Carcerazione preventiva

  • Anche nel caso di licenziamento intimato in ragione della custodia cautelare in carcere cui sia stato sottoposto il lavoratore, il datore di lavoro è tenuto al rispetto delle regole in materia di licenziamenti disciplinari stabiliti dall’art. 7, legge n. 300 del 1970. (Trib. Milano 5/7/2005, Est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2005, 925)
  • L'art. 102 bis disp. att. cod. proc. pen., nel prevedere che chi sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero a quella degli arresti domiciliari ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione, presuppone che il licenziamento sia stato determinato in stretto rapporto di causalità con la detenzione, e cioè che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello "status custodiae" del prestatore d'opera; ne consegue che la citata disposizione non può dare titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro qualora il licenziamento risulti, come nella specie, in via autonoma giustificato sulla base di elementi ulteriori rispetto alla mera assenza del lavoratore determinata da provvedimento cautelare. (Nella specie, la S.C ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accertato che il licenziamento era stato intimato al lavoratore sottoposto alla misura della custodia in carcere, sia per motivi disciplinari, e cioè per motivi riconducibili, in base al Ccnl applicabile, ad una giusta causa, sia per impossibilità sopravvenuta alla prestazione, ai sensi dell'art. 1464 c.c. e dell'art. 3 della legge n. 604/1966, e non anche per lo stato di detenzione al quale egli era stato sottoposto). (Cass. 1/4/2003, n. 4935, Pres. Ciciretti, Rel. Stile, in Dir. e prat. lav. 2003, 1989)
  • Stante il principio della immutabilità dei motivi di recesso, non è consentito al datore di lavoro che abbia comminato un licenziamento disciplinare dedurre in giudizio, quale ulteriore motivazione del licenziamento, la carcerazione preventiva del dipendente. La carcerazione preventiva per fatti estranei allo svolgimento del rapporto non costituisce inadempimento contrattuale, ma integra un fatto oggettivo determinante l'oggettiva impossibilità sopravvenuta della prestazione, il cui rilievo deve essere valutato alla stregua dei criteri oggettivi di cui all'art. 3 L. 15/7/66 n. 604 con relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro (nella specie il giudice ha ritenuto una carenza di organico non riferita a singole qualifiche e l'intervenuta assunzione in corso d'anno di 80 nuovi addetti non fosse sufficiente a dimostrare il venire meno dell'apprezzabile interesse alla prosecuzione della prestazione dopo una carcerazione preventiva durata tre mesi). (Trib. Livorno 17/9/2002, in D&L 2003, 411)
  • La disposizione prevista dall'art. 102 bis disp. att. c.p.p., quale introdotto dall'art. 24 L. 8/8/95 n. 332 - secondo cui chiunque sia stato licenziato perché sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero degli arresti domiciliari ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro in caso di sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero di provvedimento di archiviazione - non ha inciso sulla disciplina della legittimità del licenziamento, bensì soltanto sulle sue conseguenze essendo stato riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro; né sulla legittimità del licenziamento, fondato esclusivamente sul protrarsi dell'impossibilità da parte del lavoratore di rendere la sua prestazione, può incidere il successivo accertamento dell' ingiustizia della carcerazione preventiva (Cass. 2/5/00 n. 5499, pres. Trezza, est. Lupi, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 492 e in Dir. lav. 2001, pag. 20, con nota di Pozzaglia, La reintegrazione del lavoratore licenziato per ingiusta detenzione)
  • Deve essere accolta l'istanza di reintegrazione ex art. 700 c.p.c. nel posto di lavoro di una lavoratrice licenziata a seguito di arresto per fatti estranei all'attività lavorativa convalidato con ordinanza del Gip, cui ha fatto seguito la concessione degli arresti domiciliari con autorizzazione ad assentarsi dall'abitazione per riprendere la propria attività lavorativa (Trib. Milano 21 febbraio 2000 (ord.), est. Mascarello, in D&L 2000, 460)
  • La carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento di obblighi contrattuali, ma integra un fatto oggettivo che determina una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, in relazione alla quale la persistenza nel datore di lavoro dell'interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto deve essere valutata secondo criteri obiettivi, a norma dell'art. 3, seconda parte, L. 15 luglio 1966, n. 604, cioè con riferimento alle esigenze dell'azienda, da valutarsi con giudizio ex ante e non già ex post. Si dovrà cioè tener conto delle dimensioni dell'azienda stessa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in concreto attuata, della natura e importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, della durata ragionevolmente prevedibile della custodia cautelare, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri dipendenti i compiti da lui svolti senza ricorrere a nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell'assenza (nella specie, è stata cassata la sentenza del Tribunale di Salerno 7 febbraio 1997, per avere i giudici di merito compiuta la valutazione sull'impossibilità sopravvenuta della prestazione con giudizio ex post, e non già ex ante e per avere essi suggerito, in aperta violazione dell'art. 2103 c.c., l'opportunità di adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori a quelle di assunzione o alle ultime effettivamente svolte, ovvero di avvicendare più lavoratori su una qualifica superiore, allo specifico fine che nessuno di loro potesse effettivamente acquisirla) (Cass. 1/9/99, n. 9239, in Riv. It. Dir. Lav. 2000, pag. 547, con nota di Borzaga, In tema di carcerazione preventiva del lavoratore e giustificato motivo oggettivo di licenziamento)
  • Non costituisce valido motivo di licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione lo stato di custodia cautelare del dipendente, protrattosi per un periodo di due mesi e mezzo, quando la dimensione dell’organizzazione aziendale e le mansioni del dipendente consentano di gestire senza significativi contraccolpi l’assenza del lavoratore e possa ragionevolmente prevedersi, in riferimento all’entità della pena applicabile e all’assenza di precedenti penali, che il lavoratore possa usufruire di benefici incidenti sullo stato di privazione della libertà (Trib. Milano 24/12/96, pres. Mannacio, est. Sbordone, in D&L 1997, 637)
  • Ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, derivante dalla sopravvenuta impossibilità per il lavoratore di offrire la prestazione lavorativa a causa di carcerazione preventiva, grava sul datore di lavoro la prova dell'esistenza di un apprezzabile e specifico pregiudizio all'attività aziendale, ovvero della necessità di una modificazione stabile e definitiva dell'organizzazione del lavoro, tale da rendere il reinserimento del lavoratore incompatibile con la situazione aziendale (Pret. Milano 13/2/95, est. Porcelli, in D&L 1995, 711)