Le principali tematiche del diritto sindacale nella giurisprudenza milanese degli anni '90 (di Stefano Chiusolo)

 1). Premessa 2). La comparsa di nuovi sindacati e la nazionalità ex art. 28 S.L. 3). (segue) La maggiore rappresentatività 4). I referendum del 1995 5). La costituzione delle Rsu.

 

1)    Premessa

Qualunque limite imposto a una ricerca, quand\'anche fosse richiesto per contenere sforzi che - altrimenti - sarebbero eccessivi, è arbitrario e rischia di portare a risultati falsati. Tuttavia, quando una ricerca sui diritti sindacali venga circoscritta alla giurisprudenza milanese dell\'ultimo decennio del secolo appena concluso, si può affermare che il limite - per quanto sempre arbitrario - non produca significative distorsioni nel risultato finale. Questo dico per due motivi: in primo luogo, il fatto che la scelta sia caduta sulla giurisprudenza milanese, e non su quella di altre città, non dipende da ragioni di mero campanilismo, ma dalla circostanza che - di fatto - i Giudici del Lavoro di Milano sono sicuramente rappresentativi della giurisprudenza nazionale, e questo sia per il numero e la qualità dei problemi trattati, sia per come le questioni sono state sviscerate.

 

In secondo luogo, il limite temporale imposto alla ricerca non dipende tanto dal fatto che il decennio considerato è semplicemente quello appena trascorso; piuttosto, gli anni \'90 sono stati caratterizzati da eventi che hanno fortemente condizionato le relazioni sindacali e il diritto sindacale nel nostro Paese. A tale riguardo, si può ricordare che:

 

·       nuovi sindacati si sono affacciati sulla scena delle relazioni industriali, spesso in contrapposizione non solo con la naturale controparte datoriale, ma anche con i sindacati tradizionali. Questi nuovi sindacati, pur essendo ovviamente privi del retroterra di tradizioni, di esperienza e di seguito dei sindacati tradizionali, hanno preteso la titolarità dei diritti sindacali riconosciuti dall\'ordinamento e pacificamente applicati ai sindacati storici. Questa pretesa, fortemente osteggiata dai datori di lavoro, ma anche dalle organizzazioni già consolidate, ha generato un corposo contenzioso, che in particolare ha consentito di sviluppare tematiche fondamentali quali la nazionalità e la maggiore rappresentatività del sindacato;

 

·       mediante referendum sono state modificate due norme cardinali del nostro ordinamento giuridico in materia sindacale. Come è noto, è stato in primo luogo modificato l\'art. 19 S.L. e, con esso, sono state modificate le condizioni per la costituzione della Rsa; in secondo luogo, è stato parzialmente abrogato l\'art. 26 S.L. e, conseguentemente, è stata modificata la disciplina delle trattenute dei contributi sindacali[2]. Le parziali abrogazioni delle norme ora citate hanno causato un vero e proprio terremoto nelle relazioni sindacali, di per sé già incerte in conseguenza della nascita dei nuovi sindacati di cui si è detto: infatti, alcune organizzazioni sindacali che avevano ottenuto il riconoscimento giudiziale della maggiore rappresentatività (requisito che consentiva la costituzione di Rsa sulla scorta della precedente formulazione dell\'art. 19 S.L.), ma che non avevano sottoscritto accordi sindacali applicati nell\'unità produttiva, o avevano sottoscritto accordi considerati marginali, hanno visto immediatamente disconosciuta la Rsa già costituita. Inoltre, i nuovi sindacati, che avevano faticosamente ottenuto in sede giudiziaria il riconoscimento del diritto alla riscossione dei contributi sindacali ex art. 26 S.L., a seguito del citato referendum hanno subito nuovamente il disconoscimento di questo diritto. Anche i referendum del 1995, dunque, hanno generato un corposo contenzioso: talvolta, la questione aveva uno spessore contingente, e la giurisprudenza che si è conseguentemente formata ha oggi un valore esclusivamente storico[3]. Altre volte, invece, le questioni sorte dai referendum di cui si parla hanno consentito alla giurisprudenza di approfondire questioni che sono attuali ancora oggi. In particolare, il dibattito si è incentrato sulla nozione del contratto applicato nell\'unità produttiva, quale condizione necessaria per la costituzione di una Rsa, nonché sul diritto di un\'associazione sindacale, che non abbia specificamente concordato con il datore di lavoro le modalità relative al versamento dei contributi sindacali, a percepirli tramite trattenuta sulle retribuzioni;

 

·       sono state costituite le Rsu, che hanno sostituito le Rsa, acquisendone prerogative e diritti. Nelle intenzioni di chi ha contribuito alla nascita di questa nuova forma di rappresentanza aziendale, la Rsu avrebbe dovuto consentire, stante il suo carattere unitario, una semplificazione delle relazioni sindacali a livello aziendale, compromesse invece dal carattere disomogeneo e frammentario delle Rsa, costituite - ciascuna - da sindacati spesso in concorrenza tra loro. La prova dei fatti ha dimostrato però che non è sufficiente ricondurre le diverse istanze sindacali ad un unitario organismo di rappresentanza dei lavoratori per garantire l\'omogeneietà dell\'azione sindacale: i contrasti tra le componenti sindacali sono purtroppo rimasti anche all\'interno di tale organismo e hanno generato un contenzioso che si è prevalentemente occupato di stabilire se e come i diritti sindacali, appartenenti alla Rsu, possano essere fruiti in maniera differenziata ed autonoma da parte dei singoli componenti di quell\'organismo.

 

Come si vede, vicende come quelle sommariamente descritte hanno sicuramente portato sensibili cambiamenti al diritto del lavoro nel nostro Paese e la giurisprudenza milanese ha senz’altro fornito un contributo significativo nell’approfondimento delle nuove tematiche che sono conseguentemente emerse. Per questi motivi, dunque, una ricerca condotta sulla giurisprudenza milanese degli ultimi 10 anni in tema di diritto sindacale può fornire un quadro certamente significativo della giurisprudenza in generale.

 

2) La comparsa di nuovi sindacati e la nazionalità ex art. 28 S.L.

Come si diceva, l’imporsi sulla scena sindacale e giudiziaria di nuove organizzazioni ha consentito alla giurisprudenza di approfondire nozioni che si davano per scontate o che si definivano sulla scorta di una giurisprudenza ormai tralaticia. Una di queste nozioni è la nazionalità del sindacato, caratteristica che – come è noto – fonda la legittimazione ad agire ex art. 28 S.L.. Questo requisito, che pure costituisce il presupposto di numerose cause, non ha mai ricevuto una particolare attenzione da parte dei giudici, anche perché, fino alla nascita dei nuovi sindacati, nessun datore di lavoro contestava la legittimazione ad agire del sindacato che l’aveva convenuto in giudizio per un preteso comportamento antisindacale. La situazione è radicalmente cambiata a seguito del fenomeno di cui si è detto: vuoi perché si trattava di sindacati nuovi e, dunque, genuinamente il datore di lavoro convenuto dubitava della nazionalità di tale sindacato, o nulla sapeva in merito; vuoi perché il contenzioso era così aspro, a livello politico prima ancora che a livello giudiziario, che ogni strada per paralizzare la domanda era considerata legittima. Fatto sta che l’eccezione di carenza di legittimazione ad agire, per difetto della nazionalità, è diventato il ritornello nelle cause di repressione della condotta antisindacale promosse dai sindacati di nuova formazione.

 

Sul punto, un preliminare ed importante concetto messo a fuoco dalla giurisprudenza milanese è che la nozione di nazionalità ex art. 28 S.L. è diversa da quella di maggiore rappresentatività ex art. 19 S.L. (nel testo precedente alla parziale riforma referendaria). Infatti, sebbene entrambe le norme abbiano una funzione selettiva, nel senso che entrambe conferiscono al sindacato una certa facoltà, ma solo in presenza di determinate caratteristiche o qualità, ciascuna delle due disposizioni di legge individua un criterio di selezione diverso[4]. In particolare, mentre la nozione di maggiore rappresentatività deve essere valutata, con estremo rigore, in capo alla confederazione sindacale, la nazionalità deve essere verificata con riferimento all’organizzazione sindacale di categoria e – in linea di massima, prescindendo ora dalle diverse sfumature emerse in giurisprudenza – deve essere riconosciuta quando si accerti la mera presenza del sindacato sul territorio nazionale e il mero svolgimento di attività sindacale, a prescindere dal fatto che detta presenza sia caratterizzata da dati numerici significativi ed equilibrati.

 

Sulla base di questa premessa, che sostanzialmente accomunava tutte le pronunce milanesi, sul tema di cui si sta parlando si sono sviluppati diversi orientamenti. Soprattutto nella prima fase dell’elaborazione della questione, era emersa una giurisprudenza che riconosceva la nazionalità all’organizzazione sindacale che si proponesse statutariamente quale stabile polo di aggregazione nazionale di strutture e attività sindacali diffuse in una porzione significativa del territorio nazionale[5]. Come si vede, da questo punto di vista era considerata sufficiente una sorta di autocertificazione da parte del sindacato che, proclamandosi nazionale, contemporaneamente si attribuiva il requisito necessario ad agire ex art. 28 S.L., senza che fosse ulteriormente necessario verificare se il dichiarato scopo statutario fosse stato effettivamente realizzato.

 

A questo orientamento se ne contrapponeva un secondo che, pur partendo dallo scopo statutario del sindacato, pretendeva la verifica che il sindacato si comportasse coerentemente[6]. Ciò stava a significare che il dato statutario non fosse sufficiente; tuttavia, non si chiedeva neppure che lo scopo statutario fosse stato integralmente realizzato: piuttosto, oggetto della verifica era che il sindacato avesse cominciato la realizzazione dello scopo di svolgere attività sindacale sull’intero territorio nazionale, a prescindere dal fatto che quello scopo fosse stato, oppure no, integralmente realizzato.

 

Contemporaneamente, andava definendosi un terzo orientamento, contrapposto al primo e destinato a prevalere, che indicava la necessità di verificare la nazionalità in concreto, e a prescindere dalle autocertificazioni[7]. Più precisamente, secondo questo orientamento, è necessario verificare la presenza del sindacato nelle varie parti del territorio dello Stato; tale presenza non deve necessariamente estendersi in tutte le regioni, ma almeno in un numero significativo delle stesse. In ogni caso, la presenza nazionale non viene legata ad un dato quantitativo, a differenza di quanto richiesto per il riconoscimento della maggiore rappresentatività; piuttosto, la nazionalità del sindacato deve essere riconosciuta a fronte dell’esistenza di strutture pur minime, di iniziative pur limitate, di iscritti pur in numero ridotto, ma comunque tali da far ritenere effettiva l’esistenza nella realtà locale di un soggetto sindacale.

 

Bisogna anche precisare che questo orientamento – benché come detto complessivamente maggioritario – è differenziato al proprio interno: proprio perché fondato su una nozione elastica e per così dire soggettiva della presenza del sindacato sul territorio nazionale, è evidente che i risultati della verifica possono portare a conclusioni diverse, anche nei confronti dello stesso sindacato e a parità di presupposti dell’indagine, a seconda di quanto rigorosamente sia intesa l’effettiva presenza del sindacato.

 

3) (segue) La maggiore rappresentatività

Un fenomeno simile, sebbene non identico, si è verificato con riferimento alla maggiore rappresentatività. Anche in questo caso, la nascita dei nuovi sindacati ha consentito alla giurisprudenza di approfondire la questione. La differenza, rispetto all’ipotesi di cui si è parlato prima, è che mentre la nozione di nazionalità non era mai stata sviluppata in precedenza, il concetto di maggiore rappresentatività si fondava su una giurisprudenza ormai consolidata e quasi tralaticia. Il grande merito della giurisprudenza milanese sul punto è stato quello di non recepire passivamente questa giurisprudenza, ma di sottoporla a severa critica.

 

Come è noto, la giurisprudenza della S.C. riteneva, secondo un orientamento ritenuto acquisito fino agli anni ’90, che la maggiore rappresentatività si fondasse su 4 requisiti: consistenza numerica degli iscritti (criterio comunque ritenuto non decisivo); equilibrata consistenza associativa in tutte le categorie; significativa ed equilibrata presenza sul territorio nazionale; sistematica, diffusa ed equilibrata attività di autotutela[8]. Tuttavia, questa giurisprudenza, per quanto consolidata, non ha retto alla prova delle nuove realtà sindacali che hanno cominciato ad emergere agli inizi degli anni ’90.

 

In particolare, è stato osservato che, stante l’evoluzione sindacale, quella giurisprudenza aveva di fatto portato alla cristallizzazione dei sindacati da considerarsi maggiormente rappresentativi, con ciò violando le finalità che il legislatore intendeva perseguire attraverso questa nozione. Infatti, con il ricorso alla maggiore rappresentatività, si cerca di impedire la proliferazione di micro-organismi sindacali, favorendo invece la rappresentanza di interessi non confinati nell’ambito di singole imprese o di gruppi ristretti di lavoratori[9]. Invece, la giurisprudenza tradizionale, consolidatasi in un certo contesto storico, a seguito del mutamento di quel contesto aveva finito per andare oltre le finalità perseguite dal legislatore, precludendo quanto meno il rafforzamento, se non addirittura la nascita, di sindacati nuovi, diversi da quelli che tradizionalmente e pacificamente posseggono il requisito in questione.

 

Pertanto, per riportare la maggiore rappresentatività ad una più stretta coerenza con la volontà legislativa, ma anche con il dato storico del momento, la Pretura di Milano ha recepito la giurisprudenza tradizionale, e gli indici dalla stessa elaborati, in maniera niente affatto rigorosa. Infatti, la presenza del sindacato sul territorio nazionale e tra le diverse categorie, pur restando un punto di riferimento importante, è stata relegata in secondo piano. Piuttosto, l’indagine è stata spostata, da dati meramente numerici, ad aspetti diversi: in particolare, è stata riconosciuta rilevanza alla capacità del sindacato di rappresentare interessi non confinati in gruppi ristretti e di superare logiche corporative. Inoltre, si è preso atto che, a fronte di un sindacato di nuova formazione, non si può pretendere l’attuale realizzazione di questo risultato, né si può disconoscere la maggiore rappresentatività ad un sindacato che si muova in quella direzione, a meno di voler di fatto precludere a quel sindacato la realizzazione dell’obiettivo. Pertanto, i nuovi criteri della maggiore rappresentatività devono essere valutati avendo riguardo le prospettive di crescita del sindacato[10].

 

La giurisprudenza radicalmente innovativa della Pretura di Milano è stata temperata dal Tribunale. In particolare, il Tribunale di Milano è partito dalla premessa che la maggiore rappresentatività concerne solo l’intensità della rappresentatività, senza che ciò comporti alcun giudizio comparativo tra il nuovo sindacato, che aspiri a questo riconoscimento, e i sindacati storici. Fatta questa premessa, necessaria per replicare a chi contestava che la diffusione dei nuovi sindacati fosse comunque sensibilmente inferiore a quella dei sindacati storici, e che quindi quelli non potevano intendersi più rappresentativi di questi, il Tribunale ha individuato i criteri necessari al riconoscimento del requisito in questione.

 

In primo luogo, il sindacato deve possedere una notevole estensione territoriale: tuttavia, questo requisito non deve necessariamente essere accertato mediante un’attenta conta della diffusione, potendo la presenza essere attestata anche da riconoscimenti amministrativi e/o giudiziari che – appunto – documentano l’esistenza di una rappresentatività effettiva. In secondo luogo, il sindacato deve possedere una struttura rappresentativa intercategoriale: in questa prospettiva, più che valutazioni matematiche in ordine alla equilibrata diffusione del sindacato, rileva la capacità dello stesso di superare logiche particolaristiche. Ancora, è necessario lo svolgimento di attività di autotutela. Infine, è necessaria la presenza di un numero non esiguo di iscritti: anche in questo caso, e sempre che siano presenti i primi tre indici, non è necessaria un’attenta e rigorosa conta matematica, dal momento che questo indice viene considerato come conferma della presenza degli altri e, dunque, della effettiva rappresentatività del sindacato[11]. Come si vede, il Giudice d’appello si è mosso su criteri apparentemente più tradizionali, tuttavia interpretati in maniera elastica e innovativa, tanto da portare – sia pure attraverso un iter argomentativo in parte differente – a conclusioni del tutto analoghe a quelle cui erano giunti i Giudici della Pretura[12].

 

Prima di concludere, bisogna ancora sottolineare come la giurisprudenza segnalata si sia soprattutto sviluppata nella prima metà degli anni ’90. A seguito della parziale abrogazione referendaria dell’art. 19 S.L., infatti, la questione ha perso la sua originaria rilevanza, pur restando tuttora attuale, dal momento che la nozione di maggiore rappresentatività è ancora presupposta in diverse disposizioni di legge[13].

 

Tra le questioni poste dai nuovi sindacati bisogna fare un cenno anche al problema del dirigente di Rsa che, a seguito della sua adesione ad un sindacato diverso da quello che l’aveva originariamente designato, sia stato da questo disconosciuto. Tale questione ha visto una netta contrapposizione tra la giurisprudenza milanese di primo e di secondo grado. Infatti, i Giudici di primo grado per lo più affermavano che l’art. 19 S.L. ricollega la costituzione delle Rsa al duplice intervento dei lavoratori dell’azienda e del sindacato di riferimento; pertanto, come lavoratori e sindacati concorrono alla costituzione della Rsa, analogamente lavoratori e sindacati devono concorrere alla revoca dell’incarico. In altre parole, il disconoscimento del dirigente di Rsa, unicamente proveniente dal sindacato che l’aveva designato e in assenza di un’analoga volontà manifestata dai lavoratori, non è sufficiente a legittimare la revoca dalla carica[14].

 

Al contrario, il Giudice d’appello[15] ha ritenuto che come è necessaria la presenza di due requisiti per la costituzione della Rsa, così è necessaria la permanenza di quei requisiti per la permanenza in carica del dirigente dell’organismo rappresentativo. Pertanto, il sopravvenuto disconoscimento da parte del sindacato di riferimento, anche in assenza di un’analoga volontà manifestata dai lavoratori, è sufficiente a legittimare la revoca della carica[16].

 

4) I referendum del 1995

Come si diceva, i referendum del 1995, relativi agli artt. 19 e 26 S.L., hanno fornito lo spunto per altri dibattiti giurisprudenziali, che sono stati sviluppati in particolare dal Giudice del Lavoro di Milano.

 

Con particolare riferimento alla nuova formulazione dell’art. 19 S.L., bisogna subito ricordare che non ha avuto fortuna il tentativo di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della nuova formulazione della norma, nella parte in cui limita la costituzione delle Rsa alle sole organizzazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi[17]. Piuttosto, l’approfondimento si è concentrato sulla individuazione dei “contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva” che – come è noto – legittimano la costituzione di Rsa.

 

Sotto questo profilo, sembra essersi imposto l’orientamento che interpreta la nozione di contratti collettivi ex art. 19 S.L. nel senso più pieno e più ampio, ricomprendendovi ogni espressione dell’autonomia collettiva, con la quale uno o più datori di lavoro e rappresentanze dei lavoratori abbiano regolato uno o più aspetti dei rapporti di lavoro, nel loro sorgere, nello svolgimento o nella loro estinzione[18]. Sulla scorta di questo principio generale, sono stati tratti i seguenti e conseguenti corollari:

 

  • il contratto rilevante ex art. 19 S.L. è un qualunque contratto normativo che disciplini un aspetto non marginale del rapporto di lavoro, come per esempio un contratto aziendale che disponga in tema di orario di lavoro[19];

     

  • rilevante ex art. 19 S.L. è pure il contratto gestionale, ovvero il contratto che, sulla base della previsione di una norma di legge, rappresenta l’eventuale fase terminale di una procedura di informazione e consultazione sindacale e che gestisce appunto rilevanti aspetti della vita aziendale, come la CIG o la mobilità[20].

     

In ogni caso, si è ritenuto che non è sufficiente la mera sottoscrizione di un accordo sindacale, come sopra definito, essendo invece anche necessaria l’effettiva partecipazione alle trattative sindacali[21].

 

Quanto ai problemi relativi all’art. 26 S.L., bisogna preliminarmente ricordare che dal vecchio testo della norma la giurisprudenza pacificamente riconosceva antisindacale il mancato versamento dei contributi sindacali, tramite trattenuta sulle retribuzioni, sia nei confronti dei sindacati stipulanti il CCNL, che nei riguardi dei sindacati che non avessero stipulato con il datore di lavoro alcun contratto[22]. Tuttavia, a seguito dell’abrogazione dei commi 2 e 3 della norma citata, di fatto molti datori di lavoro avevano cessato di versare i contributi ai sindacati non firmatari del CCNL che, di regola, contempla il versamento dei contributi sindacali mediante trattenuta sulle retribuzioni e che dunque, abrogati i commi 2 e 3 dell’art. 26 S.L., si pone (almeno in apparenza) come unica fonte regolatrice dell’istituto. Da tali comportamenti si è verificato un contenzioso che ha visto in prima fila, ancora una volta, i Giudici del Lavoro di Milano.

 

La giurisprudenza milanese sembra essersi orientata nel senso del riconoscimento della natura antisindacale di quella condotta. Ciò è avvenuto dopo alcune perplessità, che avevano indotto alcuni Giudici di primo grado a negare la configurabilità della condotta antisindacale nel caso di cui si parla, soprattutto in considerazione del fatto che l’iniziativa del lavoratore di versare i contributi sindacali sarebbe da inquadrare nello schema della delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c., che presuppone il consenso del datore di lavoro[23]. L’inversione di tendenza è avvenuta anche a seguito dell’adesione, da parte del Giudice d’appello, all’opposta opinione: infatti, è stato ritenuto che il CCNL, almeno di regola, riconosce il diritto di cui si parla direttamente in capo al singolo lavoratore, prescindendo dal fatto che il rispettivo sindacato di appartenenza abbia o non abbia stipulato il CCNL; pertanto, stante la plurioffensività della condotta antisindacale, il datore di lavoro che non provveda al versamento dei contributi con le modalità previste dal CCNL pone in essere una condotta antisindacale, anche se il rifiuto riguarda un sindacato non stipulante[24].

 

5) La costituzione delle Rsu

I Giudici del Lavoro di Milano hanno dovuto affrontare altri nuovi problemi derivanti dalla costituzione delle Rsu. Chi ha sottoscritto l’A.I. 20/12/93 ha sicuramente cercato di realizzare l’obiettivo di offrire al datore di lavoro un interlocutore unitario, che sintetizzasse in sé i diversi orientamenti sindacali, in modo tale da superare la logica ispiratrice dell’art. 19 S.L., che prevede invece – come è noto – una pluralità di organismi rappresentativi aziendali.

 

Una simile impostazione presuppone l’autonomia di ogni rappresentanza dei lavoratori che, alla luce dell’esperienza, ha comportato un duplice problema. Da un lato, la rappresentanza disciplinata dall’art. 19 S.L. ha determinato la frammentazione della rappresentanza, che non ha mai giovato ai lavoratori; da un altro punto di vista, si è verificata una mancanza di chiarezza in ordine a chi fosse realmente l’interlocutore del datore di lavoro. Questa indeterminatezza, a sua volta, ha consentito la realizzazione di risultati aberranti, come la sottoscrizione di accordi separati, raggiunti evidentemente con le sigle sindacali che sono più disponibili nei confronti delle richieste aziendali.

 

Come si diceva, chi ha sottoscritto l’accordo sulle Rsu cercava sicuramente di risolvere simili problemi. Tuttavia, la pratica ha dimostrato che (purtroppo) le divisioni sindacali sono più forti di ogni tentativo di sintetizzarle in un unitario organismo rappresentativo: i vecchi sono stati soppiantati da nuovi problemi che, sostanzialmente, ruotano intorno al dilemma se i diritti sindacali, che verso l’esterno appartengono alla Rsu unitariamente considerata, possano essere concretamente gestiti autonomamente da ciascuna componente della Rsu, o se invece la gestione debba essere unitaria[25].

 

Il punto di partenza è che le Rsu sono subentrate alle Rsa nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad esse spettanti per legge. Poiché non esiste alcun meccanismo, disciplinato dall’A.I., che regoli la formazione della volontà della nuova rappresentanza, ogni componente della Rsu è titolare dei poteri, dei diritti e delle funzioni riconosciute dalla legge[26].

 

Questo principio ispira ogni decisione in ordine alla gestione concreta dei diritti sindacali da parte del singolo componente la Rsu. Per esempio, con riguardo al diritto di informazione, sulla scorta di quel principio è stato ritenuto che il datore di lavoro deve specificamente rendere le informazioni a ogni componente della Rsu che, altrimenti, rischierebbe di restare esclusa dalla partecipazione all’attività collegiale[27]. A tale riguardo, bisogna in particolare segnalare quelle pronunce che hanno dichiarato antisindacale la comunicazione effettuata dal datore di lavoro, per la convocazione a trattative sindacali, mediante semplice chiamata telefonica a uno degli apparecchi ubicati nel locale comune a disposizione delle Rsu, dal momento che tale mezzo non è idoneo a garantire l’avvenuta conoscenza della convocazione da parte di tutti i componenti la Rsu[28].

 

Analogamente è stato ritenuto in tema di assemblee. A tale riguardo, preliminarmente è stato rilevato che l’art. 20 S.L. attribuisce il diritto di convocare l’assemblea alle Rsa, che possono esercitarlo in maniera congiunta o disgiunta. Pertanto, stante il subingresso della Rsu nei diritti previsti dalla legge nei confronti della Rsa, ne consegue che il singolo componente del nuovo organismo rappresentativo possa esercitare il diritto di convocare assemblee dei lavoratori, disgiuntamente dagli altri componenti[29].

 

Lo stesso principio dell’autonomia di ogni singola componente la Rsu in ordine alla gestione dei diritti sindacali disciplinati dalla legge ha consentito alla giurisprudenza milanese di risolvere, questa volta sfavorevolmente al singolo Rsu, un altro problema, che si verifica quando un contratto aziendale, stipulato prima della costituzione della Rsu, disciplini un monte ore di permessi sindacali in misura superiore a quello previsto dalla legge. In casi come questi, si è discusso se tale monte ore possa essere ripartito tra tutti i componenti della Rsu, ivi compresi quelli che appartengono a sindacati che non avevano sottoscritto l’accordo. In questi casi è stato ritenuto che l’efficacia dell’accordo non possa estendersi alla componente sindacale che non l’aveva sottoscritto; a ciò si è aggiunto che l’A.I. prevede sì il subingresso della Rsu nei diritti della Rsa, ma ciò limitatamente ai diritti di fonte legislativa[30].

 

 

 

 

 

 

 

Stefano Chiusolo

 

 

[1] Il presente articolo è la relazione presentata al convegno <<Prima del giudice unico: bilancio e prospettive della giurisprudenza del lavoro a Milano – I rapporti collettivi>> organizzato dal Centro Studi di diritto del lavoro Domenico Napoletano, svoltosi a Milano il 24/1/01.

[2] Le due norme sono state parzialmente abrogate a seguito di altrettanti referendum, indetti con DPR 5/4/95, e con effetto decorsi 60 giorni dal 29/7/95, data di pubblicazione del DPR 28/7/95 n. 312.

 

[3] Un primo problema, per esempio, ha riguardato il caso di una Rsa costituita da un sindacato in possesso dei requisiti ex art. 19 S.L. prima della parziale abrogazione referendaria, ma privo dei requisiti richiesti dalla nuova formulazione della stessa norma: a tale riguardo, è stato ritenuto che non costituisce condotta antisindacale il disconoscimento di quella Rsa a seguito della parziale abrogazione referendaria (Trib. Milano 20/12/97, in D&L 1998, 347, n. CHIUSOLO; Trib. Milano 21/2/98, in Mass. giur. lav. 1998, 405; Pret. Milano 6/12/96, in Orientamenti 1996, I, 772; Pret. Milano 27/11/96, ivi 1996, I, 774; Pret. Milano 29/1/96, in D&L 1996, 377; Pret. Milano 12/12/95, in Orientamenti 1995, 826, n. LIEBMAN. Contra, Pret. Milano 4/5/96, in D&L 1996, 927), e ciò neppure nel caso in cui il datore di lavoro avesse continuato a consentire l’esercizio dei diritti sindacali per un certo periodo successivo al referendum (Pret. Milano 22/5/97, in Orientamenti 1997, I, 308). Altro problema ha riguardato le pronunce giudiziarie, non passate in giudicato, che avevano accertato la natura antisindacale del disconoscimento di una Rsa costituita da un sindacato che possedeva i requisiti richiesti dall\'ordinamento prima del referendum e che, successivamente, ne è risultato privo: a tale riguardo, è stato affermato che la sopravvenuta parziale abrogazione dell’art. 19 S.L. non comporta la cessazione della materia del contendere (Trib. Milano 17/4/98, in D&L 1998, 640).

 

[4] Pret. Milano 9/12/94, in D&L 1995, 315; Pret. Milano 14/2/92, in Dir. Lav. 1992, II, 340; Pret. Milano 6/3/92, in Orientamenti 1992, 282.

 

[5] Pret. Milano 1/10/92, in D&L 1993, 88; Pret. Milano 16/11/94, ivi 1995, 316; Pret. Milano 7/9/93, ivi 1994, 284, n. FRANCESCHINIS; Pret. Milano 23/8/93, ivi 1994, 70.

 

[6] Trib. Milano 24/2/96, in D&L 1996, 632; Pret. Milano 28/1/97, ivi 1997, 515; Pret. Milano 17/1/96, ivi 1996, 626; Pret. Milano 10/1/95, ivi 1995, 549; Pret. Milano 9/12/94, ivi 1995, 315; Pret. Milano 28/10/92, in Dir. e prat. lav. 1993, 1155; Trib. Milano 26/2/94, in Orientamenti 1994, 43; Pret. Milano 21/6/94, ivi 1994, 213; Pret. Milano 8/3/94, in D&L 1994, 489; Pret. Milano 6/3/93, in Orientamenti 1993, 595; Pret. Milano 2/3/93, in Dir. e prat. lav. 1993, 1150; Pret. Milano 18/1/93, in D&L 1993, 272; Pret. Milano 14/12/92, ivi 1993, 272; Pret. Milano 23/6/92, ivi 1992, 860; Pret. Milano 10/3/92, ivi 1992, 620.

 

[7] Pret. Milano 23/11/93, in Orientamenti 1994, 38; Trib. Milano 28/11/95, ivi 1995, 863; Pret. Milano 13/2/96, in Foro it. 1996, I, 2264 e in Mass. giur. lav. 1996, 162, n. RENDINA; Pret. Milano 31/8/95, in Orientamenti  1995, 570; Pret. Milano 7/2/94, in D&L 1994, 506, in Lavoro giur. 1994, 361, n. D’AVOSSA; in Orientamenti 1994, 28, n. SPAGNUOLO VIGORITA, in Mass. giur. lav. 1994, 330, n. MAGNANI, in Dir. Lav. 1994, II, 75, n. DI STASI, in Riv. it. dir. lav.  1994, II, 627, n. NOGLER; Trib. Milano 15/5/93, in D&L 1993, 806; Pret. Milano 17/11/92, in Dir. e prat. lav. 1993, 1156; Pret. Milano 16/11/92, in Riv. it. dir. lav.  1993, II, 873, n. BONARDI; Pret. Milano 6/3/92 cit.; Pret. Milano 16/11/91, in Dir. e prat. lav. 1992, 513.

 

[8] Cass. 1/3/86 n. 1320, in Foro it. 1986, I, 652; Cass. 10/7/91 n. 7622, in Lav. e prev. oggi 1992, 2, II, 418, n. BERTESAGHI; Cass. 28/10/81 n. 5664, in Orientamenti 1982, 253 e in Foro it. 1982, I, 2569, n. CURZIO; Cass. 3/11/76 n. 3993, in Giust. civ. 1977, I, 1941, n. ANNUNZIATA e in Orientamenti 1977, 731.

 

[9] Pret. Milano 6/7/93, in Not. giur. lav. 1993, 615.

 

[10] Pret. Milano 16/11/94, in D&L 1995, 316; Pret. Milano 28/7/94, in Not. giur. lav. 1994, 570; Pret. Milano 30/3/94, in Orientamenti 1994, 206; Pret. Milano 7/1/94, in D&L 1994, 273; Pret. Milano 23/8/93, ivi 1994, 70; Pret. Milano 6/3/93, in Orientamenti 1993, 595; Pret. Milano 18/1/93, in D&L 1993, 272; Pret. Milano 14/12/92, ivi 1993, 272. Naturalmente, anche presso la Pretura di Milano non sono mancate voci di dissenso, che tendevano al recupero della giurisprudenza più tradizionale: v. Pret. Milano 16/11/92, in Riv. it. dir. lav.  1993, II, 873, n. BONARDI.

 

[11] Trib. Milano 11/3/95, in Orientamenti 1995, 45; Trib. Milano 16/7/94, in D&L 1994, 795.

 

[12] Giova ricordare che l’orientamento del Tribunale di Milano è stato confermato dalla S.C.: v. Cass. 30/3/98 n. 3341, in D&L 1998, 627, n. ZEZZA.

 

[13] V. per esempio gli artt. 5 L. 164/75; 4 L. 223/91; 47 L. 428/90.

 

[14] Pret. Milano 31/3/92, in Dir. e prat. lav. 1992, 2071; Pret. Milano 16/1/92, in D&L 1992, 623.

 

[15] Trib. Milano 10/2/95, in Orientamenti 1995, 52; Trib. Milano 29/10/94, ivi 1994, 495; Trib. Milano 8/10/94, ivi 1994, 493; Trib. Milano 22/12/93, in Foro it. 1994, I, 1592; Trib. Milano 23/5/93, in Orientamenti 1993, 591.

 

[16] La stessa contrapposizione si è verificata con riguardo all’analogo problema relativo alla Rsu: in un senso, v. Trib. Milano 21/2/98, in Mass. giur. lav. 1998, 397, n. INGLESE; in senso opposto, v. Pret. Milano 7/4/97, in D&L 1997, 747, n. CAPURRO. In ogni caso, la giurisprudenza milanese è concorde nel ritenere che la semplice adesione, da parte del componente la Rsu, ad un sindacato diverso da quello nel cui ambito era avvenuta l’elezione, non comporta la sua decadenza: v. Trib. Milano 16/10/99 (in composizione monocratica), in D&L 2000, 112; Trib. Milano 9/12/99 (in composizione collegiale), ivi 2000, 112, entrambe con n. FRANCESCHINIS.

 

[17] La questione, con riferimento agli artt. 3 e 39 Cost., era stata sollevata da Pret. Milano 26/11/95, in Foro it. 1996, I, 322. In senso contrario, v. Pret. Milano 31/1/96, in Mass. giur. lav. 1996, 163, n. LIEBMAN, che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale. In ogni caso, Corte cost. 26/3/98 n. 76, in Giur. cost. 1998, 750, ha respinto la questione per manifesta inammissibilità.

 

[18] Pret. Milano 21/8/96, in D&L 1996, 929; Pret. Milano 4/11/97, ivi 1998, 353; Pret. Milano 30/9/98, ivi 1999, 69; Pret. Milano 24/2/96, ivi 1996, 625.

 

[19] Trib. Milano 30/6/99, in D&L 1999, 812 e in Orientamenti 1999, I, 317; Pret. Milano 11/2/99, in D&L 1999, 292, n. CAPURRO; Pret. Milano 23/6/97, in Orientamenti 1997, I, 932

 

[20] Pret. Milano 11/1/97, in D&L 1997, 259, n. FRANCESCHINIS; Pret. Milano 12/11/96, in Orientamenti 1997, I, 28, n. MORONE; contra: Pret. Milano31/1/96, ivi 1996, I, 13.

 

[21] Pret. Milano 29/1/96, in D&L 1996, 377.

 

[22] Cass. 9/2/89 n. 822, in Orientamenti 1989, 310; conf. Cass. 9/9/1991 n. 9470, in D&L 1992, 108; Trib. Mila­no 12/11/83 in Lavoro 80 1984, 89. Prima della parziale riforma referendaria, l’unico limite posto dalla giurisprudenza al diritto alla riscossione dei contributi ex art. 26 S.L. era individuato nella effettiva natura sindacale dell’organizzazione che invocava l’applicazione di questa norma: sulla base di questa considerazione, per esempio, è stato disconosciuto il diritto di cui si parla al Sindacato Autonomista Lombardo, in quanto organizzazione di tipo prettamente politico (Trib. Milano 18/5/96, in Foro it. 1996, I, 2906; Pret. Milano 16/6/93, in Riv. it. dir. lav.  1994, II, 49, n, FERRANTE e in Giur. it. 1994, I, 2, 1055, n. GUGLIOTTA; Pret. Milano 17/6/93, in D&L 1993, 820. In senso contrario, v. Pret. Milano 2/2/95, in D&L 1995, 566, n. FRANCESCHINIS).

 

[23] Pret. Milano 13/2/96, in Foro it. 1996, I, 2264; Pret. Milano 28/11/95, in D&L 1996, 76 e in Giur. it. 1996, I, 2, 835, n. RIGANO’; Pret. Milano 31/1/96, in Mass. giur. lav. 1996, 163, n. LIEBMAN; Pret. Milano 27/11/95, in Not. giur. lav. 1995, 693.

 

[24] Trib. Milano 28/11/98, in Orientamenti 1998, I, 851; Pret. Milano 31/10/98, in D&L 1999, 59; Trib. Milano 6/7/96, in Riv. it. dir. lav.  1997, II, 642, n. NOGLER.

 

[25] Per una disamina più approfondita di questi argomenti, v. CHIUSOLO, Le rappresentanze sindacali unitarie nell’elaborazione giurisprudenziale, in D&L 1998, 253.

 

[26] Trib. Milano 26/2/99, in Orientamenti 1999, I, 12.

 

[27] Pret. Milano 31/12/98, in D&L 1999, 305; Pret. Milano 28/1/97, ivi 1997, 515; Pret. Milano 17/1/96, ivi 1996, 626, n. FRANCESCHINIS

 

[28] Trib. Milano 17/4/98, in D&L 1998, 640, n. QUADRIO;  Pret. Milano 10/1/95, ivi 1995, 549, n. FRANCESCHINIS.

 

[29] Trib. Milano 16/10/99, in D&L 2000, 112; Trib. Milano 9/12/99, ivi 2000, 112, entrambe con nota di FRANCESCHINIS. Sempre in tema di assemblee, bisogna anche segnalare Trib. Milano 4/12/99, ivi 2000, 341, che ha riconosciuto il diritto dei dirigenti esterni del sindacato, che ha concorso alla costituzione della Rsu, a partecipare alle assemblee ex art. 20 S.L..

 

[30] Pret. Milano 30/10/96, in Orientamenti 1996, I, 784; Pret. Milano 10/1/95, in D&L 1995, 549. Sul punto, l’ultima sentenza citata, in considerazione del fatto che la causa verteva sulla redistribuzione del monte ore dei permessi a danno di Rsu di altre organizzazioni sindacali, ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tali altre organizzazioni.