole della non coercibilità dell'obbligo di reintegra, quale obbligazione di fare, e della discussa applicabilità all'inottemperanza datoriale della tutela penale ex art. 388, 2° co., c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento cautelare del giudice) e 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell'autorità) nonché dei tentativi elusivi ed ostruzionistici datorialmente posti in essere nei fatti a fronte della pronunzia giudiziale - ha reso "pesante" e "gravosa" per l'imprenditore la scelta spesso obbligata del lavoratore di non aderire all'invito alla ripresa del servizio, rivoltogli dall'azienda a seguito dell'ordine giudiziale di reintegra, ha occasionato numerosi rilievi di costituzionalità, grazie alle cui dichiarazioni di infondatezza da parte della Corte costituzionale (4) è stata chiarita la natura del rapporto giuridico complesso costituito dall'obbligo di reintegra congiunto alla facoltà, da parte lavoratrice, di monetizzazione della rinunzia alla riammissione in servizio.

La Corte costituzionale nella decisione n. 81/1992 (5) - tramite cui sono stati dichiarati infondati gli addebiti rivolti all'art. 18, 5° co., di attribuire al lavoratore un privilegio ingiustificato, consistente nel diritto di dimissioni in tronco, con indennizzo esorbitante rispetto a quello normalmente accordato dall' art. 2119 c.c., fondate su una causa già rimossa dalla sentenza che, dichiarando l'illegittimità del licenziamento, abbia ordinato la reintegrazione del lavoratore e condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno – ha asserito, secondo noi, che non solo "l'alternativa economica" ma più globalmente che "l'ordine di reintegrazione accompagnato dall'alternativa economica" configura "un'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore". "Anziché la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore (lavoratore, n.d.r.) ha facoltà di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempimento produce, insieme con l'estinzione dell'obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza di scopo. Il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento del pagamento dell'indennità sostitutiva".

Come è stato chiarito (6) "l'obbligazione con facoltà alternativa, o facoltativa dal lato del creditore, va distinta dall'obbligazione alternativa: nella prima, la prestazione dovuta è una sola, l'obbligazione è cioè semplice: solo su richiesta di una delle parti è prevista una prestazione subordinata diversa da quella principale, con effetti parimenti liberatori (una res in obligatione, duae autem in facultate solutionis); nella seconda (cioè alternativa, n.d.r.) due sono le prestazioni dovute, dedotte in modo disgiunto e paritario, ma il debitore si libera eseguendone una sola (duae res in obligatione, una autem in solutione)".

La reintegrazione – disposta giudizialmente a seguito dell'invalidità del licenziamento – in congiunzione con l'opzione economica da parte del lavoratore, si configura quindi, come una "obbligazione semplice con facoltà alternativa" da parte del lavoratore-creditore, che potrà estinguere l'obbligazione principale datoriale (quella della riammissione nel posto di lavoro) con la scelta a favore dell'obbligazione secondaria, subordinata e alternativa costituita dall'indennità economica, risaltante per il prestatore d'opera in forma di un vero e proprio diritto potestativo. Asserisce, in senso confermativo, Corte cost. n. 291/1996 – trattando della natura dell'indennità sostitutiva opzionale delle 15 mensilità – che "secondo la giurisprudenza di questa Corte (n. 81 del 1992, ordinanze nn. 160 del 92 e 77 del 1996) l'indennità di cui si controverte non ha una funzione di risarcimento aggiuntivo a quello previsto dal precedente 4° co., ma, in connessione col diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, si inserisce in un rapporto obbligatorio avente la struttura di un'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, essendo attribuita al prestatore la facoltà insindacabile di 'monetizzare' il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, pari a 15 mensilità di retribuzione". Lo stesso concetto è ripreso pedissequamente da Cass. n. 12366 del 5 dicembre 1997 (7) – ed in precedenza da Cass. 21 dicembre 1995, n. 13047 - la più recente delle quali ha anche asserito che "una volta affermata la piena autonomia tra i regimi sanzionatori previsti dall'art. 18, non vi è ragione di escludere che già nell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione del licenziamento il lavoratore eserciti l'opzione per l'indennità sostitutiva ex art. 18.". A sostegno della tesi argomentando che: "se l'attribuzione di tale prestazione, al pari di quella risarcitoria prevista nei precedenti commi di tale disposizione, è collegata in via esclusiva all'illegittimità del recesso, appare del tutto incongruo, invero, che questi richieda, quale mezzo al fine, la condanna del datore ad una reintegrazione cui egli abbia già deciso di rinunciare e che entrambe le parti siano tenute, inoltre ad attendere la conclusione dell'iter giudiziario, nonché del successivo 'procedimento' previsto dall'art. 18 (l'invito del datore a riprendere servizio, ecc.). Incongruenza che si coglie con maggiore evidenza ove si tenga presente che sussiste in detta ipotesi la possibilità di delineare ab initio l'effettivo oggetto della controversia, con la conseguente facoltà, da parte del datore stesso, di liberarsi da ogni obbligazione a suo carico ove riconosca l'illegittimità del licenziamento da lui intimato".

 

 

 

2a) Equiparazione giudiziale per i rapporti in regime di tutela obbligatoria ex art. 8 l. n.604/1966 (nella modifica ex art. 2 l. n. 108/1990)

Accertata la sussistenza di un diritto potestativo del lavoratore (in aziende con i limiti dimensionali tali da garantire ai prestatori di lavoro il regime di stabilità reale ex art. 18 S.d.l.), di rinunziare alla ripresa del servizio - motivata di norma dal reperimento di un'altra occupazione o come è stato detto in giurisprudenza (8) dalla crisi causata nel lavoratore dal licenziamento con le connesse conseguenze quali la perdita della reciproca fiducia, l'ostilità ambientale, la difficoltà di inserimento in un'organizzazione del lavoro immutata, etc. – si è posto il problema della incostituzionalità della norma dell'art. 8 della l. n. 604/1966 (modificata dall'art. 2 della l. n. 108/1990) che tale facoltà alternativa sembrava letteralmente precludere al lavoratore (dipendente dalle imprese dimensionate sotto i 16 dipendenti) configurando la normativa de qua, apparentemente, la fattispecie della "obbligazione alternativa" con facoltà di scelta, dal lato del debitore/datore di lavoro, tra ripristino del rapporto e risarcimento del danno.

Dispone l'art. 8 della legge sopra citata che: "Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore entro il termine di 3 giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti".

La Corte costituzionale, investita del problema della disparità di trattamento tra regime ex art. 18 S.d.l. per i dipendenti delle "maggiori" imprese e regime ex art. 8 l. n. 604/'66 per i dipendenti delle imprese "minori" – sollevato dal giudice rimettente in quanto "il lavoratore di impresa 'minore' che non si presenti in azienda dopo la scelta del datore di riassumerlo, perderebbe il diritto al risarcimento ex art. 1286, 2 co. del codice civile"( a differenza del lavoratore dipendente da impresa "maggiore" che potrebbe invece rifiutare l'invito datoriale ed optare per l'alternativa economica) e quindi il primo fruirebbe di un "trattamento più sfavorevole" – la Corte costituzionale, dicevamo, ha, con la sentenza n. 44 del 23 febbraio 1996 (9), disatteso gli addebiti di illegittimità con una interpretazione egualizzatrice delle tutele per entrambe le due tipologie di lavoratori e di normativa (art. 18 S.d.l. e art. 8 l. n. 604/'66).

In buona sostanza la Consulta ha detto che la questione del "trattamento più sfavorevole" per il lavoratore di impresa "minore" in conseguenza dell'art. 8 l. n. 604/1966 non è fondata "dovendosi interpretare la norma impugnata nei sensi che saranno di seguito precisati".

E nella sentenza interpretativa di rigetto, la Corte costituzionale ha sostenuto che non può asserirsi che "operata la scelta da parte del datore di lavoro fra due prestazioni, ciò determina l'irrevocabilità della stessa e il debitore resta liberato dalla seconda prestazione".

"L'interpretazione da cui muove l'ordinanza di rimessione è aderente ad un orientamento della Corte di Cassazione (10) tuttavia contrastato da un maggior numero di pronunce della stessa (11), secondo cui il risarcimento previsto dalla norma impugnata costituisce una delle conseguenze della illegittimità del licenziamento: ed invero, si è affermato che, in mancanza (per qualsiasi motivo) della reintegrazione (tutela reale e primaria), è dovuta la seconda delle tutele, e cioè quella obbligatoria, consistente nella monetizzazione del danno derivante dall'illegittimo licenziamento ogni qual volta non si ripristini il rapporto" (12).

All'indirizzo in questione si è, di recente, conformata la Cassazione nella decisione n. 12442 del 10 dicembre 1998 (13) la quale ha affermato di "prestare adesione all'interpretazione di Corte cost. n. 44/1996 non solo per l'autorevolezza della fonte che l'ha di recente ribadita alla luce dei principi enunciati in materia anche dalla Corte di cassazione, ma anche perché riconoscendo al lavoratore che possa fruire solo della tutela obbligatoria una facoltà assimilabile a quella dettata dall'art. 18, comma quinto, l. 20 maggio 1970, n. 300 (nel testo modificato dall'art. 1, l. 11 maggio 1990, n. 108) di 'monetizzare il diritto alla riassunzione' (così detta facoltà è definita dalla Corte costituzionale, per il regime di tutela reale, nella sentenza 22 luglio 1996, n. 291) si viene ad escludere una ingiustificabile sperequazione a danno del lavoratore che in regime di tutela obbligatoria rinunciasse alla riassunzione, e si attua invece, secondo quanto già rilevato, 'un coerente ed armonico parallelismo tra tutela reale e tutela obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo', potendo il lavoratore, così come nella ipotesi di tutela reale, rinunciare alla riassunzione e chiedere il pagamento della indennità risarcitoria prevista dall'art. 8 cit.".

A parte le critiche che sono piovute – eminentemente da fautori di impostazioni formalistiche e da esponenti o fiancheggiatori di organizzazioni di tendenza imprenditoriale – l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale, prima, e rinnovato dalla Cassazione, ora, è largamente condivisibile ed è l'unico ad essere dotato di capacità di sottrazione della norma dell'art. 8 l. n. 604/'66 a vizi di incostituzionalità, conferendogli un contenuto di "equità e di giustizia" comparativa con l'omologa disposizione dell'art. 18 S.d.l. Una diversa e formalistica interpretazione dell'obbligazione in forma di "alternativa" datoriale tra ripristino del rapporto e risarcimento di danno, tale da privare il datore di lavoro di qualsiasi conseguenza nel caso in cui il lavoratore non intendesse o non potesse (per reperimento di altro impiego) riprendere servizio, si sarebbe rivelata iniqua attese le sostanziose motivazioni (crisi di fiducia da parte del lavoratore, perdita di stima nel datore di lavoro, reinserimento in ambiente ostile ed in realtà lavorativa immutata, ecc., ancor più enfatiche nella "piccola" impresa) che stanno spesso a fondamento del rifiuto del prestatore di aderire all'invito datoriale di riammissione in servizio. Non si può infatti negare che non sarebbe stata iniqua l'impunità del datore di lavoro che – fidando giustappunto nell'avvenuto reperimento di altro impiego, anche in considerazione dei tempi lunghi del giudizio – rivolgesse al lavoratore solo "formale invito" alla ripresa del servizio (cioè "facesse solo la mossa") onde andar indenne da conseguenze per l'illegittima estromissione, solo grazie allo scontato (e motivato) rifiuto del prestatore di lavoro.

 

 

3. Conseguenze dell'inattualità dell'ordine di reintegra sull'opzione economica

Prendendo spunto da talune corrette affermazioni giurisprudenziali secondo cui la configurazione del rapporto giuridico obbligatorio - nel quale si inserisce la facoltà del lavoratore di optare per l'alternativa economica in connessione con il diritto (obbligo datoriale) alla reintegrazione – si caratterizza quale "obbligazione semplice con facoltà alternativa dal lato del creditore/lavoratore" ed implica che "il venir meno della prestazione principale (la reintegra) preclude la possibilità di ottenere in luogo della stessa la prestazione sostitutiva (l'indennità economica"(14), in dottrina è stata elaborata la tesi della non spettanza dell'indennità sostitutiva in carenza di "attualità" della reintegra (o dell'ordine di reintegra).

Va subito detto che la prevalenza dei casi decisi in giurisprudenza – implicanti la non "attualità" dell'ordine di reintegra e quindi l'impossibilità da parte del lavoratore di effettuare una rinunzia al bene dell'occupazione con l'opzione per l'alternativa economica – erano costituiti da revoca del licenziamento, nelle more del giudizio di accertamento dell'invalidità del medesimo, e ripresa spontanea del servizio da parte del lavoratore.

Tuttavia non si è mancato in dottrina e talora, isolatamente, anche in giurisprudenza di operare una ricerca sulle presunte causali addizionali all'avvenuta reintegra spontanea, suppostamente confliggenti con la nozione di "attualità" (e quindi preclusive della emissione od operatività dell'ordine giudiziale di reintegra), individuate:a) nella morte del lavoratore, sopravvenuta nelle more del giudizio; b) nella cessazione totale dell'attività aziendale, sempre avvenuta nelle more del giudizio; c) nell'impossibilità sopravvenuta (nelle more del giudizio) della prestazione lavorativa per inidoneità permanente e totale al lavoro del prestatore, non imputabile al datore di lavoro; d) nel raggiungimento, sempre nelle more del giudizio, dei requisiti di maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia (15).

Prima di entrare nel merito di tali causali – ed il discorso sarà lungo – preme dar conto della problematica costituita dalla ripresa del servizio a seguito di provvedimento cautelare del giudice, emesso ex art. 700 c.p.c., da parte di una prima giurisprudenza di Cassazione considerato preclusivo dell'opzione per l'indennità economica (sempre per oramai realizzata inattualità dell'ordine di reintegra), da altra successiva venendo invece la ripresa del servizio considerata non caratterizzata dai requisiti della "spontaneità" e "volontarietà" e quindi inidonea a precludere l'alternativa economica mediante opzione successiva del prestatore di lavoro. La prima impostazione è stata sostenuta, in sede di Cassazione, da Cass. 13 agosto 1997, n. 7581 (16), la quale ha asserito che "il lavoratore, illegittimamente licenziato e successivamente reintegrato in forza di provvedimento d'urgenza, non ha più diritto ad esercitare l'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione di cui al comma 5° dell'art. 18 Stat. lav., che presuppone necessariamente che il lavoratore versi ancora nella situazione di estromissione dall'azienda, essendo la ripresa dell'attività lavorativa incompatibile con la rinuncia alla prosecuzione del rapporto, implicita nell'opzione medesima". Ad opposte conclusioni – argomentate e condivisibili – è pervenuta la successiva Cass. 16 giugno 1998, n. 6005 (17) secondo la quale: " La reintegrazione nel posto di lavoro disposta in sede cautelare diverge dal provvedimento, solo apparentemente analogo, rappresentato dall'ordine di reintegrazione impartito con la sentenza che annulla o dichiara inefficace o nullo, ai sensi dell'art. 18 L. n. 300 del 1970, il licenziamento, posto che l'art. 700 c.p.c. non impone al giudice di adottare un provvedimento corrispondente a quello che prevedibilmente sarà il contenuto della sentenza, ma solo di emettere i provvedimenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, provvedimenti la cui adesione non costituisce fatto volontario, espressivo di una scelta né dal lato del creditore né dal lato del debitore. Ne consegue che la facoltà riconosciuta al lavoratore di optare per l'indennità sostitutiva di cui al 5° co. dell'art. 18 legge cit. non può ritenersi consumata per effetto della richiesta di provvedimento cautelare di reintegrazione né per effetto della ripresa del lavoro conseguente al provvedimento stesso né per il protrarsi delle prestazioni anche dopo l'emanazione della sentenza di reintegrazione e per il periodo previsto dal citato art. 18 ai fini dell'esercizio del diritto di opzione".

Le argomentazioni di quest'ultima decisione meritano condivisione, in quanto la reintegrazione in servizio, avvenuta a seguito di provvedimento cautelare, è operata dal lavoratore nell'ottica di perseguire la finalità primaria di salvaguardare la fonte del proprio e familiare sostentamento nonché il proprio patrimonio professionale nelle more del giudizio di merito, senza peraltro che gli sia consentito di esprimere alcuna volontà vincolante in merito alla costituzione del rapporto a seguito della sentenza di merito. Il provvedimento cautelare di reintegra rappresenta solo una tutela interinale della continuità del reddito e del patrimonio professionale, meramente strumentale rispetto alla tutela definitiva. Inoltre va sottolineato, per evidenziare l'atipicità e la diversità della tutela interinale dall'ordine di reintegra ex art. 18, che, come rileva la Corte, l'art. 18 Stat. lav. richiede il comportamento fattivo del datore di lavoro al fine di consentire la non coercibile ripresa del servizio del lavoratore, mentre il provvedimento cautelare espone il datore di lavoro ad una mera soggezione all'ordine dell'autorità giudiziaria.

Infine non può essere compromesso da una ripresa del servizio dietro provvedimento cautelare, il diritto del lavoratore di esercitare l'opzione solo a cognizione piena della motivazione della sentenza che lo reintegri nel posto di lavoro, cosa che avverrebbe se fosse considerato equivalente il provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. e la sentenza emessa a conclusione del giudizio ordinario di merito.

 

 

3a) Se le presunte cause di inattualità della reintegra possano precludere l'emissione dell'ordine di ripristino del rapporto ovvero se non siano altro che nuove causali per un successivo licenziamento valido, non preclusivo dell'opzione economica (ma solo limitativo della misura del risarcimento di danno ex art. 18, 4° co., Sd.l.)

Ritornando all'esame della problematica di cui abbiamo iniziato la trattazione al punto 3), va detto che una soltanto è la causale che "priva di scopo" l'opzione per l'indennità sostitutiva ex art. 18, 5° co., S.d.l e determina la "inattualità" (o non emanabilità o non operatività) della reintegra:

a) l'avvenuta, spontanea, ripresa del servizio da parte del lavoratore, nelle more del giudizio, a seguito di revoca o "ravvedimento operoso" del datore di lavoro che abbia riconosciuto l'illegittimità del proprio comportamento espulsivo, cui si può aggiungere:

a1) l'ipotesi della morte sopravvenuta, nelle more, del lavoratore che, nel nostro diritto del lavoro privato, costituisce la sola causale di risoluzione automatica ("ipso iure") del rapporto medesimo (18), verificandosi la quale spetteranno agli eredi le mensilità di risarcimento di danno per il licenziamento illegittimo, di cui al 4° co. art. 18, decorrenti dalla data dello stesso fino a quella di morte del lavoratore, pacificamente preclusa restando l'opzione per l'indennità sostitutiva del bene dell'occupazione non più attuale.

Tutte le altre causali che taluno ha ritenuto di accomunare tra quelle determinanti l'inattualità dell'ordine di reintegra ( sopravvenuta cessazione dell'attività dell'azienda, inidoneità sopravvenuta, per causa non imputabile al datore di lavoro, di riprendere il servizio; sopravvenuto raggiungimento dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia) non sono affatto idonee a precludere l'emissione dell'ordine di reintegra, necessariamente conseguente al riscontro giudiziale di invalidità del licenziamento.

Tali causali - nel diritto privato del lavoro che non ammette cause di risoluzione automatica del rapporto (salvo quelle clausole contrattuali di risoluzione automatica assicuranti al tempo stesso una stabilità convenzionale fino ad un'età massima con sottrazione al datore di lavoro del potere di recedere unilateralmente e discrezionalmente ex art. 2118 c.c., quando e per quelle categorie di lavoratori cui tale beneficio non sia già assicurato dalle norme sulla stabilità reale (19) - rifluiscono soltanto ed esclusivamente in "causali" per una nuova e legittima manifestazione datoriale estintiva del rapporto di lavoro.

In presenza di tali causali, obiettivamente riscontrate nel corso del giudizio di verifica dell'illegittimità del licenziamento originario, il giudice non si può esimere (al riscontro della invalidità) dall'emettere un ordine di ripristino ex tunc del rapporto di lavoro con effetto di reintegra, la quale una volta disposta potrà essere resa inoperativa da un nuovo atto di "valido" licenziamento o risoluzione del rapporto per le causali sopra riferite notificato dal datore di lavoro al lavoratore, salvo che il lavoratore – com'è presumibile, ben edotto dei termini delle varie situazioni di fatto – non vanifichi egli stesso, con l'opzione per l'indennità sostitutiva, gli effetti preclusivi della reintegra cui sono indirizzati e finalizzati i "nuovi" e finalmente "validi" provvedimenti estintivi datoriali.

Nel nostro stesso senso si è espressa, in precedenza, autorevole dottrina (20) la quale ha asserito: "Malgrado la suggestione esercitata dalla configurazione della reintegrazione come prestazione 'dovuta in via principale', non è tanto all'impossibilità di questa…quanto all'estinzione del rapporto di lavoro, a sua volta derivante ipso iure, secondo la disciplina generale del lavoro privato, pressoché soltanto dalla morte del prestatore, che deve collegarsi l'estinzione o preclusione anche all'esercizio della facoltà alternativa, anzi ogni pretesa all'indennità. Per contro eventi come il raggiungimento dell'età pensionabile, la perdita dell'idoneità al lavoro, la stessa cessazione dell'impresa, di per sé, legittimano solo il licenziamento, a sua volta non possibile se non dopo la reintegrazione (cfr. Cass. 2.10.1987, n. 7368), cui perciò il lavoratore può sempre preferire l'indennità".

Secondo un orientamento conforme a quanto da noi sostenuto, esplicitato da Cass. 23 febbraio 1998, n. 1908 (21) – la quale ha cassato una decisione del Tribunale di Crema che aveva ritenuto di limitare il risarcimento del danno, ex art. 18 4° co., alle sole retribuzioni decorrenti dalla data del licenziamento invalido a quella della maturazione dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia, raggiunti dal lavoratore nelle more del giudizio e non già fino alla data della reintegra, sostituita dal lavoratore con opzione per l'indennità economica – "il compimento dell'età pensionabile, come il possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia (art. 11 l. n. 604/'66), determinano non già l'automatica estinzione del rapporto, ma solo la cessazione del regime di stabilità e della tutela prevista dalla legge richiamata, consentendo il recesso ad nutum (Cass. 6179/'94). Ne consegue che, nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l'insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l'emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 S.d.l (che ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. 3754 del 20.3.'95) che può essere emanato anche nelle more del giudizio".

Nel convenire con il principio – che coincide con quello da noi sostenuto – preme sottolineare l'esigenza di una corretta interpretazione dell'enunciazione della Suprema corte in ordine alla facoltizzata "adozione del nuovo e valido atto di recesso anche nel corso del giudizio". Tale atto, fondato su una sopravvenuta causale (età pensionabile, cessazione dell'attività aziendale, inidoneità al lavoro non imputabile al datore di lavoro), possederà efficacia estintiva del rapporto quando questo rapporto sarà nuovamente in vita, il che si realizzerà solo a seguito e dopo la dichiarazione giudiziale di ripristino del rapporto ex tunc, sostituibile da parte del lavoratore con l'opzione per l'indennità economica delle 15 mensilità. Ma la notifica al lavoratore in corso di giudizio (e verosimilmente nell'epoca del verificarsi degli eventi ipotizzati) seppure inoperativa fino all'emissione dell'ordine di reintegra, non sarà inutile né improduttiva di effetti ma idonea a limitare, a carico del datore di lavoro, la misura del risarcimento del danno, ex art. 18, 4° co., che si dovrà arrestare alla data (anteriore) dello spiegamento del nuovo atto estintivo e non già decorrere (ai fini del computo delle mensilità) fino all'epoca dell'emissione dell'ordine di reintegrazione.

In sostanza – salvo le due ipotesi di ripresa spontanea del servizio e di morte del lavoratore, in cui l'ordine di reintegra è privo di scopo per essersi, nel primo caso, ricostituito il rapporto e, nel secondo, validamente risolto per evento naturale sopravvenuto e "fisicamente" estintivo – tutte le altre ipotesi determinanti (secondo un non condiviso orientamento) non attualità dell'ordine di reintegra, sono del tutto irrilevanti ai fini di impedire al magistrato l'emissione di un atto necessitato dal riscontro di invalidità del recesso originario e che – come ha detto Cass. n. 1908/'98 – "ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato e che sono operative le reciproche obbligazioni". Tali causali non costituiscono affatto titoli di risoluzione automatica del rapporto di lavoro, alla cui sola estinzione si coniuga legittimamente la preclusione sia dell'ordine di reintegra sia dell'opzione per l'indennità economica, ma eventi che consentono al datore di lavoro di riappropriarsi di un potere di recesso "valido" e "giustificato", operativo su di un rapporto di lavoro in atto (e non già su un rapporto già estinto con causale sub iudice), il che può avvenire solo dopo l'emissione dell'ordine di reintegra, quale obbligazione principale, che resta surrogabile discrezionalmente con l'opzione del lavoratore per l'alternativa economica.

Passando dal teorico al pratico – e ipotizzando che sia stato emesso giudizialmente l'ordine di ripristino ex tunc del rapporto con connessa reintegra ed altresì ipotizzando che al verificarsi antecedentemente all'esito del giudizio di una delle ipotesi (es. cessazione dell'attività dell'azienda) che facoltizzano il datore di lavoro all'assunzione di un altro, diverso e valido atto estintivo del rapporto ricostituito e che tale atto sia stato puntualmente notificato all'epoca al lavoratore licenziato – il datore di lavoro destinatario dell'ordine di reintegra dovrebbe formulare al lavoratore con rapporto ripristinato un invito alla ripresa del servizio che ipotizziamo possa così suonare: "Egregio Signore, con riferimento all'avvenuta ricostituzione giudiziale del rapporto di lavoro (a suo tempo risolto con atto invalido del …), Le formuliamo, ai sensi di legge, l'invito alla ripresa del servizio che tuttavia ha mero carattere virtuale. Infatti a seguito del nuovo provvedimento estintivo comunicatoLe 5 mesi fa (secondo il quale il Suo rapporto di lavoro qualora ricostituito giudizialmente ex tunc avrebbe dovuto considerarsi comunque risolto per intervenuta cessazione totale dell'attività aziendale 5 mesi fa), Le comunichiamo che non possiamo dar corso obiettivamente ad una Sua ripresa effettiva del servizio presso l'azienda. Resta naturalmente ferma la Sua facoltà di legge di effettuare opzione, in luogo della reintegra virtualmente offertaLe, per l'indennità economica delle 15 mensilità di retribuzione globale di fatto, con la percezione delle quali il Suo ricostituito rapporto di lavoro viene definitivamente ad estinguersi ad ogni effetto".

In sostanza anche la notifica dell'adozione di un "nuovo" provvedimento validamente estintivo, in quanto si innesta su un rapporto non in atto per intervenuto licenziamento in corso di accertamento, non potrà produrre effetti estintivi retroattivi (per l'epoca della sopravvenuta cessazione d'attività dell'azienda) ma diverrà operativo ed efficace (come il licenziamento in malattia che diviene efficace alla data della ripresa del servizio) alla data di ripristino giudiziale del rapporto e sul rapporto ripristinato, valendo il nuovo e valido provvedimento estintivo (comunicato antecedentemente) come esimente di responsabilità e con effetti interruttivi della mora del debitore/datore di lavoro al punto tale da limitare il risarcimento del danno, ex art.18, 4° co. a carico del datore di lavoro, fino alla data della comunicazione del provvedimento medesimo, di norma coincidente con quella dell'avvenuta cessazione dell'azienda. Se invece fosse stato carente anche il "nuovo" provvedimento estintivo, in quanto non notificato al lavoratore in epoca antecedente, il risarcimento del danno sarebbe stato pieno, comprensivo cioè di tutte le mensilità dalla data dell'originario licenziamento e fino all'epoca del ripristino giudiziale del rapporto invalido.

Si potrà dire che questa è una impostazione ispirata a favor operari, ma è comunque una impostazione tendenzialmente improntata a rigore giuridico, che sembra invece, a nostro avviso, far difetto o non risultare per noi appagante in quelle costruzioni che in luogo di individuare nelle causali suppostamente determinanti inattualità dell'ordine di reintegra, non già ipotesi di estinzione automatica del rapporto di lavoro ma solo e soltanto nuove ipotesi per lo spiegamento di un "nuovo" atto estintivo (con effetti riduttivi del risarcimento di danno ex art. 18. 4° co., se assunto nel corso del giudizio) gli accredita, invece, idoneità preclusiva sia dell'emissione dell'ordine di reintegra sia della genesi del diritto all'opzione economica, giustappunto in quanto presuppone o considera tali eventi di impossibilità sopravvenuta dotato ex se di una idoneità estintiva automatica del rapporto che non trova spazio alcuno nel nostro diritto del lavoro privato.

Si potrà anche dire che la soluzione presenta aspetti di "gravosità" o "iniquità" per la parte datoriale – la quale ha tuttavia la responsabilità di aver innescato il procedimento legale con lo spiegamento del licenziamento invalido, per cui ubi commoda, ibi eius et incommoda – ma la stessa dose di "gravosità" è insita nell'opzione per l'alternativa economica delle 15 mensilità forfettarie, da parte del lavoratore cui "manchino pochi mesi al sicuro collocamento a riposo" (22). D'altra parte bisogna essere coerenti nel trarre le conseguente da un costrutto giuridicamente fondato, piuttosto che rincorrere soluzioni - apparentemente più equitative – ma meno appaganti dal lato giuridico. Fra questa soluzioni "mediane" o "equitative" si colloca Cass. 13 febbraio 1993 n. 1815 (23) la quale - in ipotesi di cessazione dell'attività dell'azienda nelle more del giudizio - ha statuito, senza farsi carico di argomentare le (poco condivisibili) conclusioni raggiunte, che: " ..qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria d'illegittimità del licenziamento in precedenza intimatogli e per ottenere la reintegrazione ed il risarcimento del danno, sopravvenga un accadimento che renda impossibile la prestazione per causa non imputabile ad una delle parti ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c. (nella specie per avvenuta cessazione totale dell'attività aziendale), il giudice che accerti l'illegittimità del pregresso licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno con riguardo al periodo compreso fra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto". Invero, come già evidenziato, il vizio della decisione risiede nell'affermazione apodittica secondo cui la cessazione dell'attività dell'azienda costituisce ipso iure una "sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto", automaticamente operativa anche senza che su di essa il datore abbia fondato un "nuovo" e "valido" atto di recesso e, quindi, si atteggia a causale estranea (se non rifluente nel g.m.o., puntualmente azionato con atto di recesso dal datore di lavoro) all'ambito del nostro diritto del lavoro privato che, come ha ricordato una recente sentenza della Cassazione (24), riconosce nelle seguenti le sole modalità di estinzione legittima del rapporto: a) il licenziamento (per giusta causa, per giustificato motivo o ad nutum), b) le dimissioni; c) l'estinzione per muto consenso; e) lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall'art. 18, 5° c., l. n. 300/70, cui si può aggiungere f) il raggiungimento della massima anzianità contributiva e, comunque del sessantacinquesimo anno, in ipotesi di opzione esercitata ex artt. 6 l. n. 54/1982 e l. n. 407/1990 (come modificata dall'art. 1, comma 2°, l,. n. 503/1992), ipotesi nella quale il raggiungimento di questi requisiti determina, per espressa previsione di legge, l'automatica estinzione del rapporto di lavoro senza obbligo di preavviso.

 

 

3b) L'impossibilità sopravvenuta di emissione (o eseguibilità) dell'ordine di reintegra per fatto imputabile al datore di lavoro non preclude comunque il diritto all'opzione per l'alternativa economica.

Sostanzialmente la differenza tra la tesi da noi nuovamente riproposta, in forma più articolata di altri in precedenza, in ordine al diritto potestativo per l'alternativa economica non precludibile da eventi di impossibilità sopravvenuta della prestazione (non imputabile ad alcuna delle parti) e la tesi di coloro che invece ritengono il diritto all'alternativa economica insuscettibile di sorgere (in quanto subordinato) per impossibilità sopravvenuta di resa della prestazione da parte del lavoratore in conseguenza di eventi di suppostamente estintivi automaticamente del rapporto, risiede tutta quanta sulla convinzione – da parte nostra – della necessità che le causali di impossibilità sopravvenuta siano azionate dal datore di lavoro come titoli di "nuova" risoluzione del rapporto, quando invece gli altri opinano che tali causali (in quanto considerati a torto eventi di risoluzione automatica del rapporto) possiedano ex se una loro autonoma ed obiettiva idoneità preclusiva sia nei confronti dell'ordine di reintegra sia dell'alternativa economica subordinata, al cui riscontro nel corso del giudizio il magistrato risulterebbe impedito di disporre il rimedio ripristinatorio di un provvedimento espulsivo invalido.

Non possiamo a conclusione che ribadire l'opinione secondo la quale il magistrato è tenuto – al riscontro di un provvedimento invalido – ad emettere l'ordine di reintegra, senza farsi carico se esso sarà poi operativo o meno, perché spetta al datore di lavoro di adottare le misure per renderlo inoperante o inattuabile, al sopravvenire di ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, attraverso nuovi e validi atti