Questioni varie

  • La procedura di licenziamento collettivo si applica anche in caso di cessazione di attività di un’impresa appaltatrice, salvo subentro nell’appalto, con riassunzione del personale a parità di condizioni.
    In un caso di impugnazione come collettivo di un licenziamento totale del personale di un’impresa appaltatrice, cui era subentrata nell’appalto altra impresa che aveva assunto parte dei dipendenti, i giudici di merito avevano respinto la domanda, negando la natura di licenziamento collettivo (e quindi la necessaria applicazione della relativa procedura) al caso di cessazione totale di attività. L’assunto della Corte d’appello non supera il vaglio della Cassazione, che, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva che (i) l’art. 24, co. 2, l. 223/91 prevede espressamente il licenziamento collettivo anche nel caso di cessazione totale dell’attività di impresa; (ii) in caso di subentro di un nuovo appaltatore, che acquisisca personale già impiegato nel medesimo appalto, la procedura sui licenziamenti collettivi può essere derogata – ai sensi dell’art. 7, co. 4 bis, dl 248/07 – solo allorché i lavoratori siano riassunti dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore; (iii) nel caso di specie, la Corte d’appello non ha compiuto alcun accertamento sull’effettiva rispondenza della proposta di riassunzione formulata dalla società subentrante nell’appalto ai requisiti indicati dall’art. 7, co. 4 bis, dl 248/07. (Cass. 11/4/2023, n. 9650, Pres. Raimondi, Rel. Patti, in Wikilabour, Newsletter n. 8/23)
  • Quando le dimissioni valgono come licenziamento.
    Nel caso analizzato dalla Corte, un’impresa non aveva considerato, ai fini dell’applicazione della disciplina sul licenziamento collettivo, alcuni dipendenti che avevano aderito a una risoluzione consensuale del rapporto per non aver accettato un trasferimento, disposto nel contesto di una riduzione di personale. Viceversa la Corte, superando una precedente giurisprudenza datata, ribadisce che, alla stregua del diritto comunitario sui licenziamenti collettivi, al fine della verifica del numero minimo dei dipendenti coinvolti che comporta l’applicazione relativa disciplina, rientra nella nozione di licenziamento il fatto che il datore di lavoro proceda a una modifica sostanziale e svantaggiosa degli elementi del contratto di lavoro, da cui consegua la cessazione del rapporto, anche su richiesta del lavoratore medesimo. (Cass. 20/7/2020 n. 15401, ord., Pres. Berrino Rel. Patti, in Wikilabour, Newsletter n. 15/2020)
  • Non sussiste alcun obbligo a carico del datore di riaprire una procedura di licenziamento collettivo legalmente conclusa all’esito del referendum dei lavoratori. (Trib. Roma 22/4/2017, decr., Est. Quartulli, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di G. Sforza, “Crisi della rappresentatività del sindacato e contrattazione aziendale: riflessioni sollecitate dal caso Almaviva”, 917)
  • In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. 23 luglio 1991, n. 223, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Trib. Firenze 19/7/2016, Giud. Taiti, in Lav. nella giur. 2016; 1133)
  • Nel licenziamento collettivo per riduzione del personale non è consentito al giudice sindacare sull’an della decisione ma soltanto sul quomodo. Il giudice non può sostituire la sua valutazione, eventualmente difforme, a quella dell’imprenditore, in quanto, con riferimento alla sussistenza o meno di una grave crisi economica, compete all’imprenditore la facoltà di scegliere e attuare la politica imprenditoriale da lui ritenuta più vantaggiosa. (Trib. Caltagirone 1/7/2016, ord., Est. Gasparini, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Militello, “Licenziamento collettivo per riduzione del personale. La libertà dell’an e i vincoli del quomodo”, 250)
  • L’esenzione dal pagamento del contributo di mobilità prevista dall’art. 3, comma 3, della l. n. 223/1991 si applica nella sola ipotesi in cui il licenziamento collettivo sia disposto dagli organi di una procedura concorsuale stante la natura eccezionale e di stretta interpretazione della norma. (Cass. 11/11/2014 n. 23984, Pres. Coletti De Cesare Est. Ghinoy, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Agostino Di Feo, “L’esenzione dal versamento del contributo di accesso alla mobilità e gli accordi di ristrutturazione del debito”, 94)
  • All’esito delle disposizioni della L. n. 223/1991 il controllo giurisdizionale non riguarda i motivi della riduzione del personale (attesa la devoluzione del controllo sull’iniziativa imprenditoriale alle organizzazioni sindacali, destinatarie di poteri di informazione e consultazione), ma solo la correttezza procedurale della operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni citate dai citati artt. 4 e 5 (e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri controllo) si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Trib. Cosenza 20/3/2014, Giud. Maccarrone, in Lav. nella giur. 2014, 614)
  • La scelta imprenditoriale, assolutamente insindacabile in sede giudiziale, della stagionalità dell’attività e della conseguente riduzione dei costi attuata attraverso il licenziamento collettivo di tutto il personale a tempo indeterminato, e il mantenimento del solo personale a tempo determinato, concretizza una trasformazione del lavoro che giustifica il ricorso alla procedura collettiva. (Trib. Padova 17/7/2013, Giud. Bortot, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Valeria Nuzzo, “Quanto la ‘forma comune di rapporto di lavoro’ diventa incompatibile con l’organizzazione datoriale”, 44)
  • In materia di benefici contributivi a favore delle imprese che assumono lavoratori collocati in mobilità, non è configurabile il diritto di fruire delle agevolazioni previste dall’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991 in favore di impresa edile che, dopo aver licenziato per fine lavori i propri dipendenti, decida di procedere alla ripresa dell’attività e, entro un anno dal licenziamento (ora sei mesi in virtù della modifica introdotta dell’art. 6, comma quarto, del d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297), riassuma i lavoratori per lo svolgimento delle mansioni precedentemente esercitate. (Cass. 12/11/2012 n. 19647, Pres. Coletti De Cesare Rel. Napoletano, in Riv. It. Dir. Lav. 2013, con nota di Alessia de Concilio, “No alle agevolazioni per le imprese edili che riassumono i dipendenti licenziati per fine lavori”, 464)
  • L'esclusione dall'obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, comma quarto, della legge 23 luglio 1991 n. 223, fra l'altro, per la fine lavoro nelle costruzioni edili, motivata dall'impossibilità assoluta di un'ulteriore utilizzazione dei lavoratori destinatari dei provvedimenti di recesso, opera anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche professionalità, non utilizzabili successivamente; non opera, invece, quando la fase lavorativa non sia ultimata, ma sia in corso di graduale esaurimento, atteso che in tal caso si rende necessaria una scelta fra lavoratori da licenziare e lavoratori da adibire all'ultimazione dei lavori, scelta che deve seguire le regole di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223/1991. (Nel caso di specie la S.C., nel rigettare il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione della corte d'appello, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, ha ritenuto che effettivamente non potesse dirsi esaurita alcuna fase dei lavori, posto che all'epoca dei licenziamenti era stato realizzato mediamente poco più del sessanta per cento delle strutture in cemento armato, mentre la forza lavoro era stata ridotta del quaranta per cento, il che evidenziava essere stata operata una scelta, tra i carpentieri addetti al cemento armato, ai fini del licenziamento di alcuni di essi). (Rigetta, App. Roma, 30 settembre 2005). (Cass. 6/2/2008 n. 2782, Pres. Senese Est. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2008, 2153)
  • In controversia promossa da un lavoratore per la contestazione di un licenziamento collettivo irrogato in violazione delle disposizioni dell'art. 4, commi 3 e 9, e dell'art. 5 della L. 23 luglio 1991 n. 223, il giudice, ove dichiari inefficace il recesso e riscontri che il datore di lavoro abbia cessato l'attività aziendale, non può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno. In questo ambito, anche l'estensione, ai sensi dell'art. 24, comma secondo, della L. n. 223 del 1991, della disciplina prevista in materia di mobilità ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell'insediamento produttivo deve essere intesa nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell'attività aziendale, e cioè in modo da assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale, in accordo con la ratio della estensione dei detti meccanismi della L. n. 223 del 1991 ai casi di cessazione di attività, sottolineata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 21 gennaio 1999. (Cass. 7/6/2007 n. 13297, Pres. Mattone Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2008, 85) 
  • Ai fini dell'esclusione dai benefici contributivi previsti dall'art. 8 della L. n. 3 del 1991, per le imprese che, pur riassumendo lavoratori a seguito di procedure di mobilità, abbiano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quella che aveva proceduto ai licenziamenti, è necessario accertare - secondo la sentenza in esame - caso per caso quando ed entro quali limiti si può ritenere che si verifichi la predetta condizione. (Cass. 5/4/2007 n. 8595, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Gianluigi irardi, 1001)
  • In tema di licenziamento collettivo conseguente all'attivazione delle procedure di mobilità, l'art. 5, comma terzo, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ricollega la sanzione dell'inefficacia alla violazione delle procedure richiamate dal precedente art. 4, comma dodicesimo, e la sanzione dell'annullabilità alla violazione dei criteri di scelta previsti dal primo comma del medesimo art. 5. In particolare, la predetta "inefficacia" è sinonimo di nullità, poichè la mancata produzione di effetti costituisce la conseguenza tipica di questa più grave forma di invalidità, senza che rilevi in senso contrario che il suddetto art. 5, comma terzo, ricolleghi sia all'inefficacia che all'annullabilità del licenziamento gli effetti stabiliti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970. La conseguenza che ne deriva sul piano pratico è che in presenza di un licenziamento nullo può verificarsi l'interruzione di fatto della prestazione lavorativa, ma non l'interruzione del rapporto di lavoro, poichè l'atto di recesso non è in grado di incidere sull'esistenza e permanenza del rapporto. (Cass. 19/12/2006 n. 27101, Pres. Mercurio Est. D'Agostino, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Gianluigi Girardi, 579)
  • Le pubbliche amministrazioni, nell'ipotesi di esubero inferiore a diecie unità, possono procedere al collocamento in disponibilità per rilevata eccedenza di organico soltanto qualora non sia possibile impiegare diversamente i lavoratori in esubero o qualora gli stessi non abbiano preso servizio presso una diversa pubblica amministrazione disposta a ricollocarli. (Trib. Firenze 30/6/2006, Est. D'Amico, in D&L 2007, con nota di Filippo Pirelli, "Eccedenze di personale nella PA e disciplina applicabile", 252)
  • Le dimissioni incentivate non sono equiparabili ai licenziamenti collettivi ai fini del raggiugimento della soglia numerica prevista dall'art. 24, l. n. 223/1991, quand'anche esse siano state proposte all'avvio della procedura di mobilità come soluzione alternativa al recesso datoriale. (Cass. 23/6/2006 n. 14638, Pres. Mattone Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Maddalena Carusone, "Non compatibilità delle dimissioni incentivate ai fini della soglia numerica del licenziamento collettivo", 425)
  • Il lavoratore, il quale voglia far valere l’inefficacia o l’annullamento del licenziamento intimatogli, giusta quanto disposto dall’art. 5, terzo comma, e dall’art. 24, primo comma, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di “iter” procedurale per la messa in mobilità o per la riduzione del personale, è tenuto – a fronte dei numerosi adempimenti imposti dalle suddette norme – ad indicare le specifiche omissioni e le specifiche irregolarità addebitate e su cui fonda il “petitum”, in osservanza del disposto dell’art. 414 c.p.c. ed in ragione dei criteri caratterizzanti il processo del lavoro. Solo quando il lavoratore che propone l’impugnativa abbia sufficientemente allegato i fatti costitutivi della pretesa azionata in relazione alla contestazione della mancata osservanza dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità grava sul datore di lavoro l’onere di indicare e provare le circostanze di fatte poste a base dell’applicazione dei suddetti criteri. (Cass. 8/8/2005 n. 16629, Pres. Mileo Rel. Miani Canevari, in Lav. e prev. oggi 2005, 1842)
  • Nel caso in cui sia stata domandata la declaratoria di illegittimità di un licenziamento collettivo per carenza dei presupposti e violazione delle norme sui criteri di scelta, non è consentito al giudice di esaminare d’ufficio il profilo dell’eventuale nullità dell’atto risolutivo per mancata osservanza, da parte del datore di lavoro, delle regole procedimentali; né l’esame di tale profilo può ritenersi imposto dal principio di cui all’art. 1421 c.c. sulla rilevabilità d’ufficio della nullità del negozio giuridico in ogni stato e grado del giudizio, atteso che tale principio va coordinato con le regole del processo e, segnatamente, con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.), i quali escludono che il giudice possa dichiarare di sua iniziativa una nullità il cui accertamento presupponga l’esercizio di una azione diversa da quella in effetti proposta. (Cass. 22/4/2005 n. 8474, Pres. Ravagnani Rel. Maiorano, in Dir. e prat. lav. 2005, 2336)
  • Il ridimensionamento dell'attività imprenditoriale che legittima il ricorso alla procedura di mobilità ex art. 4 e 24 l. n. 223 del 1991, non è escluso nè dalla prestazione di lavoro straordinario dei dipendenti rimasti in servizio nè dal mero affidamento a terzi di operazioni o lavorazioni prima svolte direttamente in azienda, e neppure dalla circostanza di nuove assunzioni, ove non risulti la necessità di colmare vuoti di organico originati ingiustificatamente dal processo di ristrutturazione, e ove non si sia in presenza di un ampliamento dell'attività economica dell'impresa non giustificata sulla base delle ragioni che hanno portato alla riduzione del personale. (Cass. 29/4/2004 n. 8269, Pres. Mattone Est. Vidiri, in Giust. civ. 2005, 443)
  • Il lavoratore in mobilità ha la facoltà e non l'obbligo di accettare contratti di lavoro subordinato a tempo parziale o determinato, come letteralmente prevede l'art. 8, sesto comma, l. n. 223/1991. (Cass. 6/7/2002, n. 9854, Pres. Trezza, Est. Maiorano, in Riv. it. dir. lav. 2003, 139, con nota di Antonella Occhino, Nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di mobilità).
  • Non è sufficiente a rendere inoppugnabile il licenziamento per riduzione di personale una "disponibilità" preventiva data dal singolo lavoratore per essere messo in mobilità, posto che questa, visto il meccanismo di funzionamento dell'istituto, resta sempre una modalità di risoluzione del rapporto collegata all'iniziativa unilaterale del datore di lavoro, sicché solo una conciliazione in sede sindacale tra datore di lavoro e singolo lavoratore è mezzo idoneo a porre il datore al riparo da eventuali ripensamenti dei lavoratori interessati. (Trib. Milano 20/3/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 88)
  • In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, il controllo devoluto al giudice in sede contenziosa non riguarda gli specifici motivi della riduzione del personale ma la correttezza procedurale dell'operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5, l. n. 223/91, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di una indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva. Il lavoratore che voglia ottenere la dichiarazione di inefficacia o l'annullamento del licenziamento intimatogli in base alla l. n. 223/91, sull'assunto del mancato rispetto dell'iter procedurale previsto dalla citata legge, è tenuto, a fronte dei numerosi adempimenti imposti, ad indicare nell'atto introduttivo del giudizio le specifiche omissioni ed irregolarità addebitate al datore di lavoro sui cui fonda il petitum, non potendo, inoltre, far valere nel corso del giudizio omissioni o irregolarità diverse o ulteriori rispetto a quelle originariamente denunciate, traducendosi, siffatta condotta processuale, in una mutatio libelli non consentita dall'art.420 c.p.c. (Trib. S. Maria Capua Vetere 22/1/01, pres. e est. Amendola, in Dir. lav. 2001, pag. 374, con nota di Fiata, Sindacato giudiziale e profili probatori nella disciplina dei licenziamenti collettivi)
  • Nel caso di licenziamento collettivo non è richiesto il rispetto di alcun requisito specifico nella comunicazione del recesso, all'infuori della forma scritta dell'atto; tale licenziamento infatti non è soggetto al controllo giudiziale sulla giustificazione dei motivi, comportando un controllo procedurale preventivo dell'operazione imprenditoriale di ridimensionamento (Cass. 6/7/00, n. 9045, pres. Amiarnte, est. Cataldi, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 573, con nota di Salomone, Licenziamento collettivo: gli obblighi di forma nella comunicazione del recesso al lavoratore e il controllo sulla giustificatezza dei motivi)
  • La nozione di riduzione o trasformazione di attività o lavoro, di cui all'art. 24 L. 23/7/91 n. 223, include anche l'ipotesi di diversa ripartizione e di più intensa utilizzazione della forza lavoro (Cass. sez. lav. 12 ottobre 1999 n. 11455, pres. De Tommaso, est. Vidiri, in D&L 2000, 123, n. MUGGIA, Licenziamenti collettivi: tutto ai sindacati, niente ai giudici)
  • Alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per riduzione di personale ex art. 24 L. 223/91 conseguono, nei confronti di società nel frattempo fallita, le pronunce restitutorie compatibili con la limitata competenza del giudice del lavoro, e quindi l'ordine di reintegrazione con esclusione di pronunce di condanna al pagamento di somme (Pret. Milano 14/1/95, est. Frattin, in D&L 1995, 585, nota SCARPELLI, Problemi applicativi della disciplina dei licenziamenti collettivi: criteri di computo dei dipendenti e reintegrazione nei confronti dell'impresa fallita)
  • L'eventuale consenso prestato da lavoratore ai fini della sua inclusione tra i licenziandi è irrilevante, soprattutto qualora il dipendente si accorga in seguito di violazioni di legge e intenda impugnare il provvedimento di mobilità (Pret. Milano 29/11/94, est. Mascarello, in D&L 1995, 336)
  • Al lavoratore che, allo spirare del termine di scadenza del periodo di sospensione in CIGS, sia immediatamente collocato in mobilità, compete il preavviso ai sensi dell'art. 4 c. 9 L. 223/91, non essendo ammissibile che il periodo di preavviso decorra in costanza della sospensione in CIGS (Pret. Milano 1/9/94, est. Frattin, in D&L 1995, 168)