Tempo di lavoro e tempo di vita (di Stefano Chiusolo)

1. Una svolta culturale - 2. Orario di lavoro, lavoro straordinario e notturno - 3. Lavoro a tempo parziale -  4. La L. 53/00: tempi di lavoro e tempi di vita - 5. (segue) Il trattamento del genitore lavoratore - 6. (segue) Altri permessi parentali e per la formazione.

 

1)     Una svolta culturale

In meno di tre anni il legislatore ha emanato numerosi provvedimenti che, pur essendo apparentemente indipendenti, sono tra loro accomunati dal fatto di disciplinare i tempi di lavoro e i tempi di vita. Le norme in questione sono le seguenti:

  • art. 13 L. 24/6/97 n. 196, che ha in particolare stabilito il tetto dell'orario massimo di lavoro;
  • DL 29/9/98 n. 335, convertito, con modificazioni, in L. 27/11/98 n. 409, recante disposizioni in materia di lavoro straordinario;
  • Art. 17 L. 5/2/99 n. 25, che ha modificato la disciplina del lavoro notturno;
  • D. Lgs. 25/2/00 n. 61, recante norme relative al rapporto di lavoro a tempo parziale;
  • D. Lgs. 8/3/00 n. 53, contenente norme di disciplina dei permessi parentali e del coordinamento dei tempi delle città.

E' sicuramente significativo che il legislatore abbia affrontato la materia dei tempi di lavoro e di vita con una tale quantità di norme, per di più emanate in un lasso di tempo certamente breve, soprattutto se si pensa alla ormai proverbiale lentezza del legislatore. Il fatto è che, con estrema probabilità, l'emanazione di questa nuova legislazione non è casuale, ma risponde ad una ben precisa scelta di tipo culturale da parte del legislatore, che si è reso conto di come, una volta assicurato il benessere materiale, almeno ad una larga fascia della popolazione, la vera ricchezza non stia tanto nel possesso dei beni, quanto piuttosto nella disponibilità di tempo libero. In questa prospettiva, il tempo diventa un bene in senso tecnico - giuridico, di cui il legislatore non può disinteressarsi: ecco allora che il legislatore, da sempre restio ad introdurre una regolamentazione del tempo (sia di lavoro che di vita), ha cominciato ad occuparsene. Il disegno che allo stato ne scaturisce è sicuramente ancora parziale, anche perché il processo è inevitabilmente lungo ed articolato; tuttavia, sin d'ora si può dire che il tempo non è più una nozione astratta e giuridicamente irrilevante, dal momento che il legislatore lo disciplina, per di più - come si vedrà - cercando di accrescere il tempo libero delle persone e di non sacrificarlo, almeno e per il momento nei casi di maggiore necessità, al tempo di lavoro.

Si tratta di primi e forse timidi interventi, che però sono accomunati dalla consapevolezza che il tempo delle persone, complessivamente inteso, non può essere dedicato al lavoro in misura superiore allo stretto indispensabile: per questo viene compiutamente disciplinato il lavoro a tempo parziale, ovvero una forma di lavoro che consente un'ampia disponibilità di tempo libero o comunque la possibilità di coltivare diversi interessi di vita o di lavoro; per questo vengono introdotti o estesi permessi finalizzati alla cura di importanti relazioni parentali; per questo il legislatore sente il bisogno di riavvicinare l'orario di lavoro legale a quello contrattuale e di rendere più attuale la disciplina legislativa del lavoro straordinario.

Del resto, che queste norme rappresentino il frutto di una consapevole scelta legislativa e di un unitario disegno culturale è dimostrato anche dal fatto che lo stesso legislatore, in più occasioni, ha dichiarato che sarà emanata una normativa organica in materia di orario di lavoro. Questa dichiarazione di intenti è contenuta nell'art. 13 L. 196/97, che introduce un limite all'applicazione dei commi 2 e 3 dell'art. 5-bis RDL 15/3/23 n. 692, convertito in L. 17/4/25 n. 473[1], precisando appunto che quei commi, con quella limitazione, continueranno a trovare applicazione fino a che non sarà emanata una nuova normativa in materia di tempi di lavoro. Ancora più significativo, da questo punto di vista, è il DL 29/9/98 n. 335, convertito, con modificazioni, in L. 27/11/98 n. 409, che si apre proprio con le parole "In via transitoria, in attesa della nuova disciplina dell'orario di lavoro […]". Infine, anche l'art. 17 c. 2 L. 25/99 prende in considerazione la "approvazione della legge organica in materia di orario di lavoro", delegando il governo, fino ad allora, ad emanare decreti legislativi in materia di lavoro notturno.

Insomma, si sta forse verificando un profondo mutamento culturale, che segna il passaggio da una visione prettamente capitalistica della ricchezza, fatta di possesso di beni materiali, per ottenere i quali il tempo di vita ben può essere sacrificato al tempo di lavoro, ad una visione diversa, che presuppone certo un discreto livello di benessere collettivo, ma che a questo non si ferma, aspirando invece ad una forma di ricchezza fatta di tempo libero. Questo processo culturale, che evidentemente è agli inizi, comporta sul piano giuridico che il tempo diventa un bene, oggetto quindi di disciplina legislativa e di diritti e doveri delle parti.

2)     Orario di lavoro, lavoro straordinario e notturno

Il nuovo e complessivo riassetto della materia del tempo di lavoro e del tempo di vita è stato avviato dall'art. 13 L. 24/6/97 n. 196. Come già si diceva, con tale norma, il legislatore, dopo numerosi decenni di completo disinteresse, durante i quali la normativa legale era stata di fatto abbondantemente superata da quella collettiva, ha definito in 40 ore l'orario normale di lavoro, assegnando alla contrattazione collettiva nazionale la facoltà di stabilire una durata inferiore, nonché di riferire l'orario normale di lavoro alla durata media delle prestazioni lavorative in un dato periodo, non superiore all'anno.

Il secondo passaggio di questo processo è avvenuto con il DL 29/9/98 n. 335, convertito, con modificazioni, in L. 27/11/98 n. 409, recante disposizioni in materia di lavoro straordinario. A differenza dell'art. 13 L. 196/97 - che, come si è visto, aveva semplicemente limitato la portata della disciplina già vigente in tema di lavoro straordinario -, la norma ora in esame provvede a ridisegnare completamente l'istituto del lavoro straordinario, sostituendo integralmente l'art. 5-bis RDL 692/23. Tuttavia, come già aveva fatto l'art. 13 L. 196/97, la modifica è transitoria, e sempre in attesa della nuova disciplina dell'orario di lavoro.

Il principio fondamentale introdotto dalla nuova disciplina è che il lavoro straordinario deve essere contenuto. La legge stessa provvede a fornire i parametri per meglio definire la nozione di lavoro straordinario contenuto: nel caso in cui la materia non sia disciplinata ad opera dei contratti collettivi nazionali, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, il lavoro straordinario è ammesso nel limite di 250 ore annuali e di 80 ore trimestrali. Inoltre, anche al di sotto del limite introdotto dalla legge, e sempre in assenza di una disciplina ad opera della contrattazione collettiva nazionale, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo previo accordo tra datore e prestatore di lavoro: anche questa è una novità significativa, se si pensa che, in precedenza, il lavoro straordinario era pacificamente obbligatorio, ovviamente nei limiti quantitativi posti dalla contrattazione collettiva.

La norma in esame ha anche indicato le ipotesi in cui, a prescindere dal consenso del lavoratore e dai limiti temporali di cui si è appena detto, il lavoro straordinario è ammesso. Si tratta di tre casi, evidentemente tassativi: il primo è quello già noto delle eccezionali esigenze tecnico - produttive, con l'impossibilità di fronteggiarle attraverso l'assunzione di altri lavoratori; il secondo riguarda la forza maggiore o l'ipotesi in cui la cessazione del lavoro a orario normale costituisca un pericolo o un danno alle persone o alla produzione; il terzo concerne le mostre, le fiere e le manifestazioni collegate all'attività produttiva, all'allestimento di prototipi, modelli o simili predisposto per le stesse. In ogni caso, la legge attribuisce ai contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, la facoltà di introdurre diverse ipotesi in cui ammettere, o non ammettere, il lavoro straordinario.

Il DL 335/98 ha anche introdotto obblighi di informazione a carico del datore di lavoro. In primo luogo, titolare del corrispondente diritto è la Rsu o la Rsa o, in mancanza, le associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Costoro debbono essere informati, nel termine di 24 ore dall'inizio delle relative prestazioni, nel caso in cui lo straordinario sia dovuto a esigenze tecnico - produttive o a casi di forza maggiore. In secondo luogo, l'informazione deve essere resa, sempre nel termine di 24 ore, alla Direzione provinciale del lavoro - Settore ispezione del lavoro, che ha anche il compito di vigilare sulle norme che si stanno esaminando, ma solo in caso di superamento delle 45 ore settimanali.

Per ogni lavoratore adibito a lavoro straordinario oltre i limiti temporali e al di fuori dei casi previsti dalla legge, il datore di lavoro deve versare una sanzione amministrativa, compresa tra L. 100.000 e L. 300.000.

Nell'ambito dell'orario di lavoro deve essere certamente ricompreso anche il lavoro notturno, pure oggetto della recente attenzione da parte del legislatore, che ha profondamente innovato la materia, modificando l'art. 5 L. 903/77, anche per venir incontro agli obblighi dell'Italia, derivanti dall'appartenenza alla Comunità Europea[2]. A seguito delle modifiche apportate dalla L. 25/99, è vietato adibire le donne al lavoro, dalle ore 24 alle ore 6, a far tempo dall'accertamento dello stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di età da parte del bambino. In altri casi, il lavoro notturno non è vietato, ma è subordinato al consenso del lavoratore. Titolare della facoltà di rifiutare il lavoro notturno sono le seguenti categorie di lavoratori: la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, alternativamente, il padre convivente con la stessa; la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni; la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ex L. 104/92.

Sebbene, come si è detto, la modifica all'art. 5 L. 903/77 sia stata forse prioritariamente dettata dalla già segnalata necessità di adeguarsi agli obblighi comunitari, il legislatore non ha perso l'occasione per inserire nuovi tasselli nel disegno di cui si parla. In particolare, infatti, il legislatore, conferendo al governo la delega ad emanare decreti legislativi in materia di lavoro notturno, ha disposto che il governo dovrà attenersi ad alcuni principi, tra cui spicca il rinvio alla contrattazione collettiva per la determinazione di una riduzione dell'orario di lavoro settimanale e mensile (oltre che di una maggiorazione retributiva) a favore di chi presta lavoro notturno: è qui evidente il riconoscimento, da parte del legislatore, della particolare gravosità di questo tipo di lavoro, che merita di essere premiata non più solo con una maggiorazione retributiva, ma forse soprattutto con una diminuzione complessiva del tempo di lavoro.

3)     Lavoro a tempo parziale

Un considerevole passo in avanti, in direzione del riassetto della materia del tempo di lavoro e di vita, e sempre in attesa di un organico intervento legislativo, è compiuto dal D. Lgs. 61/00, con cui viene disciplinato il rapporto di lavoro a tempo parziale. E' noto che l'istituto aveva già cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico; tuttavia, fino al decreto legislativo in questione la materia era disciplinata in maniera affatto incompleta e disorganica: per convincersene, è sufficiente confrontare la nuova normativa con l'art. 5 DL 30/10/84 n. 726, convertito, con modificazioni, in L. 19/12/84 n. 863, che aveva introdotto l'istituto nel nostro ordinamento e che ora è stato abrogato. Naturalmente, questo nuovo ed accresciuto interesse da parte del legislatore nei confronti del lavoro a tempo parziale non può che essere letto nel senso di un apprezzamento nei confronti di questo istituto che, come già si diceva, comporta un'ipotesi di flessibilità del lavoro in senso favorevole al lavoratore, giacché quest'ultimo, scegliendo un rapporto di lavoro a tempo parziale, decide di avere il tempo per occuparsi di svariati interessi, privati o professionali.

La nuova disciplina dell'istituto attribuisce al rapporto di lavoro a tempo parziale non solo cittadinanza nell'ordinamento, che già possedeva, ma anche e soprattutto pari dignità rispetto al lavoro a tempo pieno: l'art. 1 c. 1 dispone infatti che in un rapporto di lavoro subordinato l'assunzione può avvenire a tempo pieno o a tempo parziale. In altre parole, è da intendersi superata la tradizionale nozione di rapporto di lavoro subordinato, che contemplava l'ipotesi del rapporto a tempo indeterminato e a tempo pieno. Al contrario, l'ordinario rapporto di lavoro subordinato è oramai quello a tempo indeterminato tout-court, a prescindere dal fatto che sia a tempo pieno o a tempo parziale. In ogni caso, anche il rapporto a tempo determinato può essere a tempo parziale, per espressa previsione dell'art. 1 c. 4.

Fatta l'importante enunciazione di principio di cui sopra, il decreto legislativo fornisce alcune definizioni (art. 1 c. 2): per lo più, si tratta di concetti già noti, ma solo a seguito dell'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale:

  • il tempo pieno è il normale orario di lavoro di cui all'art. 13 c. 1 L. 196/97, o l'eventuale minor orario normale di lavoro fissato dai contratti collettivi;
  • il tempo parziale è l'orario di lavoro cui un lavoratore è tenuto, che sia stato fissato nel contratto individuale e che risulti comunque inferiore a quello normale di cui sopra;
  • il rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale è il rapporto in cui la riduzione dell'orario, rispetto al tempo pieno, è prevista in relazione al normale orario giornaliero;
  • il rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale è il rapporto in cui l'attività lavorativa è prestata a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati della settimana, del mese o dell'anno[3];
  • il lavoro supplementare è quello corrispondente alle prestazioni lavorative svolte oltre il tempo parziale ma entro il tempo pieno.

Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta[4] (art. 2 c. 1). Peraltro, la forma scritta è richiesta solo ai fini della prova[5]; in mancanza della forma scritta, è ammessa la prova per testimoni nei limiti di cui all'art. 2725 c.c., quindi quando il contraente abbia perduto, senza sua colpa, il documento. In difetto di prova, il lavoratore può chiedere al giudice l'accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno, a decorrere dalla data in cui la mancanza della scrittura sia accertata, restando comunque salvo il suo diritto alle retribuzioni dovute per le prestazioni effettivamente rese.

Nel contratto di lavoro a tempo parziale bisogna indicare puntualmente la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno (art. 2 c. 1). Le conseguenze derivanti dalla violazione della norma appena citata sono disciplinate dall'art. 8 c. 2: in caso di omissione dell'indicazione relativa alla durata della prestazione lavorativa, può essere dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno dalla data del relativo accertamento giudiziale. Nel caso in cui l'omissione riguardi la collocazione temporale, la determinazione delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa spetta al giudice. In entrambi i casi, e per il periodo precedente la sentenza, il lavoratore ha diritto (oltre alla retribuzione per l'attività prestata) ad un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da quantificarsi equitativamente.

Il datore di lavoro può richiedere lo svolgimento di prestazioni supplementari rispetto a quelle concordate con il lavoratore (art. 3). In ogni caso, il lavoro supplementare deve essere contenuto nel limite (annuo e giornaliero) previsto dal contratto collettivo[6] e deve essere finalizzato ad una delle causali indicate nel medesimo contratto. Inoltre, l'effettuazione del lavoro supplementare è subordinato al consenso del lavoratore: la legge prevede espressamente che il suo rifiuto non costituisce infrazione disciplinare, né integra un'ipotesi di giustificato motivo di licenziamento. Il lavoro supplementare è remunerato con la retribuzione ordinaria, salva comunque la facoltà del contratto collettivo di indicare una percentuale di maggiorazione. Invece, le ore di lavoro supplementare di fatto svolte in misura eccedente rispetto quella consentita devono essere retribuite con una maggiorazione del cinquanta per cento, con facoltà del contratto collettivo di prevedere maggiorazioni superiori. Per il solo lavoratore a tempo parziale di tipo verticale è prevista la possibilità di svolgere lavoro straordinario.

I contratti collettivi possono prevedere clausole elastiche in ordine alla collocazione temporale della prestazione lavorativa, individuando le condizioni e le modalità a fronte delle quali il datore di lavoro può variarla, rispetto a quanto originariamente concordato con il lavoratore. Il datore di lavoro deve comunicare al lavoratore, almeno dieci giorni prima, la sua intenzione di variare l'orario di lavoro. In ogni caso, tale facoltà può essere esercitata a condizione che il lavoratore abbia preventivamente espresso il suo consenso, mediante uno specifico patto scritto. Tale patto, una volta stipulato, può essere successivamente denunciato dal lavoratore, a condizione che siano trascorsi almeno cinque mesi dalla stipulazione del patto e salvo il preavviso di un mese a favore del datore di lavoro. Inoltre, la denuncia deve essere accompagnata da una delle seguenti e documentate ragioni: esigenze familiari, esigenze di tutela della salute, necessità di attendere ad altra attività lavorativa. In ogni caso, il rifiuto del lavoratore alla stipulazione del patto, come pure il suo ripensamento, non possono integrare gli estremi del giustificato motivo del licenziamento[7].

L'art. 4 dispone che il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno inquadrato al medesimo livello. Ciò in particolare significa che il lavoratore a tempo parziale, rispetto al lavoratore comparabile a tempo pieno, deve avere lo stesso trattamento con riguardo alla retribuzione oraria, alla durata del periodo di prova e delle ferie, eccetera. Ovviamente, il trattamento del lavoratore a tempo parziale deve essere riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, salva la facoltà dei contratti collettivi di prevedere che gli emolumenti retributivi siano corrisposti in misura più che proporzionale.

L'art. 5 disciplina la trasformazione del rapporto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, o viceversa, prevedendo in primo luogo che il rifiuto del lavoratore alla trasformazione non può costituire un'ipotesi di giustificato motivo di licenziamento.

In ogni caso, il rapporto di lavoro può essere trasformato a tempo parziale a condizione che l'accordo delle parti risulti da atto scritto, redatto su richiesta del lavoratore con l'assistenza di un componente della Rsa indicato dal lavoratore o, in mancanza di Rsa, convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro.

Inoltre, il lavoratore a tempo parziale ha un diritto di precedenza nel caso di assunzione di personale a tempo pieno presso unità produttive ubicate nel raggio di 100 Km., purché l'assunzione riguardi mansioni uguali o equivalenti. Nel caso in cui il diritto di precedenza sia fatto valere da una pluralità di lavoratori, deve essere preferito il lavoratore che aveva trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale; a parità di condizioni, prevale il lavoratore con maggiori carichi familiari e, secondariamente, quello con maggiore anzianità di servizio. Nel caso di violazione del diritto di precedenza, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, nella misura della differenza tra la retribuzione percepita e quella che gli sarebbe stata corrisposta a seguito della trasformazione del rapporto nei sei mesi successivi al passaggio (art. 8 c. 3).

Simmetricamente, nel caso di assunzione di personale a tempo parziale, il datore di lavoro deve fornire una tempestiva informazione al personale dipendente con rapporto a tempo pieno, occupato in unità produttive ubicate nello stesso ambito comunale, e deve prendere in considerazione eventuali domande di trasformazione a tempo parziale del rapporto, potendo rifiutare la richiesta solo adducendo una adeguata motivazione.

L'art. 6 disciplina i criteri di computo dei lavoratori a tempo parziale: in tutte le ipotesi in cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l'accertamento dell'organico, i lavoratori a tempo parziale devono essere computati in proporzione all'orario svolto, con arrotondamento all'unità della frazione di orario superiore alla metà di quello pieno. Un'importante eccezione a questa regola riguarda l'applicabilità della disciplina di cui al Titolo III S.L.: in questo caso, i lavoratori a tempo parziale si computano sempre come unità intere.

4)     La L. 53/00: tempi di lavoro e tempi di vita

La L. 53/00 ha introdotto importanti novità, sia per la tipologia che per la quantità delle modifiche apportate alla legislazione previgente. In sintesi, la legge ha completamente ridisegnato i permessi fruibili dai genitori lavoratori per la cura della prole; ha introdotto permessi per le cure parentali o per motivi di studio, che in precedenza non esistevano o erano disciplinati esclusivamente dalla contrattazione collettiva; ha introdotto disposizioni relative ai tempi di vita[8].

Il quadro complessivo che ne emerge è una radicale modifica nel rapporto tra i contrapposti interessi che presidiano lo svolgimento del rapporto di lavoro: le esigenze di vita (purché siano altamente qualificate, come accade a fronte dell'esigenza di curare la prole o i congiunti stretti o di elevare la propria formazione culturale) diventano prioritarie rispetto alle esigenze organizzative e produttive del datore di lavoro. Per soddisfare queste qualificate esigenze di vita, il lavoratore può astenersi, anche per lunghi periodi, dalla prestazione lavorativa: il fatto che, in alcuni casi, la retribuzione conseguentemente percepita sia simbolica, o addirittura assente, è una conferma del mutamento culturale di cui già si parlava, dal momento che la disponibilità di tempo libero viene privilegiata alla percezione del reddito. In ogni caso, come meglio sarà illustrato successivamente, il lavoratore che fruisca dei permessi disciplinati dalla L. 53/00 ha la certezza della conservazione del posto di lavoro. Ciò vuol dire che la tutela apprestata dalla legge alla cura delle esigenze di vita si spinge al punto da ritenere irrilevanti le modifiche delle esigenze tecnico - produttive, che possano - in ipotesi - rendere superflua la prestazione lavorativa del lavoratore che abbia fruito di quei permessi: ciò nonostante, il lavoratore, al suo rientro, non potrà essere licenziato, né potrà essere adibito ad altra unità produttiva o a mansioni dequalificanti.

L'art. 9 della legge costituisce forse la miglior riprova che l'intento del legislatore è quello di conciliare il tempo di lavoro con i tempi della vita. Infatti, la norma citata prevede incentivi in favore di datori di lavoro che applichino accordi che prevedano azioni positive per la flessibilità di orario, quali per esempio progetti che consentano alla lavoratrice madre o al lavoratore padre di accedere al part-time reversibile o al telelavoro o al lavoro a domicilio, o anche a forme di flessibilità dell'orario di lavoro.

5)     (segue) Il trattamento del genitore lavoratore

Fatta la premessa di cui sopra sulla portata complessiva della legge, è possibile esaminare più da vicino le novità che sono state introdotte, cominciando dai permessi per la cura della prole.

Tra tali permessi, l'aspettativa obbligatoria è forse l'istituto che ha subito il minor numero di modifiche[9]. Ciò però non vuol dire che le novità non vi siano, o che non siano rilevanti.

In primo luogo, le modalità di fruizione del complessivo periodo di 5 mesi non sono più rigide, in quanto la lavoratrice madre ha la facoltà di collocarsi in aspettativa un mese prima la data presunta del parto e 4 mesi dopo il parto. La condizione per l'esercizio di questa facoltà è che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che, per questa via, non si arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro[10].

Un'altra importante modifica riguarda la durata dell'astensione precedente il parto. Infatti, originariamente l'art. 4 L. 1204/71 disciplinava solo l'ipotesi della nascita successiva alla data presunta, disponendo che, in questo caso, la durata dell'aspettativa precedente il parto si prolungasse fino alla data effettiva del parto. Il nuovo testo della norma da ultimo citata disciplina ora anche l'ipotesi del parto prematuro: in altre parole, qualora il parto avvenisse anticipatamente rispetto alla data presunta, i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del parto devono essere aggiunti al periodo di astensione obbligatoria successiva al parto. Ciò si verifica a condizione che la lavoratrice madre presenti, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto[11].

Un'altra non trascurabile novità consiste nell'estensione al padre lavoratore della facoltà di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi della nascita del figlio[12], alle condizioni che si diranno. La questione era già stata affrontata dalla Corte costituzionale[13], che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 L. 903/77, nella parte in cui non estendeva al padre lavoratore il diritto alla astensione dal lavoro durante i 3 mesi dopo il parto, qualora l'assistenza della madre al minore fosse divenuta impossibile per decesso o grave infermità. La L. 53/00 ha dunque recepito il dettato dalla Corte, aggiungendo alle ipotesi già contemplate dalla Corte anche quella dell'abbandono e dell'affidamento esclusivo del bambino al padre.

Per esercitare il diritto in questione, il padre lavoratore deve presentare al datore di lavoro la certificazione attestante la ricorrenza delle condizioni previste dalla legge e, nel caso di abbandono, una dichiarazione ex art. 4 L. 15/68. In questo caso, al padre lavoratore sono estesi il trattamento economico ex artt. 6 e 15 L. 1204/71 e, soprattutto, il divieto di licenziamento ex art. 2 della stessa legge, per il periodo di astensione obbligatoria fino al compimento di un anno di età da parte del bambino.

Più radicali sono le novità introdotte[14] con riferimento all'aspettativa facoltativa[15]. Più precisamente, viene ribadito il principio che l'aspettativa spetta ad entrambi i genitori, che però non sono più costretti ad esercitare il corrispondente diritto in maniera alternativa, dal momento che entrambi ora possono farvi ricorso.

Le condizioni legittimanti il ricorso all'aspettativa facoltativa sono le seguenti: in primo luogo, il diritto può essere esercitato nei primi 8 anni di vita del bambino. In secondo luogo, i genitori possono fruire dell'aspettativa facoltativa nel limite massimo complessivo di 10 mesi, così ripartiti: la madre lavoratrice, per un periodo massimo di 6 mesi; il padre lavoratore, per un periodo massimo di 6 mesi; nel caso in cui vi sia un solo genitore, per un periodo massimo di 10 mesi. In ogni caso, ciascun genitore può fruire del proprio periodo di astensione facoltativa in maniera continuativa o frazionata.

La legge ha anche incentivato il ricorso all'aspettativa facoltativa da parte del padre: infatti, nel caso in cui si astenga dal lavoro per almeno tre mesi, egli può astenersi dal lavoro per 7 mesi e, conseguentemente, il tetto massimo complessivo di astensione del padre e della madre viene elevato a 11 mesi.

Per esercitare il diritto all'astensione facoltativa, il genitore ha semplicemente l'onere di preavvisare il datore di lavoro, salvo casi di oggettiva impossibilità, secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi, e comunque con un preavviso non inferiore a 15 giorni. In ogni caso, ciascun genitore può esercitare il diritto in esame anche nel caso in cui l'altro genitore non ne abbia diritto[16].

I periodi di astensione facoltativa (come pure i periodi di astensione dal lavoro per malattia del bambino, di cui si dirà) sono computati nell'anzianità di servizio, con esclusione di effetti su ferie e gratifica natalizia. Inoltre, è stato radicalmente modificato il trattamento economico del genitore che fruisce del diritto di cui si parla[17]. Più precisamente, il genitore che ne fruisca entro il terzo anno di vita del bambino percepisce l'indennità del 30% della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi; inoltre, questo stesso periodo è coperto da contribuzione figurativa. Al di fuori di questa ipotesi, ciascun genitore ha diritto alla indennità del 30% a condizione che la sua retribuzione sia inferiore a 2,5 volte il trattamento minimo di pensione. In ogni caso, il periodo di aspettativa è coperto dalla contribuzione figurativa; nel caso di aspettativa fruita oltre il terzo anno di vita del bambino e oltre il sesto mese di fruizione complessiva, il valore retributivo è calcolato in misura del 200% del valore massimo dell'assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento, salva la facoltà dell'interessato di integrare la contribuzione. Inoltre, per far fronte alle relative spese, il genitore che fruisca dell'aspettativa facoltativa può chiedere l'anticipo del TFR[18].

Profonde modifiche[19] sono state apportate anche ai permessi dovuti per la malattia del bambino[20]. Infatti, il limite di età del bambino è stato esteso a 8 anni: entro questo termine, entrambi i genitori possono assentarsi dal lavoro, a condizione di presentare un certificato rilasciato da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale attestante la malattia del bambino, nonché una dichiarazione ex art. 4 L. 15/68 attestante che l'altro genitore non sia in astensione dal lavoro negli stessi giorni per il medesimo motivo. Inoltre, se l'età del bambino è compresa tra i 3 e gli 8 anni, il diritto in questione può essere esercitato nel limite di 5 giorni lavorativi all'anno per ciascun genitore. Per i periodi di astensione per malattia del bambino è dovuta la contribuzione figurativa fino al compimento del terzo anno di vita; successivamente, la contribuzione figurativa è calcolata come già detto per l'aspettativa facoltativa fruita oltre il terzo anno di vita del bambino e oltre il sesto mese di fruizione complessiva[21].

Con riguardo ai c.d. permessi per allattamento[22], l'unica novità introdotta dalla L. 53/00[23] riguarda il caso del parto plurimo, in precedenza disciplinato, nel silenzio della legge, dalla giurisprudenza[24]. Più precisamente, la riforma prevede che, nel caso di parto plurimo, i periodi di riposo devono essere raddoppiati. Il tenore testuale della norma deve portare a concludere, diversamente da quanto era stato sancito dalla prevalente giurisprudenza che si era formata sul precedente testo legislativo, che - in caso di parto plurimo - la misura aggiuntiva dei permessi è identica, a prescindere dal numero dei gemelli.

Un'altra novità concernente l'ipotesi del parto plurimo riguarda la facoltà del padre lavoratore di fruire dei permessi aggiuntivi dovuti appunto nel caso di cui si parla. Inoltre, recependo il dettato della Corte costituzionale[25], la riforma ha disposto che i periodi di riposo in questione possono in ogni caso essere fruiti dal padre lavoratore, nel caso in cui i figli siano esclusivamente a lui affidati, ovvero in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga, o ancora qualora la madre non sia lavoratrice dipendente.

Le ultime novità relative ai permessi per la cura della prole riguardano i genitori adottivi e affidatari[26]. A costoro si applicano le disposizioni dell'art. 3 L. 53/00: dunque certamente l'aspettativa facoltativa e i permessi per malattia del bambino; si deve ritenere che a costoro si applichi anche l'aspettativa obbligatoria, dal momento che il citato art. 3 contempla tale istituto, benché limitatamente agli aspetti retributivi (peraltro non modificati rispetto alla legislazione previgente), nonché i riposi per allattamento, pure contemplati dalla norma citata. In ogni caso, l'aspettativa facoltativa può essere esercitata nei primi 3 anni dall'ingresso del minore di età compresa tra 6 e 12 anni nel nucleo familiare[27].

Sul punto la riforma presenta qualche dubbio interpretativo, oltre a quelli già segnalati. Infatti, se si ammette che ai genitori adottivi e affidatari sia estesa anche l'aspettativa obbligatoria, resta ancora da stabilire se costoro possano fruire sia dell'aspettativa precedente, che di quella successiva al parto. L'art. 6 L. 903/77 attribuiva a questa categoria di genitori solo l'aspettativa obbligatoria post-partum; tuttavia, tale norma potrebbe essere stata caducata dall'art. 17 c. 4 L. 53/00, che ha abrogato, oltre all'art. 7 L. 903/77, tutte le norme in contrasto con la L. 53/00. Peraltro, la ratio dell'istituto porterebbe ad escludere in capo ai genitori adottivi e affidatari il diritto all'aspettativa precedente al parto; tutt'al più, a costoro si potrebbe concedere l'estensione dell'opzione di fruire, dopo il parto, di 4 mesi di aspettativa obbligatoria.

In ogni caso, la riforma ha recepito il dettato della Corte costituzionale[28], che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 L. 903/77, nella parte in cui non estendeva al padre lavoratore i diritti riconosciuti alla lavoratrice madre adottiva o affidataria, qualora l'assistenza della madre al minore fosse divenuta impossibile per decesso o grave infermità[29]: il riferimento, contenuto nella riforma, ai "genitori adottivi o affidatari" fa evidentemente comprendere che la legge si riferisce tanto alla madre quanto al padre: a quest'ultimo dunque sono estesi i diritti della madre adottiva o affidataria, senza le limitazioni introdotte dalla Corte costituzionale.

6)     (segue) Altri permessi parentali e per la formazione

La L. 53/00 disciplina anche altri permessi, per la cura parentale in genere o per la formazione professionale. Come già si diceva, si tratta per lo più di nuovi istituti, che in precedenza erano solo ed eventualmente disciplinati dalla contrattazione collettiva e che ora, per la prima volta, hanno una disciplina legale.

I permessi per le cure parentali sono disciplinati dall'art. 4 della legge citata, che prevede due ipotesi. La prima (disciplinata dal comma 1) riguarda il decesso o la documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente: in questi casi, il lavoratore e la lavoratrice hanno diritto ad un permesso retributivo di 3 giorni lavorativi all'anno o, in alternativa per il caso di grave infermità, la facoltà di concordare con il datore di lavoro diverse modalità di espletamento dell'attività lavorativa. Non si può mancare di sottolineare che la legge, forse per la prima volta, introduce un vero e proprio diritto di assistenza nei confronti del convivente: vero è che il diritto è subordinato ad un certificato anagrafico che comprovi la convivenza; in ogni caso, è evidente che il legislatore ha concesso una prima, forse timida apertura nei confronti delle coppie di fatto.

La seconda ipotesi (disciplinata dal comma 2) riguarda i gravi e documentati motivi familiari, tra cui sono ricomprese le patologie che saranno individuate mediante apposito decreto ministeriale[30]. In questi casi, i dipendenti possono richiedere un periodo di congedo non retribuito e non computato nell'anzianità di servizio né ai fini previdenziali. Il congedo può essere continuativo o frazionato e non può superare i 2 anni. Durante il congedo viene conservato il posto di lavoro, ma il lavoratore non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. È demandata alla contrattazione collettiva la disciplina delle modalità di partecipazione ad eventuali corsi di formazione del personale che riprende l'attività lavorativa dopo il congedo in questione[31].

I congedi per la formazione sono disciplinati dagli artt. 5 e 6 della legge in esame. La prima norma prevede che il lavoratore, con almeno 5 anni di anzianità, possa chiedere una sospensione del rapporto di lavoro per un periodo non superiore a undici mesi, continuativo o frazionato, nell'arco dell'intera vita lavorativa. La sospensione in questione è finalizzata al c.d. congedo per la formazione, ovvero al completamento della scuola dell'obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea o comunque alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere dal datore di lavoro.

Durante il congedo, il lavoratore conserva il posto di lavoro, ma non ha diritto alla retribuzione. Il congedo non è computabile nell'anzianità di servizio, ma il lavoratore può riscattarlo a fini pensionistici. Inoltre, il lavoratore che fruisca del congedo in questione può prolungare il rapporto di lavoro per un periodo corrispondente, e ciò anche in deroga alle disposizioni concernenti l'età di pensionamento obbligatorio, purché ne faccia richiesta al datore di lavoro entro sei mesi dalla data prevista per il pensionamento.

La richiesta del congedo può essere rifiutata o differita dal datore di lavoro per comprovate esigenze organizzative. In ogni caso, la legge rinvia ai contratti collettivi per la disciplina delle modalità di fruizione del congedo.

L'art. 6 disciplina invece i congedi per la formazione continua, sancendo il diritto dei lavoratori, anche disoccupati, a proseguire i percorsi di formazione per l'intero arco della loro vita. Spetta invece alla contrattazione collettiva definire il monte ore da destinare ai congedi in questione.

La tutela del lavoratore alla fruizione dei permessi parentali e formativi è rafforzata dalle disposizioni dettate dall'art. 18 in materia di recesso. Più precisamente, la norma dispone la nullità del licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione dei congedi di cui agli artt. 3, 4, 5, 6 e 13 della L. 53/00. Inoltre, le dimissioni presentate dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino (o nel corso del primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento) devono essere convalidate dal Servizio ispezione della Direzione provinciale del lavoro.

 

 

 

Stefano Chiusolo

 

 

[1] Più precisamente, il citato comma 2 stabiliva che il datore di lavoro comunicasse all'Ispettorato del lavoro l'esecuzione del lavoro straordinario, indicando i motivi di ordine tecnico - produttivo che avevano imposto il lavoro straordinario e avevano impedito l'assunzione di nuovo personale. Il citato comma 3 stabiliva che l'Ispettorato del lavoro potesse ordinare la cessazione o la limitazione del lavoro straordinario, qualora ritenesse insussistenti le condizioni richieste dal primo comma della norma (eccezionali esigenze tecnico -  produttive e impossibilità di fronteggiarle attraverso l'assunzione di altri lavoratori). L'art. 13 L. 196/97 ha disposto, in attesa della nuova normativa in materia di tempi di lavoro e comunque non oltre dodici mesi dalla entrata in vigore della stessa L. 196/97, l'applicazione dei due commi in questione solo in caso di superamento delle 48 ore settimanali.

[2] Come è noto, originariamente l'art. 5 L. 903/77 vietava di adibire le donne al lavoro notturno. Tuttavia, questa disposizione era stata censurata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 4/12/97, sotto il profilo della disparità di trattamento tra i sessi.