L'irrilevanza della intenzionalità nella condotta antisindacale (di Mario Meucci)

 

Sommario:

  1. 1. I tre precedenti orientamenti in tema di condotta antisindacale

  2. 2. La teoria “volontaristica”, quella della “obiettività” e quella “compromissoria”

  3. 3. La decisione n. 5295 del 12.6.1997 delle Sezioni unite della Cassazione

  4. 4. L’impegno critico e demolitivo delle sezioni unite e l’opzione per la teoria della “obiettività” nel riscontro dell’antisindacalità della condotta datoriale

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1. I tre precedenti orientamenti in tema di condotta antisindacale

 

Con la decisione n. 5295 del 12 giugno 1997le sezioni unite della Cassazione hanno posto fine ad un contrasto interno alla sezione lavoro della S. Corte, affermando l’importante – e secondo taluno dirompente - principio dell’irrilevanza, per la concretizzazione della condotta antisindacale, dell’elemento psicologico, cioè a dire dell’intenzione dolosa o colposa del datore di lavoro, sufficiente risultando, in fatto, che il comportamento dello stesso abbia implicato un pregiudizio alla libertà sindacale e al diritto di sciopero.

 

Le sezioni unite si sono espresse nei seguenti termini: “Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicchè ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero”(1).

 

Precedentemente all’indirizzo sopraasserito, si erano andati formando tre orientamenti in seno alla Cassazione: a) quello valorizzante l’elemento “soggettivo, psicologico o intenzionale” del datore di lavoro affinchè il torto o danno inflitto al sindacato potesse rivestire i requisiti della condotta antisindacale repressa dall’art. 28 statuto dei lavoratori; b) quello che riteneva sufficiente il solo elemento “oggettivo” dell’idoneità della condotta datoriale a produrre nocumento in capo a diritti e prerogative del sindacato; c) infine, quello “mediano”, “intermedio” o “compromissorio”, - affermatosi più di recente -secondo il qualel’intenzionalità del comportamento posto in essere dal datore di lavoro mentre è irrilevante nel caso di condotta contrastante con norma imperativa (disponente, ad es., prerogative per il sindacato, quali quelle accordate dal tit. II e III della L. n. 300/’70 o dall’art. 40 Cost.), viceversa può assumere rilevanza quando tale condotta, pur se lecita nella sua obiettività, presenti i caratteri dello “abuso di diritto”,e perciò stesso collida (con)od obliteri i principi di correttezza e buona fede che, integrativamente, assistono le modalità di esecuzione delle obbligazioni tra le parti nel rapporto di lavoro.

 

 

 

2. I tre precedenti orientamenti in tema di condotta antisindacale

 

Secondo la teoria di cui al punto a) -di recente sostenuta, fra le molte in precedenza, da Cass. 19.7.1995 n. 7833 (2), da Cass. 12.8.1993, n. 7833 (3), da Cass. 30.7.1993, n. 8518 (4), da Cass. 5.12. 1991, n. 13085 (5), da Cass. 1.6.1990, n. 207 (6), ecc. -il comportamento del datore di lavoro poteva ritenersi antisindacale allorquando, oltre ad essere causalmente idoneo a ledere l’art. 28, fosse stato dal datore di lavoro a tal fine volontariamente indirizzato, cioè sorretto da una intenzione cosciente e volontaria di ledere i diritti della controparte.

 

Non v’è chi non veda come questa tesi, accollando al sindacato l’onere di dimostrare la volontarietà della condotta datoriale (7), fornisse numerose scappatoie per l’imprenditore nel caso in cui il sindacato ricorrente, a fronte di una plateale violazione dei propri diritti, non riuscisse a fornire la prova che la lesione era inflitta sulla base di una scelta consapevole, volontaria ed intenzionale del datore di lavoro che ad essa, in ipotesi e strumentalmente, asseriva di essersi determinato fortuitamente, senza dolo o colpa.

 

A questa teoria –caldeggiata dalla dottrina con propensioni datoriali – si opponeva l’altra (di cui al punto b), sostenuta, tra le molte sentenze, da Cass. 22.7.1992, n. 8815 (8), da Cass. 16.7.1992, n. 8610 (9), da Cass. 3.7.1992, n. 8143 (10), ecc., secondo cui la condotta antisindacale doveva ravvisarsi esclusivamente in base al c.d. “requisito oggettivo” o attitudine o idoneità del comportamento datoriale a impedire o limitare la libertà sindacale, con la conseguenza che una volta accertata giudizialmente la lesione del diritto, non si rendeva in alcun modo necessaria un’ulteriore indagine circa l’intenzione del datore di lavoro di porre in essere tale lesione.

 

La contrapposizione fra le due teorie aveva favorito il sorgere di un tentativo compromissorio – estrinsecantesi in quell’orientamento di cui al punto c) sostenutotra l’altro (ed anche dopo l’attuale decisione delle sezioni unite ma nelle more della pubblicazione e conseguente cognizione), da Cass. 5.7.1997, n. 6080 (11),da Cass. 8.9.1995 n. 9501 (12)da Cass. 15.7.1995, n. 7833 (inedita) - secondo il quale “in tema di condotta antisindacale, l’intenzionalità del comportamento del datore di lavoro, mentre è irrilevante nel caso di comportamento contrastante con norma imperativa, può assumere rilevanza quando la condotta del medesimo, pur se lecita nella sua obiettività, presenti i caratteri dell’abuso del diritto, giacchè in tal caso l’esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed è indirizzato a fine diverso da quello tutelato dalla norma, assumendo quindi …nel campo delle obbligazioni, e del rapporto di lavoro in particolare, carattere di illiceità per contrasto con i principi di correttezza e di buona fede, i quali assurgono a norma integrativa del contratto di lavoro in relazione all’obbligo di solidarietà imposto alle parti contraenti dalla comunione di scopo che entrambe, sia pure in diversa e talora opposta posizione, perseguono” (così Cass. n. 9501/’95). Sostanzialmente quest’orientamento “mediano” o “compromissorio” recuperava in parte la tesi volontaristica per la valutazione di comportamenti datoriali lesivi di dirittic.d. innominati del sindacato e delle R.S.A, nel senso di non appositamente disciplinati da norme di legge quali quelli codificatinel tit. II e III dello statuto dei lavoratori, afferenti (esemplificativamente e non esaustivamente) al diritto di associazione sindacale (art. 14), al divieto di comportamenti discriminatori (art. 16), al diritto di costituzione di R.S.A (art.19),di assemblea (art. 20), di referendum (art. 21) di fruizione di permessi sindacali (art. 23 e 24), di affissione (art. 25) e di locali aziendali per le R.S.A (art. 27).

 

 

 

3. La decisione n. 5295 del 12.6.1997 delle Sezioni unite della Cassazione

 

In questo contesto è intervenuta la decisione delle sezioni unite, effettuando una decisa opzione verso l’orientamento “oggettivo”, di cui al punto b) del nostro articolo.

 

Per negare qualsiasi spazio di validità alla teorica “volontaristica” – implicante la ricerca dell’elemento intenzionale – le sezioni unite hanno asserito che l’orientamento in questione era stato costruito sul modello risarcitorio dell’illecito (ex art. 2043 c.c.), quando invece la scelta legislativa codificata nell’art. 28 era caratterizzata dalla tutela inibitoria, in vista di impedire il prodursi degli effetti dannosi ed il loro reiterarsi in futuro.

 

Sostengono le sezioni unite che la tesi basata “volontaristica” fondata sull’importanza paradigmatica dell’art. 2043 c.c. (rubricato “risarcimento per fatti illeciti”, secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”) “non tiene conto del fatto che in tal modo una gran parte degli illeciti civili sarebbe del tutto priva di sanzione, così quelli che non hanno prodotto, o non hanno prodotto ancora, un danno patrimoniale; ovvero quelli in cui l’autore ha causato un danno patrimoniale senza dolo o colpa”. “In tal modo …non si tiene presente che, nel caso in cui la condotta illecita sia di natura che possa continuare a ripetersi nel futuro, una reazione efficace non può essere costituita dalla sola azione risarcitoria”…”In realtà quando l’illecito può continuare a ripetersi nel futuro, l’unica reazione è costituita dall’azione inibitoria: un’azione direttaad ottenere non la condanna del convenuto al risarcimento del danno che ha causato, ma l’ordine del giudice rivolto alla parte soccombente di inibire la continuazione della condotta illecità…o di cessazione del fatto lesivoL’ordine può avere come contenuto un non fare (inibitoria negativa nei casi di illecito commissivo…) o anche un non fare (inibitoria positiva, nei casi di illecito omissivo…). L’emanazione dell’ordine da parte del giudice non costituisce mera ripetizione di ciò che è già prescritto dalla legge, ma produce effeti di carattere civile e penale. I primi sono previsti, ad es….dall’art. 18, comma 7 della l. n. 300/’70 che dispone che il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. Gli efftti penali sono invece previsti dall’art. 388 del c.p., per i casi di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”. Sulla base di tali affermazioni, le sezioni unite giungono alla conclusione che “ la natura inibitoria dell’azione a tutela della libertà sindacale induce a ritenere che ai fini della configurabilità di un comportamento antisindacale, sia irrilevante l’elemento psicologico del datore di lavoro e che ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il risultato che la legge intende impedire, e cioè, la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.

 

Nella sua determinazione demolitiva dell’orientamento delineato al punto a) del presente scritto, le sezioni unite proseguono asserendo- con una doppia negazione che secondo taluno(13)designerebbe un’inequivocabile scelta di campo (evidentemente a favore del sindacato o dell’opzione “oggettiva”) -che la “sussistenza o meno di un intento del datore di lavoro di ledere tali diritti non è necessaria né sufficiente. Non è necessaria perché un errore di valutazione del datore di lavoro (che non si è reso conto della portata causale della sua condotta ) non fa venir meno l’esigenza di una tutela della libertà sindacale e della inibizione dell’attività oggettivamente lesiva di tale libertà. Non è sufficiente in quanto l’intento del datore di lavoro non può far considerare antisindacale un’attività che non appareobiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale”.

 

Queste considerazioni hanno provocato l’irritata reazione di dottrina “imprenditorialmente orientata” la quale, nel vedersi sbriciolare una costruzionepuntellata

 

per anni, non ha potuto fare a meno di sottolineare, con enfasi amplificativa dell’intento di dissociazione, che “la formula espressiva (della doppia negazione, n.d.r ) suscita non poche perplessità, in ragione del suo contenuto totalizzante. La doppia negazione …induce a svuotare di qualsiasi possibile rilievo il profilo soggettivo, attribuendo ala fattispecie normativa una valenza esclusivamente oggettiva. In effetti, l’affermazione secondo la quale non sarebbe ‘necessario(ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro’, tende inequivocabilmente a svalorizzare il profilo volontaristico…E’ evidente, infatti, che, se l’intento lesivo non dovesse ritenersi né necessario né sufficiente, esso risulterebbe del tutto ininfluente, come tale svuotato di alcuna specifica valenza, al punto da essere relegato in un limbo giuridico. L’obiettivo i tal modo perseguito consiste nell’assegnazione alla nozione di condotta antisindacale di una proiezione esclusivamente oggettiva, generalizzando in tal modo l’assioma secondo il quale un qualsiasi comportamento, seppure tecnicamente lecito, potrebbe incorrere nella declaratoria di antisindacalità, ove come tale percepito da uno qualsiasi degli organismi locali dei sindacati nazionali a ciò legittimato, e come tale apprezzato dall’autorità giudiziaria”(14).

 

 

 

4. L’impegno critico e demolitivo delle sezioni unite e l’opzione per la teoria della “obiettività” nel riscontro dell’antisindacalità della condotta datoriale

Ma le sezioni unite non si limitano a queste considerazioni. Infatti, sono anche svalorizzati, con opportuna analisi critica, i tre principali criteri- letterale, teleologico e sistematico – propostie posti, dai loro sostenitori, a base della teorica della rilevanza decisiva della “volontarietà” datoriale nell’inflizione del torto al sindacato onde ritenere legittimamente operativa elegalmente legittima la reazione siandacale e la sanzione ex art. 28 statuto dei lavoratori.

 

Dai sostenitori della tesi avversata si era sostenuto che:

 

a)      dal lato letterale, l’espressione “comportamenti diretti a impedire o limitare” era indicativa di una finalizzazione cosciente e volontaria della condotta datoriale. Le sezioni unite sostengono, invece, che la locuzione ha solo fotografato la situazione della “obiettiva” idoneitàlesiva della condotta datoriale senza implicare alcun riferimento all’intenzione datoriale di produrre quel determinato risultato. Anzi, poiché quando il legislatore ha voluto far riferimento all’intenzionalità dolosa o colposa, lo ha fatto espressamente- nell’art. 2043 c.c. – il non aver ripetuto il precedente, porta al concludente risultato che non ha ritenuto sussistesse una similare necessità;

 

b)      b) dal lato teleologico o finalistico, l’orientamento declinato (come l’altro opzionato) sostenevano che la disposizione dell’art. 28 era stata posta per assicurare il corretto svolgimento delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro, attraverso una severa penalizzazione del comportamento datorialenon rispettoso delle regole. Se così è, comein effetti è – sostengono le sezioni unite – tale finalità è meglio assicurata e perseguita con una tutela di tipo “obiettivo”, non condizionata dalla ricerca dell’intenzionalità (o meno) del datore di lavoro. Poiche, inoltre tutta la disciplina dell’art. 28 tende non già a punire il datore di lavoro e ad assicurare il risarcimento del danno, quanto a garantire l’inibizione e la repressione della condotta lesiva, tale finalità, in questa come in tutte le azioni civilistiche di tipo inibitorio, è meglio perseguita con una tutela di carattere obiettivo, atteso che l’eventuale introduzione dell’elemento “soggettivo o volontaristico” finirebbe altresì per determinare un’ingiustificata disparità di trattamento in casi che presentano uguali necessità di tutela, in quanto uguale è l’interesse giuridicamente rilevante, consistente – a prescindere dall’intenzionalità datoriale(o meno) – nella inibizione della condotta lesiva della libertà sindacale;

 

c)      dal lato sistematico, i sostenitori della teorica della “intenzionalità” asserivano che la c.d. “responsabilità oggettiva” era u istituto eccezionale sottoposto a continua erosione. Le sezioni unite replicanoasserendo che, al contrario, è in continuo sviluppo tanto da essere considerato come un principio generale nell’attivitàimprenditoriale, con la nota ed oramai sempre più recepita dottrina del cosiddetto “rischio d’impresa”.

 

Ricollegandosi poi, indirettamente, all’orientamento “compromissorio” delineato al punto c) del nostro articolo, le sezioni unite – per sgombrare definitivamente il campo da ogniequivoco o da residuati di costruzioni intellettualistiche (anche di un certo pregio, esclusion fatta per l’inesattoriferimento alla “comunità d’impresa”, più pertinente al diritto tedesco del lavoro che a quello italiano caratterizzato notoriamente dall’inattuazione del modello partecipativo delineato nell’art. 46 Cost., riscontrabile in Cass. n. 9501/’95) – asserisce chel’elemento intenzionale non solo è irrilevante nelle condotte datoriali contrarie a diritti sanciti da norme imperative (quelli del tit. II e III della l. n. 300/’70, di cui fornisce una esemplificazione) ma anche nei casi di lesione diritti innominati e non codificati per la loro difficile ipotizzazione legislativa, cioè a dire quando si versi nell’ipotesi del ricorso a strumenti o soluzioni, in astratto leciti, ma, nelle circostanze concrete, oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare o comprimere la libertà sindacale.

 

Si tratta di una decisione indubbiamente di notevole rilevanza, destinata a conferire maggiore pienezza ed effettività all’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cioè a dire alla più incisiva misura dissuasiva e vanificatrice di atti diretti ad arrecare pregiudizio e nocumento al ruolo e alle prerogative delle strutture sindacali. Decisione cui dovranno, d’ora in poi, conformarsi le varie sezioni della Cassazione, considerato la funzione assicuratrice di uniformità e standardizzazione delle statuizioni delle sezioni unite della stessa.

 

 

 

Mario Meucci

 

(pubblicato in D&L, Riv, crit. dir. lav. 1998, 2, 293)

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1)Cass. sez. un. n. 5295 del 12.6.1997 – di cui abbiamo riferito la massima -è integralmente riportata in Mass. giur. lav. 1997, 541 (con nota dissenziente di Papaleoni, Intenzionalità e condotta antisindacale) nonchéin Not. giurisp. lav. 1997, 335.

 

(2) In Not. giurisp. lav. 1995, 516.

 

(3)In Not. giurisp. lav. 1993, 785.

 

(4)In Riv. it. dir. lav. 1994, II, 303, con nota di Pizzoferrato, Contenuto e limiti del diritto alla trattativa nel settore pubblico.

 

(5) In Not. giurisp. lav. 1992, 165.

 

(6) In Not. giurisp. lav. 1990, 318.

 

(7)Vedi, tra le molte nella giurisprudenza di merito, Pret. Bergamo 20.7.1991, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 340; Pret. Pordenone 21.5.1986, ibidem 1986,II, 99 con nota di Cecchella; Trib. Parma 1.10.1984, in Giur. it. 1985, I,2, 405 con nota di Ardau.

 

(8) In Not. giurisp. lav. 1992, 611.

 

(9) In Riv. giur. lav. 1992, II, 841, con nota di Malpeli.

 

(10) In Mass. giur. lav. 1992, 345.

 

(11) In Mass. giur. lav., Mass. Cass. 1997, 58, n. 179.

 

(12) In Mass. giur. lav. 1996, 14 con nota di Papaleoni, Nozione di antisindacalità e abuso del diritto.

 

(13) Papaleoni, in Intenzionalità e condotta antisindacale, cit. 546.

 

(14) Così Papaleoni, in op. cit. 546.