Appello

  • Il giudice, fin dal primo grado e dunque anche in appello, deve esercitare il proprio potere-dovere di integrazione probatoria, ex officio, con l’acquisizione della documentazione offerta contestualmente con l’atto di impugnazione sulla base di allegazione effettuata già in primo grado, laddove tale documentazione sia indispensabile per provare i fatti costitutivi, motivando sulla decisività delle produzioni; con applicazione dell’affermato principio anche in riferimento alle prove orali. (Cass. 23/4/2021 n. 10878, Pres. Manna Rel. Mancino, in Lav. nella giur. 2021, 761)
  • Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con mod. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra tuttavia l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la propria diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. (Cass. 4/11/2020 n. 24604, Pres. Manna Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2021, 195)
  • Nel processo del lavoro in grado di appello il termine che il giudice (qualora constati la nullità della notifica del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza) deve assegnare all’appellante per rinnovare la notifica ha carattere perentorio, pertanto, qualora non sia rispettato, l’appello deve essere dichiarato improcedibile, anche qualora l’appellato, per effetto della notifica, si sia comunque costituito in giudizio. (Cass. 5/10/2020 n. 21298, Pres. Berrino Rel. Cinque, in Lav. nella giur. 2021, 81)
  • L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., deve essere pronunciata dal giudice competente prima di procedere alla trattazione della causa, sicché la stessa, ove emessa successivamente, risultando viziata per violazione della legge processuale, è affetta da nullità. Tale principio si applica anche nel rito del lavoro - nel quale la pronuncia dell’ordinanza in questione deve collocarsi prima di ogni altra attività, immediatamente dopo la verifica della regolare costituzione delle parti nel giudizio di appello - giacché, da un lato, l’art. 436-bis c.p.c., nell’estendere all’udienza di discussione la disciplina degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., non contiene alcuna proposizione che faccia riferimento ad una misura di compatibilità di detta disciplina con i tratti peculiari del rito speciale e, dall’altro, l’udienza di discussione, pur nella sua formale unicità, può scindersi in frazioni o segmenti successivi ordinatamente volti a configurare momenti distinti, ciascuno connotato da una specifica funzione processuale, con l’effetto di definire il luogo del compimento, da parte del giudice, di singole attività. (Cass. 1/6/2020 n. 10409, Pres. Nobile Rel. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2020, 990, e in Lav. nella giur. 2021, con nota di A. Casalino, Il filtro dell’appello nel rito del lavoro: ultimo atto, 235)
  • La notifica del ricorso in appello in riassunzione effettivamente intervenuta, ma senza il rispetto dei termini di cui all’art. 435 c.p.c., co. 3, è sempre sanabile con l’assegnazione all’attore di nuovo termine per la rinotifica. (Cass. 6/2/2019 n. 3482, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G.S. Vigorita, “È sempre sanabile la notifica nulla del ricorso in appello”, 704)
  • Nel rito del lavoro l’inosservanza, in sede di appello, del termine dilatorio a comparire non è configurabile come vizio di forma e di contenuto dell’atto introduttivo, atteso che, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, essa si verifica quando l’impugnazione è stata già proposta mediante il deposito del ricorso in cancelleria, mentre nel procedimento ordinario di cognizione il giorno dell’udienza di comparizione è fissato dalla parte, considerato altresì, che tale giorno è fissato, nel rito del lavoro, dal giudice con il suo provvedimento. Pertanto, tale inosservanza non comporta la nullità dello stesso atto di appello, bensì quella della sua notificazione, sanabile ex tunc per effetto di spontanea costituzione dell’appellato o di rinnovazione, disposta dal giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c., costituendo questa norma espressione di un principio generale dell’ordinamento, riferibile a ogni atto che introduce il rapporto processuale e lo ricostituisce in una nuova fase giudiziale, per cui sono sanabili “ex tunc”, con effetto retroattivo a seguito della rinnovazione disposta dal giudice, non solo le nullità contemplate dall’art. 160 c.p.c., ma tutte le nullità in genere della notificazione, derivanti da vizi che non consentono all’atto di raggiungere lo scopo cui è destinato, ossia la regolare costituzione del rapporto processuale, senza che rilevi che tali nullità trovino la loro origine in una causa imputabile all’ufficiale giudiziario o alla parte istante. (Cass. 10/10/2016 n. 20335, Pres. Macioce Rel. Torrice, in Lav. nella giur. 2017, 194)
  • In tema di motivazione per relationem, è meramente apparente la motivazione che non permetta di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da esse al risultato enunciato, sì che ne riesce integrata una sostanziale inosservanza dell’obbligo imposto al giudice dall’art. 132 c.p.c., n. 4, di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione (nella specie, è stata cassata la sentenza di appello che, nel condividere l’opzione interpretativa operata dal giudice di primo grado in tema di liquidazione della disoccupazione agricola, oltre a contenere un richiamo meramente assertivo alla giurisprudenza, non aveva esplicitato la normativa esaminata dal tribunale in tema di liquidazione della disoccupazione agricola, gli elementi fattuali accertati e presi in esame, i motivi di doglianza sollevati dall’appellante e le ragioni del dissenso dell’altra parte, la narrativa dello svolgimento del processo). (Cass. 3/6/2016 n. 11508, Pres. Bronzini Est. Doronzo, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di D. Girardi, “Sui motivi per relationem, fra motivazione apparente e apparente scomparsa del vizio logico ex art. 360, n. 5, c.p.c.”)
  • In tema di ammissibilità della motivazione per relationem, ove la stessa richiami un orientamento giurisprudenziale, vi deve essere un esplicito riferimento al precedente che, anche se non ritrascritto nelle sue parti significative, sia tale da consentire di enucleare, attraverso la sua lettura, il percorso logico-giuridico seguito ad una certa decisione. (Cass. 3/6/2016 n. 11508, Pres. Bronzini Est. Doronzo, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di D. Girardi, “Sui motivi per relationem, fra motivazione apparente e apparente scomparsa del vizio logico ex art. 360, n. 5, c.p.c.”)
  • L’art. 434, co. 1, c.p.c., nel testo introdotto dall’art. 54, co. 1, lett. c-bis del d.l. n. 83/2012, convertito nella legge n. 134/2012, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni dell’appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impongono di circoscrivere l’ambito del gravame in modo chiaro ed esauriente non solo con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono, nonché di individuare le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice e di esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte. (Cass. 2/2/2015 n. 2143, Pres. Macioce Est. Ghinoy, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota Silvia Izzo, “Forma e contenuto dell’atto di appello del rito del lavoro secondo la (primissima) giurisprudenza di legittimità”, 503)
  • Allorché la Corte di merito abbia accertato, per la prima volta in quella sede, che, nella fattispecie, non era emersa la prova dell’avvenuta ricezione, da parte del lavoratore, della missiva contenente la contestazione disciplinare propedeutica al successivo licenziamento, non è ravvisabile alcuna violazione dello ius novorum in appello, e neppure alcuna ultra-petizione o alcuna violazione del principio del contraddittorio, qualora il lavoratore abbia comunque, anche genericamente, già affermato in primo grado di non avere ricevuto la comunicazione, e in sede di appello abbia poi svolto, per la prima volta, semplici ulteriori deduzioni su elementi di fatto già acquisiti e già oggetto di contraddittorio tra le parti. (Cass. 21/11/2014 n. 24886, Pres. Macioce Rel. Nobile, in Lav. nella giur. 2015, 195)
  • In tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice. (Cass. 10/6/2014 n. 13054, Pres. Miani Canevari Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2014, 921)
  • L’interesse all’impugnazione, quale manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, sancito, quanto alla proposizione della domanda e alla contraddizione della stessa, dall’art. 100 c.p.c., deve essere apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame. Occorre quindi valutare la sussistenza di un interesse identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile, mediante la rimozione della statuizione censurata e non già di un mero interesse astratto a una più corretta soluzione di una questione giuridica. Inoltre, tale interesse deve sussistere non solo al momento in cui è proposta l’azione, o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione. (Cass. 11/3/2014 n. 5581, Pres. Miani Canevari Rel. Bandini, in Lav. nella giur. 2014, 603)
  • In ipotesi di responsabilità solidale tra coobbligati, si verte in causa scindibile (art. 332 c.p.c.), cosicché, l’appello proposto da uno soltanto dei condannati in solido non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti del coobbligato non appellante, qualora, nei suoi confronti, siano decorsi i termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. (Cass. 20/12/2013 n. 28564, Pres. Stile Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2014, 279)
  • La morte del procuratore, a mezzo del quale la parte è costituita in giudizio, determina automaticamente l’interruzione del processo, anche qualora il giudice e le altre parti non ne hanno avuto conoscenza, con preclusione di ogni ulteriore attività processuale che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza. Ne consegue che, nel processo del lavoro, se l’evento interviene dopo il deposito in cancelleria del ricorso in appello, ma antecedentemente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione ex art. 435 cod. proc. civ., e sebbene si tratti di una fase dinamica del processo, scandita da adempimenti assoggettati a preclusioni, la notifica di ricorso e decreto al difensore deceduto dell’appellato non è idonea all’instaurazione di un regolare contraddittorio, risultando altrimenti vulnerato il diritto di difesa dell’appellato, essendo impossibile l’adempimento del dovere di informazione gravante sul procuratore, ai fini della valutazione dell’opportunità di costituirsi in giudizio proponendo, eventualmente, un’impugnazione incidentale. (Cass. 28/10/2013 n. 24271, Pres. Roselli Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2014, 80, e in Lav. nella giur. 2014, con commento di Antonio Scarpa, 572)
  • Il principio di acquisizione probatoria – che comporta l’impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ritualmente assunte, le quali possono giovare o nuocere all’una o all’altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte – trova fondamento nel principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e riscontro in disposizioni del codice di rito, quali l’art. 245, comma 2, c.p.c., secondo cui “la rinuncia fatta da una parte all’audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente”. Ne consegue che nel rito del lavoro, in assenza di siffatta rinuncia, il giudice, anche in appello, non può non escutere i testi non nuovi ma già ammessi nel giudizio di primo grado su istanza di una parte (e per i quali non siano intervenute decadenze) di cui sia stata richiesta l’audizione dalla controparte, senza che assuma rilievo che quest’ultima sia stata dichiarata decaduta dalla propria prova testimoniale. (Cass. 25/9/2013 n. 21909, Pres. Vidiri Rel. Tria, in Lav. nella giur. 2013, 1120)
  • Nel rito del lavoro, in deroga al generale di vieto di nuove prove in appello, è possibile l’ammissione di nuovi documenti, su richiesta di parte o anche d’ufficio, solo nel caso in cui essi abbiano una speciale efficacia dimostrativa o siano ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione della causa, facendosi riferimento per “indispensabilità” delle nuove prove a una loro “influenza causale più incisiva” rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto “rilevanti”, ovvero a prove che sono idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che da sole considerate, e quindi a prescindere dal loro collegamento con altri elementi e da altre indagini, conducano a un esito “necessario” della controversia. (Cass. 9/9/2013 n. 20614, Pres. Lamorgese Rel. Garri, in Lav. nella giur. 2013, 1121)
  • Il requisito per l’ammissibilità della produzione di nuovi documenti in appello a norma dell’art. 345 comma 3 c.p.c., e cioè la verifica da parte del giudice dell’indispensabilità dello stesso – requisito posto dalla legge per escludere che il potere del giudice venga esercitato in modo arbitrario – non richiede necessariamente un apposito provvedimento motivato di ammissione, essendo sufficiente che la giustificazione dell’ammissione sia desumibile inequivocabilmente dalla motivazione della sentenza di appello, dalla quale risulti, anche per implicito, la ragione per la quale tale prova sia stata ritenuta decisiva ai fini del giudizio (nella fattispecie è stata cassata la sentenza impugnata, atteso che mancava del tutto la valutazione di indispensabilità, avendo la Corte di merito esplicitamente ritenuto soltanto “opportuna per motivi di completezza” l’ammissione della documentazione prodotta per la prima volta in appello). (Cass. 22/11/2012 n. 21117, Pres. Oddo Rel. San Giorgio, in Lav. nella giur. 2013, 194)
  • Nelle ipotesi in cui il vizio di rito denunciato non rientri in uno dei casi tassativamente previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., è necessario, in virtù di una loro lettura costituzionalmente orientata, stante l’art. 111 Cost., così come interpretato in modo concorde da dottrina e giurisprudenza, che l’appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, con la conseguenza che, in tale ipotesi, l’appello fondato esclusivamente sui vizi di rito è inammissibile oltre che per carenza di interesse anche per mancata corrispondenza al modello legale di impugnazione. (Cass. 25/9/2012 n. 16272, Pres. Trifone Rel. Uccella, in Lav. nella giur. 2012, 1214)
  • L’appellante, che abbia richiesto ai fini della notifica, e poi anche ritirato, copia autentica del ricorso depositato, recante in calce il decreto presidenziale di fissazione del’udienza, acquisisce in tal modo una conoscenza legale del decreto stesso, in tutto equipollente alla conoscenza che gli sarebbe derivata dalla comunicazione del decreto mediante biglietto di cancelleria, caratterizzata dagli stessi requisiti di certezza di avvenuta consegna della copia e di individuazione del destinatario. (Cass. 11/6/2012 n. 9421, Pres. Vidiri Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2012, 816)
  • Qualora il lavoratore abbia dedotto, con il ricorso introduttivo di primo grado, l’illegittimità del licenziamento disciplinare, sostenendo l’insussistenza o l’irrilevanza dei fatti addebitatigli, costituisce inammissibile mutamento della domanda, la richiesta in appello di accertamento della illegittimità del medesimo licenziamento anche per consumazione del potere disciplinare, in quanto gli stessi fatti posti a fondamento del licenziamento sarebbero già stati oggetto di una precedente contestazione disciplinare, già seguita dalla irrogazione di una meno grave sanzione disciplinare. Quando un medesimo danno sia stato provocato da più lavoratori, per inadempimenti contrattuali diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il datore di lavoro danneggiato, questi lavoratori non possono essere considerati corresponsabili in solido ai sensi dell’art. 2055 c.c., norma dettata solo per la responsabilità extracontrattuale: occorrerà invece accertare per ciascuno di essi il nesso di causalità con l’evento dannoso complessivo e quindi la concreta incidenza dell’inadempimento di ciascuno (la Corte si è così pronunciata nella controversia fra un direttore di filiale e l’Istituto di credito, relativamente alle richieste risarcitorie avanzate dalla banca per i danni subiti dalle perdite conseguenti alle incaute aperture di credito autorizzate dal direttore). (Cass. 28/5/2012 n. 8293, Pres. Roselli Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2012, 818)
  • Il provvedimento (nella specie un’ordinanza) mediante il quale il giudice decide sulla questione concernente la richiesta di chiamata in giudizio di un terzo, da cui la parte richiedente intende essere manlevata, ha comunque natura sostanziale di sentenza. Ne consegue che avverso tale provvedimento, ai sensi dell’art. 340 c.p.c., occorre proporre gravame immediato o fare riserva di appello differito. Qualora non si ottemperi a tale onere, l’appello sul punto deve ritenersi precluso. (Cass. 11/7/2011 n. 15156, Pres. Vidiri Rel. Zappia, in Lav. nella giur. 2011, 949)
  • L’art. 345, comma 3, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che, fermo restando, sul piano generale, il principio dell’inammissibilità dei nuovi mezzi di prova e quindi anche delle produzioni documentali, il giudice di appello è abilitato ad ammettere, in sede di gravame, oltre a quelle prove che le parti dimostrino di non aver potuto proporre per causa a esse non imputabile, solo quelle prove che ritenga nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite indispensabili in quanto suscettibili di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia; l’indispensabilità, in definitiva, deve essere intesa come capacità di determinare un positivo accertamento dei fatti di causa, decisivo, talvolta, per giungere a un completo rovesciamento della decisione cui è pervenuto il primo. (Cass. 21/6/2011 n. 13606, Pres. Amatucci Rel. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2011, 841)
  • Poiché nel rito del lavoro la tempestività dell’appello va riscontrata con riguardo alla data di deposito del ricorso introduttivo presso la cancelleria del giudice, quando il suddetto deposito sia avvenuto entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, la successiva notificazione va fatta al procuratore costituito e non alla parte personalmente. (Cass. 26/4/2011 n. 9344, Pres. Miani Canevari Rel. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2011, 736)
  • Nel rito del lavoro, il convenuto ha l’onere della specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore, ai sensi degli art. 167, comma 1, e 416, comma 3, c.p.c., e tale onere opera anche quando il convenuto contesti “in radice” la sussistenza del credito, poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l’affermazione dell’erroneità della quantificazione, mentre la contestazione dell’esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, sia pure subordinata, in relazione alle caratteristiche generali del rito del lavoro, fondato su un sistema di preclusioni diretto a consentire all’attore di conseguire la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato. Ne consegue che la mancata o generica contestazione in primo grado rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice, e la contestazione successiva in grado di appello è tardive e inammissibile. (Cass. 18/2/2011 n. 4051, Pres. Vidiri Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2011, 518)
  • Nel rito del lavoro, l’appellante che impugna in toto la sentenza di primo grado, insistendo per l’accoglimento delle domande, non ha l’onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a dette domande, ritualmente proposte in primo grado, in quanto detta riproduzione è insita nella istanza di accoglimento delle domande, mentre la parte vittoriosa in primo grado, non riproponendo alcuna richiesta di riesame della sentenza, a essa favorevole, deve manifestare in maniera univoca la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificatamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver riproposto l’istanza di ammissione della prova. (Cass. 11/2/2011 n. 3376, Pres. La Terza Rel. Nobili, in Lav. nella giur. 2011, 519)
  • L’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 non trova applicazione ai giudizi in grado di appello, in considerazione del testo normativo, che appare compatibile solo con i procedimenti in primo grado. (Corte d’app. Roma 11/1/2011, Pres. Cortesani Rel. Delle Donne, in Lav. nella giur. 2011, 418)
  • Nelle cause soggette al rito del lavoro la produzione di un contratto collettivo nel giudizio di appello, non configurando una prova costituenda (vietata a norma dell'art. 437 c.p.c.), può essere disposta dal giudice nell'ambito dei suoi poteri integrativi (nella specie, la Corte ha confermato un verdetto d'appello in cui il giudice aveva invitato l'appellante a produrre il contratto collettivo sulla base del quale era stato redatto il conteggio delle rivendicate differenze retributive). (Cass. 1/7/2010 n. 15653, Pres. Roselli Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2010, 942)
  • Nel giudizio d’appello è onere della parte produrre in giudizio il proprio fascicolo di primo grado, essendo esclusa la trasmissione al secondo giudice, unitamente al fascicolo d’ufficio, anche dei fascicoli di parte, con la conseguenza che la sua mancata acquisizione non vizia né il procedimento di secondo grado, né la relativa sentenza. (Corte app. Bologna, 8/6/2010, Pres. Molinaro, in Lav. Nella giur. 2010, 1051)

  • Nel regime precedente alla modifica dell'art. 2504 bis c.c. a opera del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, la fusione di società determina una situazione giuridica corrispondente alla successione universale e produce l'estinzione delle società partecipanti alla fusione o della società incorporata, nonché la contestuale sostituzione nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti a esse capo; ne consegue che la società risultante dalla fusione, con altre società, della società originariamente convenuta in giudizio è legittimata, ai sensi dell'art. 110 c.p.c., a costituirsi nel giudizio di primo grado e a proporre appello avverso la sentenza di quel grado a sé sfavorevole, a nulla rilevando che contestualmente alla fusione vi sia stato anche il trasferimento di un ramo d'azienda della società originariamente convenuta, in quanto tale trasferimento non determina il venir meno della legittimazione della società risultante dalla fusione, ma comporta soltanto che, ai sensi dell'art. 111 c.p.c., si aggiunge a essa la legittimazione della società cessionaria, quale successore a titolo particolare (fattispecie relativa al licenziamento di un funzionario di banca dipendente da una società che, nel corso del giudizio di primo grado, si era fusa con altre società e la cui attività, contestualmente alla fusione, era stata trasferita a terzi, con atto di cessione d'azienda). (Cass. 22/3/2010 n. 6845, Pres. Roselli Est. Amoroso, in Orient. giur. lav. 2010, 507) 
  • Ove non risulti alcuna annotazione dell'avvenuto ritiro del fascicolo di una parte - che, come il successivo ri-deposito, deve necessariamente avvenire per il tramite del cancelliere che custodisce l'incartamento processuale - il giudice non può rigettare una domanda, o un'eccezione, per mancanza di una prova documentale inserita nel fascicolo di parte, ma deve ritenere che le attività delle parti e dell'ufficio si siano svolte nel rispetto delle norme processuali e quindi che il fascicolo non sia mai stato ritirato dopo l'avvenuto deposito. Conseguentemente il giudice deve disporre le opportune ricerche tramite la cancelleria, e, in caso di insuccesso, concedere un termine all'appellante per la ricostruzione del proprio fascicolo, non potendo gravare sulla parte le conseguenze del mancato reperimento. Soltanto all'esito infruttuoso delle ricerche da parte della cancelleria, ovvero in caso di inottemperanza della parte all'ordine di ricostruire il proprio fascicolo, il giudice protrà pronunciare sul merito della causa in base agli atti a sua disposizione. (Nella specie, relativa alla mancanza dell'intero fascicolo processuale delle parti e, in particolare, degli atti introduttivi contenenti la domanda e la domanda riconvenzionale, la S.C., nell'enunziare il principio di cui alla massima, ha ritenuto che, correttamente, il giudice d'appello avesse - da un lato - dichiarato la nullità del ricorso introduttivo del giudizio per mancanza della prova della valida formulazione della domanda, a nulla rilevando che la stessa fosse stata accolta dal giudice di primo grado, non potendo, detta circostanza, esentare la parte a fornire la relativa prova ove la validità sia oggetto di espressa contestazione, e - dall'altro - rigettato il motivo di appello formulato dalla controparte relativo al rigetto, nel merito, della domanda riconvenzionale attesa l'assenza del presupposto per l'accoglimento). (Cass. 12/12/2008 n. 29262, Pres. Cuoco Est. Napoletano, in Lav. nella giur. 2009, 405) 
  • Nel rito del lavoro, la denuncia con motivo di appello dell'omesso esame di circostanze di fatto attinenti alla domanda, originariamente non conosciute dal datore di lavoro e legittimamente emerse nel corso dell'istruttoria, non costituisce eccezione o domanda nuova ai sensi dell'art. 437 c.p.c., né è preclusa da decadenze realizzatesi ai sensi degli artt. 414, 416 e 420 c.p.c. (Cass. 5/11/2008 n. 26592, Pres. Ravagnani Est. Mammone, in Lav. nella giur. 2009, 295, e in Giur. it. 2009, 2253)
  • Laddove si introduca nel giudizio di primo grado una domanda avente come unico oggetto la tutela accordata dall'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori e, quindi, volta a sentir dichiarare la nullità di uno (o più) atti discriminatori per motivi sindacali, non è poi possibile in appello domandare (pur per gli stessi fatti) la condanna datoriale per mobbing. (Cass. 11/9/2008 n. 22893, Pres. Mattone Est. Stile, in Lav. nella giur. 2009, 76) 
  • Nel rito del lavoro l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta, non essendo consentito - alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, comma, 2, cost. - al giudice di assegnare, ex art. 421 c.p.c., all'appellante un termine perentorio per provvedere a una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c. (Cass. Sez. Un. 30/7/2008 n. 20604, Pres. Carbone Est. Vidiri, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Guerino Guarnieri, "Notifica del ricorso in appello: svolta rigorosa delle S.U. e della Sezione lavoro", 33), e in Orient. giur. lav. 2008, 815)
  • Nel rito del lavoro la tardività dell'istanza di chiamata in causa del terzo, non formulata nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c., ma nella prima udienza, deve essere rilevata d'ufficio, onde il giudice di appello, al quale sia stata proposta dal chiamato, rimasto contumace in primo grado, la relativa eccezione di irritualità della propria chiamata, non può ritenere preclusa tale eccezione perché non sollevata dalla parte o non rilevata dal giudice nel grado precedente. (Cass. 15/7/2008 n. 19480, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Lav. nella giur. 2009, 80, e in Dir. e prat. lav. 2009, 457)
  • Qualora la sentenza di primo grado si fondi su due distinte rationes decidendi ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, l'appellante ha l'onere di impugnare espressamente entrambe le statuizioni, giacché in mancanza la motivazione non censurata deve ritenersi passata in giudicato (nella specie il Giudice di primo grado aveva annullato il licenziamento sia per violazione dell'art. 7 SL, sia per insussistenza della giusta causa, ma la Corte d'Appello - rilevato che la prima argomentazione non era oggetto di impugnazione - ha ritenuto non necessario esaminare la seconda). (Corte app. Potenza 28/5/2008, Pres. Ferrone Est. Stassano, in D&L 2008, 1061)
  • Il canone costituzionale della ragionevole durata del processo, coniugato con quello della immediatezza della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), orienta l'interpretazione dell'art. 420-bis c.p.c. nel senso, confortato anche da argomenti di interpretazione letterale, che tale disposizione trova applicazione solo nel giudizio di primo grado e non anche in quello di appello, in sintonia con le scelte del legislatore delegato (D.Lgs. n. 40/2006) che, più in generale, ha limitato la possibilità di ricorso immediato per cassazione avverso sentenze non definitive rese in grado di appello, lasciando invece inalterata la disciplina dell'impugnazione immediata delle sentenze non definitive rese in primo grado. Conseguentemente, la sentenza di accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di un contratto collettivo, ove resa in grado di appello, non essendo riconducibile nel paradigma dell'art. 420-bis c.p.c., non incorre in un vizio che inficia la pronuncia, bensì nel rimedio impugnatorio proprio, che non è quello del ricorso immediato per cassazione, il quale ove proposto deve essere dichiarato inammissibile, ma, trattandosi di sentenza che non definisce, neppure parzialmente, il giudizio, è quello generale risultante dal combinato disposto dell'art. 360, terzo comma, e 361, primo comma, c.p.c. Pertanto non viene in rilievo l'affidamento che le parti possono avere riposto nella decisione della Corte territoriale emessa nel contesto processuale dell'art. 420-bis c.p.c., atteso che l'interesse a un giudizio di impugnazione sulla sentenza resa dal giudice di appello è salvaguardato dall'applicabilità del secondo periodo del terzo comma dell'0art. 360 c.p.c., come novellato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 40/2006, che prevede che avverso le sentenze che non definiscono il giudizio e non sono impugnabili per cassazione, può essere successivamente proposto il ricorso per cassaziobne, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. (Cass. 7/5/2008 n. 11135, Pres. Mercurio Est. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2008, 2658)
  • L'art. 420 bis c.p.c. trova applicazione solo nel giudizio di primo grado e conseguentemente deve essere dichiarato inammissibile il ricorso immediato proposto contro una sentenza di accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di un contratto collettivo emessa in grado di appello. Tale sentenza rientra peraltro a pieno titolo nella categoria delle sentenze che decidono su questioni, senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, e pertanto, ai sensi del terzo comma dell'art. 360 c.p.c., contro di esa può essere successivamente proposto ricorso per cassazione, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. (Cass. 20/3/2008 n. 7599, Pres. Mercurio Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2008, 726)
  • In caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilità delle altre, sempre che non si venga a formare il giudicato sulle questioni investite da queste ultime, dovendosi attribuire prevalenza - in difetto di previsioni sanzionatorie da parte dell'art. 335 c.p.c. - alle esigenze di tutela del soggetto che ha proposto l'impugnazione rispetto a quelle della economia processuale e della teorica armonia dei giudicati. (Cass. 4/3/2008 n. 5846, Pres. Sciarelli Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008, 728)
  • Poiché la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridich, devolute al giudice, dei fatti che il datore di lavoro ha posto a base del recesso, la impugnazione della sentenza di primo grado che ha dichiarato la legittimità o illegittimità del licenziamento per sussistenza o insussistenza della giusta causa comprende la minor domanda relativa alla declaratoria della legittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, e abilita il giudice di appello a pronunciarsi in tal senso anche in mancanza di espressa richiesta della parte, senza che vi sia lesione dell'art. 112 c.p.c. (Cass. 17/1/2008 n. 837, Pres. Mercurio Rel. De Matteis, in Dir. e prat. lav. 2008, 1880)
  • In applicazione del principio della ragionevole durata del processo, nel caso di omessa notifica del ricorso in appello in materia di lavoro (così come quello in opposizione a decreto ingiuntivo), il giudice non può applicare l'art. 291, 1° comma, c.p.c. e assegnare un nuovo termine per la notifica, ma deve dichiarare l'improcedibilità del giudizio, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata o del decreto ingiuntivo opposto; trattandosi tuttavia di questione altamente controvertibile è opportuna la rimessione alle Sezioni Unite. (Cass. 3/10/2007 n. 20721, ord. interlocutoria, Pres. Ciciretti Est. De Matteis, in D&L 2008, con nota di Ilaria Cappelli, "Appello e opposizione a decreto ingiuntivo: si riapre la questione del termine perentorio per la notifica", 341)
  • Il termine acceleratorio che impone all'appellante di notificare il ricorso entro dieci giorni dal deposito del decreto di fissazione dell'udienza di discussione deve considerarsi perentorio, sicché in caso di nullità della notifica per violazione del termine minimo a comparire il giudice deve dichiarare l'improcedibilità dell'appello; trattandosi comunque di questione altamente controvertibile è opportuna la rimessione alle Sezioni Unite. (Cass. 3/10/2007 n. 20721, ord. interlocutoria, Pres. Ciciretti Est. De Matteis, in D&L 2008, con nota di Ilaria Cappelli, "Appello e opposizione a decreto ingiuntivo: si riapre la questione del termine perentorio per la notifica", 341)
  • Nel caso che il rapporto giuridico sia sottoposto a nuova regolazione legislativa nell'intervallo tra il giudizio di primo e secondo grado, non costituisce nuova eccezione in appello (vietata dall'art. 437 c.p.c.) ma mera difesa la deduzione di infondatezza della domanda alla stregua del nuovo contesto normativo. Peraltro, la valutazione dello "ius superveniens" e della sua incidenza sulla controversia è operabile dal giudice d'ufficio, costituendo detta valutazione un suo preciso dovere, e a prescindere dall'eccezione del convenuto. (Cass. 27/7/2008 n. 16673, Pres. Sciarelli Est. Morcavallo, in Dir. e prat. lav. 2008, 1304)
  • Nelle controversie soggette al rito del lavoro, la proposizione dell'appello si perfeziona, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., con il deposito del ricorso, che determina la litispendenza del gravame, cui segue il decreto di fissazione dell'udienza e, nei termini, la notifica, che, ove sia richiesta da difensore che non risulta officiato, potrà essere nulla, ma non elimina gli effetti della litispendenza. Pertanto la costituzione dell'appellato sana la irrituale notifica dell'atto di appello e del decreto mediante il raggiungimento dello scopo dell'atto. (Cass. 12/3/2007 n. 5699, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in Lav. nella giur. 2007, 1139)
  • Nel caso che il rapporto giuridico sia sottoposto a nuova regolazione legislativa nell'intervallo tra il giudizio di primo e secondo grado, non costituisce nuova eccezione in appello (vietata dall'art. 437 c.p.c.) ma mera difesa la deduzione di infondatezza della domanda alla stregua del nuovo contesto normativo. Peraltro, la valutazione dello ius superveniens e della sua incidenza sulla controversia è operabile dal giudice d'ufficio, costituendo detta valutazione un suo preciso dovere, e a prescindere dall'eccezione del convenuto. (Cass. 27/7/2007 n. 16673, Pres. Sciarelli est. Morcavallo, in Lav. nella giur. 2008, 187)
  • Nelle controversie soggette al rito del lavoro, la proposizione dell'appello si perfeziona, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., con il deposito del ricorso, che determina la litispendenza del gravame, cui segue il decreto di fissazione dell'udienza e, nei termini, la notifica, che, ove sia richiesta da difensore che non risulta officiato, potrà essere nulla, ma non elimina gli effetti della litispendenza. Pertanto la costituzione dell'appellato sana la irrituale notifica dell'atto di appello e del decreto mediante il raggiungimento dello scopo dell'atto. (Cass. 12/3/2007 n. 5699, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in Lav. nella giur. 2007, 1139)
  • Il canone costituzionale della ragionevole durata del processo, coniugato con quello dell'immediatezza della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), orienta l'interpretazione dell'art. 420-bis c.p.c. nel senso, confortato anche da argomenti di interpretazione letterale, che tale disposizione trova applicazione solo nel giudizio di primo grado e non anche in quello d'appello, in sintonia con le scelte del legislatore delegato (D.Lgs. n. 40 del 2006) che, più in generale, ha limitato la possibilità di ricorso immediato per cassazione avverso sentenze non definitive rese in grado d'appello, lasciando invece inalterata la disciplina dell'impugnazione immediata delle sentenze non definitive rese in primo grado. Conseguentemente, la sentenza di accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di un contratto collettivo, ove resa in grado di appello, non essendo riconducibile nel paradigma dell'art. 420 bis c.p.c., non incorre in un vizio che inficia la pronuncia, bensì nel rimedio impugnatorio proprio, che non è quello del ricorso immediato per cassazione, il quale ove proposto deve essere dichiarato inammissibile, ma, trattandosi di sentenza che non definisce, neppure parzialmente, il giudizio, è quello generale risultante dal combinato disposto dell'art. 360, comma 3, e 361, comma 1, c.p.c. Pertanto non viene in rilievo l'affidamento che le parti possono aver riposto nella decisione della Corte territoriale emessa nel contesto processuale dell'art. 420 bis c.p.c., atteso che l'interesse a un giudizio di impugnazione sulla sentenza resa dal giudice di appello è salvaguardato dall'applicabilità del secondo periodo del comma 3 dell'art. 360 c.p.c., come novellato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 40 del 2006, che prevede che avverso le sentenze che non definiscono il giudizio e non sono impugnabili con ricorso immediato per cassazione, non può essere successivamente proposto il ricorso per cassazione, senza necessità di riserva, allorchè sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio. (Cass. 7/3/2007 n. 5230, Pres. Ianniruberto Rel. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Guerino Guarnieri, 913)
  • L'eccezione di interruzione della prescrizione integra un'eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, con l'effetto che tale definizione della suddetta eccezione, pur comportando conseguenze in ordine alla rilevabilità ex officio e alla diversa configurabilità dell'onere di proposizione, non determina tuttavia la facoltà di produrre per la prima volta in appello il documento attestante l'avvenuta interruzione, ove una qualche prova in merito non sia stata acquisita nè il fatto interruttivo sia stato allegato in primo grado (principio affermato in controversia concernente opposizione avverso cartella esattoriale per il pagamento di contributi previdenziali nella gestione commercianti dei quali era stato omesso il versamento per un periodo asseritamente prescritto, ex art. 3, L. n. 335 del 1995, in assenza di validi atti interruttivi). (Cass. 22/2/2007 n. 4135, Pres. Sciarelli Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2007, 1140)
  • La parte vittoriosa nel merito, la quale, in caso di gravame del soccombente, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base a una diversa soluzione delle questioni proposte nel precedente grado di giudizio, difetta di interesse alla proposizione dell'impugnazione incidentale e ha soltanto l'onere di riproporre dette questioni - ivi compresa quella nascente da eccezione di difetto di giurisdizione, che sia stata espressamente esaminata e respinta dal giudice del precedente grado -, ai sensi dell'art. 346 c.p.c., per superare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo. (Cass. 19/2/2007 n. 3717, Pres. Prestipino Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2007, 1141)
  • In tema di produzione di nuovi documenti in grado di appello nel rito del lavoro, ove sia in discussione una condotta permanente, quale, nella specie, il rifiuto del datore di lavoro di adibire il lavoratore già sospeso, alle mansioni di guardia particolare giurata, il mancato raggiungimento della prova, in primo grado, della mancanza nel dipendente delle necessarie autorizzazioni di polizia, dedotta dal datore di lavoro, non può essere superata da una tardiva produzione documentale in appello; pur tuttavia la natura permanente della condotta del datore di lavoro (e le conseguenze retributive o risarcitorie dalla stessa derivanti) deve indurre il giudice di secondo grado a valutare se un documento, formato successivamente al maturarsi delle preclusioni, sia o meno indispensabile ai fini della decisione della causa, limitando la responsabilità del convenuto alla data della decisione di primo grado, in applicazione dell'art. 437, 2° comma, c.p.c. (La S.C., in applicazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 8202 del 2005, ha ritenuto la decisione della Corte territoriale, secondo cui non era stata fornita in primo grado la prova della permanente sospensione delle autorizzazioni di polizia per l'esercizio dell'attività di guardia giurata all'epoca in cui il dipendente aveva offerto la ripresa della prestazione, congruamente motivata per avere escluso che una prova, tardivamente offerta in appello, potesse ovviare alla decadenza verificatasi in primo grado, ed errata, invece, nel non aver consentito la produzione di un documento formato successivamente alla sentenza di primo grado, attestante la mancanza delle autorizzazioni di polizia, al solo fine di limitare la responsabilità datoriale, per la mancata adibizione del lavoratore alle sue mansioni di guardia giurata, al momento della decisione di primo grado. La S.C. ha, inoltre, cassato la decisione della Corte territoriale per aver ritenuto tardiva la prova richiesta dal datore di lavoro, in appello, sull'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni diverse da quelle di guardia giurata, ma alle stesse equivalenti, questione insorta solo a seguito della sentenza di primo grado, che aveva introdotto d'ufficio la diversa utilizzazione del lavoratore, da questi mai prospettata giacchè limitatosi a chiedere di essere adibito alle sue mansioni). (Artt. 345, 416 e 437 c.p.c.; art. 2697 c.c.). (Cass. 17/11/2006 n. 24459, Pres. Ciciretti Rel. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2007, 1597) e in Lav. nella giur. 2007, 520)
  • Nel rito del lavoro, il rigoroso sistema delle preclusioni che regola in eguale modo sia l'ammissione delle prove costituite che di quelle costituende trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della "verità materiale", cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 437, comma 2, c.p.c., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (nella specie, in applicazione del principio soprariportato, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo l'operato del giudice d'appello, che aveva acquisito agli atti la documentazione degli uffici postali necessaria al fine di accertare la veridicità delle deduzioni del lavoratore circa la tempestività dell'impugnativa del licenziamento, in replica all'eccepita decadenza per intempestività dell'atto di impugnazione). (Cass. 9/11/2006 n. 23882, Pres. Sciarelli Est. Vidiri, in Giust. civ. 2007, 388)
  • Il principio sancito dall'art. 346 c.p.c., che intende rinunciate e non più riesaminabili le domende ed eccezioni non accolte dalla sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte in appello, trova applicazione anche nei riguardi dell'appellato rimasto contumace in sede di gravame, in coerenza con il carattere devolutivo dell'appello, così ponendo appellato e appellante su un piano di parità - senza attribuire alla parte, rimasta inattiva ed estranea alla fase di appello, una posizione sostanzialmente di maggior favore - sì da far gravare su entrambi, e non solo sull'appellante, l'onere di prospettare al giudice del gravame le questioni (domande ed eccezioni) risolte in senso a essi sfavorevole; tuttavia, mentre il soccombente soggiace ai vincoli di forme e di tempo previsti per l'appello, la parte vittoriosa ha solo un onere di riproposizione, in difetto presumendosi che manchi un interesse alla decisione, mancanza che ben può essere imputata anche alla parte contumace. (Artt. 343, 346, 436 c.p.c.). (Cass. 13/9/2006 n. 19555, Pres. Mercurio Est. Battimiello, in Dir. e prat. lav. 2007, 1049)
  • Ai sensi degli artt. 276, 420 e 437 c.p.c., il principio della immodificabilità del collegio giudicante trova applicazione anche nel rito del lavoro, ma solo dal momento in cui inizia la discussione vera e propria, sicchè solo la decisione della causa da parte di un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione può dare luogo a nullità della sentenza, non rilevando, invece, una diversa composizione del collegio che abbia assistito a precedenti udienze di trattazione; entro questi limiti, l'eventuale mancanza di un formale decreto che designa presidente o componenti del collegio costituisce una semplice irregolarità formale, relativa a un atto interno, e non determina alcun vizio della sentenza, anche a voler prescindere dal principio di tassatività delle nullità, secondo cui l'inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge. (Artt. 174, 276, 420 e 437 c.p.c.). (Cass. 10/8/2006 n. 18156, Pres. de Luca Est. de Luca, in Dir. e prat. lav. 2007, 1010)
  • Il requisito della specificità dei motivi di appello implica la necessità che la esposizione dell’appellante consenta di individuare con chiarezza le statuizioni investite del gravame e le specifiche critiche a esse indirizzate; ne consegue che, se non è sufficiente un generico richiamo alle difese svolte nel giudizio di primo grado, può risultare la specifica riproposizione delle stesse difese. (Cass. 7/6/2005 n. 11781, Pres. Mercurio Est. De Luca, in Giust. Civ. 2006, 873)
  • Non configura una nuova eccezione ma un’ulteriore difesa, come tale esclusa dal divieto di cui all’art. 437 cod. proc. Civ., la deduzione in appello da parte del datore di lavoro – nell’ambito di una controversia relativa alla legittimità dell’apposizione dei termini nel contratto di lavoro – della legittimità del contratto sulla base dell’art. 1, lett.c), della L. n. 230 del 1962, laddove in primo grado aveva invocato l’art. 23 della L. n. 56 del 1987, atteso che la disciplina del contratto a termine delineata dalle due suddette leggi, in cui la seconda opera sul medesimo piano di quella generale dettata dalla prima, costituisce un sistema unico. (Cass. 11/5/2005 n. 9899, Pres. Sciarelli Est. Vigolo, in Orient. Giur. Lav. 2005, 485)
  • Il divieto di proporre in sede d’appello nel rito ordinario nuovi mezzi di prova sancito dall’art. 345, comma 3, c.p.c., si applica anche ai documenti. In conformità del disposto degli artt. 163 e 166 c.p.c., richiamati dagli art. 342 e 347 c.p.c., la produzione nel giudizio d’appello dei documenti ammissibili, in base all’art. 345, comma 3, c.p.c., deve essere effettuata dalle parti, a pena di decadenza, mediante la specifica indicazione dei documenti stessi nei rispettivi atti introduttivi. (Cass. 20/4/2005 n. 8203, Pres. Carbone Est. Vidiri, Giust. Civ. 2006, 143)
  • Nel rito del lavoro, richiamato per le controversie in materia di locazione dall’art. 477-bis c.p.c., il divieto di nuove eccezioni in appello stabilito dal secondo comma dell’art. 437 c.p.c. concerne soltanto le eccezioni in senso proprio relative a fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio, non rilevabili d’ufficio, e non anche le cosiddette eccezioni improprie o mere difese, dirette soltanto a negare l’esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda o a contestare il valore probatorio dei mezzi istruttori esperiti in primo grado su istanza di parte o d’ufficio dal giudice. Il predetto divieto non incide quindi sul potere-dovere del giudice d’appello di riesaminare e di valutare autonomamente, nei limiti segnati dai motivi di impugnazione, le risultanze istruttorie ai fini del riesame della controversia alla stregua delle censure prospettate dall’appellante. (Cass. 14/7/2004 n. 13076, Pres. Vittoria Rel. Purcaro, in Lav. e prev. oggi 2004, 2037)
  • Il provvedimento pronunciato in forma di ordinanza con il quale il giudice di appello (in controversia soggetta al rito del lavoro) dichiari l’improcedibilità dello stesso per la mancata comparizione dell’appellante, ha natura di sentenza, definendo una questione pregiudiziale attinente al processo, con conseguente ricorribilità in Cassazione ed obbligo della pronunzia sulle spese processuali a norma dell’ar. 91 c.p.c. (ord., Preas. Ianniruberto Rel. Lo Piano, in Lav. nella giur. 2004, 801)
  • Nel rito del lavoro, ove l'inattività delle parti in appello si verifichi all'udienza prevista dall'art. 437 c.p.c., si deve fare riferimento, rispettivamente, agli artt. 181 (richiamato nel giudizio di secondo grado dall'art. 359 c.p.c.) e 348 c.p.c., a seconda che nell'udienza in questione non siano presenti entrambe le parti o sia presente il solo appellato, fermo restando che in entrambe le ipotesi non è consentita l'immediata decisione della causa, dato che questa deve essere rinviata ad una nuova udienza, da comunicarsi nei modi previsti dalla legge. (Cass. 10/12/2003 n. 18877, Pres. Mercurio Rel. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2004, 978)
  • L'eccezione di aliunde perceptum (da considerarsi eccezione c.d. in senso lato) può essere formulata anche in grado di appello qualora il fatto della nuova occupazione sia allegato al processo ad opera di una delle parti e sia sopravvenuto rispetto alla prima udienza, oppure qualora, se non sopravvenuto, la parte dimostri di non averlo potuto tempestivamente dedurre. (Corte d'appello Potenza 4/12/2003, Pres. Scermino Est. Di Nicola, in D&L 2004, 197)
  • Il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non avvenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo; a tal fine occorre peraltro che questa seconda impugnazione risulti tempestiva , e tale requisito deve essere verificato con riferimento non solo al termine annuale, ma anche al termine breve, il quale decorre, in mancanza di anteriore notifica della sentenza appellata, dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante. (Cass. 25/8/2003 n. 12460, Pres. Ciciretti Rel. Lamorgese, in Dir. e prat. lav. 2004, 287)
  • Costituisce domanda nuova ai sensi dell'art. 437 c.p.c. quella che si fonda su una prospettazione della responsabilità della convenuta non già, come sostenuto in primo grado, in via principale, ma in via solidale, in forza di una diversa interpretazione delle norme di legge e di contratto collettivo già invocate in primo grado. (Corte d'appello Milano 31/7/2003, Pres. Mannacio Est. Sala, in D&L 2004, con nota di Vincenzo Ferrante "Sulla nozione di distacco e sulle novità delle domande in grado d'appello", 138)
  • Nel rito del lavoro, ove l'appellante non compaia all'udienza di discussione della causa, il collegio deve decidere nel merito l'impugnazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato cessata la materia del contendere in considerazione della comparizione delle parti all'udienza di discussione, ritenuta sintomo del disinteresse delle parti stesse alla prosecuzione del giudizio). (Cass. 19/5/2003 n. 7837, Pres. Mileo Rel. Vigolo, in Lav. nella giur. 2003, 1165)
  • L'indicazione dei motivi di impugnazione, richiesta nel rito del lavoro dall'art. 434 c.p.c., non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell'appello, ma deve pur sempre concretarsi, anche quando essa comprenda il riesame dell'intera controversia, in un'esposizione non generica né equivoca del contenuto e della portata delle censure rivolte alla pronunzia di primo grado, soprattutto quando la sentenza impugnata contenga la soluzione di più questioni. (Cass. 3/4/2003, n. 5210, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano, in Dir.e prat. lav. 2003, 2052)
  • La parte rimasta vittoriosa che, nell'ipotesi di gravame proposto dal soccombente, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base ad una diversa soluzione delle questioni da essa avanzate nel precedente grado di giudizio, non ha l'onere di proporre appello incidentale per chiedere il riesame delle domande, eccezioni o questioni respinte o ritenute assorbite o comunque non esaminate con la sentenza impugnata, essendo sufficiente che la riproponga in una delle sue difese nel giudizio di secondo grado. (Sulla base dell'enunciato principio di diritto, la S.C ha escluso che la parte, totalmente vittoriosa in prime cure, fosse tenuta a proposizione di appello incidentale per riproporre la questione della collocazione temporale del licenziamento, che essa aveva sostenuto essere stato comunicato al dipendente quando il rapporto era soggetto al regime di recesso libero a seguito del conseguimento da parte del dipendente del diritto alla pensione di vecchiaia, mentre il primo giudice aveva ritenuto che il rapporto fosse ancora soggetto al regime recedibilità causale, pur superando la questione per avere comunque ritenuto legittimo il licenziamento, benché efficace solo dal momento del subentro del regime di recedibilità ad nutum). (Cass. 21/3/2003, n. 4184, Pres. Ianniruberto, Rel. Mercurio, in Lav. nella giur. 2003, 686)
  • Il credito dell'Inail verso il terzo autore del danno per il rimborso delle prestazioni eseguite a favore dell'infortunato costituisce credito di valore, perciò da qualificarsi con riferimento al momento della liquidazione definitiva, con la conseguenza che, se per effetto di rivalutazione della rendita imposta da un provvedimento sopravvenuto, l'ammontare del credito sia superiore a quello dedotto dall'Inail in primo grado, la maggior somma risultante può essere domandata dall'istituto senza necessità di proporre appello incidentale, anche in sede di discussione del gravame imposto da controparte, costituendo tale richiesta semplice precisazione del petitum relativo alla domanda già posta. (Cass. 21/3/2003, n. 4193, Pres. Mercurio, Rel. Putaturo Donati, in Lav. nella giur. 2003, 683)
  • Nel caso in cui l'Inail, sul presupposto del sopravvenuto avvenuto miglioramento delle condizioni fisiche del titolare di una rendita per infortunio sul lavoro, abbia disposto, ai sensi dell'art. 83, D.P.R. n. 1124/1965, la riduzione della misura della rendita, nel successivo giudizio instaurato dal titolare della stessa al fine di ottenerne la ricostituzione nella misura originaria, l'eccezione con la quale l'Istituto ne chieda la riduzione, adducendo l'ingiustificato rifiuto dell'assicurato di sottoporsi a cure in grado di ridurre i postumi invalidanti (art. 87 D.P.R. cit.), configura una domanda riconvenzionale, in quanto è diretta ad ottenere l'accertamento di un fatto diverso da quello che costituiva oggetto del giudizio e, conseguentemente, non può essere proposta per la prima volta in grado d'appello. (Cass. 7/3/2003, n. 3482, Pres. Sciarelli, Rel. D'Agostino, in Lav. nella giur. 2003, 681)
  • Nei processi soggetti al rito del lavoro, la disposizione di cui all'art. 437, secondo comma, c.p.c.-in base alla quale l'ammissione in grado d'appello di nuovi mezzi di prova è subordinata alla tassativa condizione che essi siano ritenuti dal Collegio, anche d'ufficio, indispensabili ai fini della decisione della causa-deve essere interpretata nel senso che la suddetta ammissione non è consentita relativamente ai mezzi di prova rispetto ai quali le parti siano già incorse nella decadenza nel pregresso grado del giudizio, con la precisazione che è sufficiente, a tal fine, che la decadenza vi sia stata, senza che sia necessario un espresso provvedimento in tal senso del giudice. (Cass. 23/1/2003, n. 1014, Pres. Senese, Rel. Celentano, in Lav. nella giur. 2003, 578)
  • Nel diritto del lavoro, una parte non può produrre in appello nuovi documenti sui quali il giudice abbia già emesso pronuncia di inammissibilità, con contestuale dichiarazione di decadenza della parte stessa dalla facoltà di produrli. Pur essendo tali documenti prove precostituite e documentali, infatti, il produrli vanificherebbe la sanzione di decadenza già pronunciata dal primo giudice (Cass. 23/1/2003, n. 775, Pres. Ciciretti, Est. Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2003, 673)
  • L'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado (ricorso o comparsa di costituzione), dei documenti (eventualmente anche attinenti ad eccezioni rilevabili d'ufficio), o l'omesso deposito contestualmente a tale atto, dei medesimi, anche se indicati in quest'ultimo, determinano la decadenza dal diritto processuale di produrre detti documenti, ove non si tratti di documenti formatisi dopo l'inizio del giudizio o la cui produzione sia giustificata dallo sviluppo assunto dal giudizio stesso (ex art. 420, quinto comma c.p.c.). Poichè tale decadenza esclude che la parte produca i documenti in appello, e poiché questi sono compresi nei "nuovi mezzi di prova" indicati dall'art. 437, secondo comma, c.p.c., la loro produzione in secondo grado può avvenire solo ove (nella stessa logica dell'art. 420, quinto e settimo comma c.p.c.) essa sia giustificata dal tempo della loro formazione o dallo sviluppo del processo e sia ritenuta dal Collegio indispensabile per la decisione (Cass. 20/1/2003, n. 775, Pres. Ciciretti, Est, Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2003, 673, con nota di Marco Cattani, Sulla produzione di documenti in appello)
  • Nel rito del lavoro non è consentito in appello il mutamento della causa petendi della domanda originaria, neppure qualora esso non determini una trasformazione obiettiva del contenuto intrinseco della domanda stessa, essendo in questa fase precluse le modifiche (salvo quelle meramente quantificative) che comportino anche solo una emendatio libelli, permessa solo all'udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione del giudice e nella ricorrenza dei gravi motivi previsti dalla legge. (Nella specie, la S.C. ha giudicato inammissibili le deduzioni con le quali il ricorrente aveva sostenuto, per la prima volta, in appello, che il contratto d'agenzia ed il patto che prevede l'obbligo di raggiungere un minimo di fatturazione avrebbero dovuto essere stipulati per iscritto). (Cass.13/11/2002, n. 15886, Pres. Mercurio, Rel. Figurelli, in Lav. nella giur. 2003, 378)
  • Il principio sancito dall'art. 346 c.p.c., circa l'onere di espressa riproposizione in appello delle domande non accolte o rimaste assorbite, opera anche nel rito del lavoro, in quanto l'art. 436, secondo comma, stesso codice fa obbligo all'appellato di costituirsi mediante deposito di memoria contenente dettagliata esposizione di tutte le difese. (Cass. 9/11/2002, n. 15764, Pres. Senese, Rel. Putaturo Donati, in Lav. nella giur. 2003, 282)
  • La richiesta, introdotta per la prima volta in appello, di valutazione complessiva dell'inabilità derivante sia dall'infortunio dedotto in giudizio di primo grado, sia da altro infortunio che abbia già comportato l'attribuzione di una rendita, non riferibile a successive modificazioni delle condizioni fisiche dell'assicurato, dà luogo ad una radicale trasformazione della causa petendi, poiché il fatto costitutivo viene modificato nei suoi elementi materiali e non interviene semplicemente una diversa prospettazione giuridica del medesimo petitum, ovvero una diversa qualificazione originaria della pretesa; ne consegue la inammissibilità della formulazione solo in sede d'appello della domanda in siffatti diversi termini, comportanti l'alterazione dell'oggetto sostanziale dell'azione e richiedenti accertamenti e valutazioni estranei a quelli prima necessari, con conseguente violazione della ratio del diveto di ius novorum in appello. (Cass. 30/5/2002, n. 11198, Pres. Ianniruberto, Est. Miani Canevari, in Giur. italiana 2003, 1369, con nota di Francasca Marchesan, Richiesta di rendita complessiva per inabilità derivante da infortuni sul lavoro e divieto di ius novorum in appello)
  • Nel rito del lavoro, la notificazione della memoria difensiva, contenente appello incidentale, avvenuta prima del deposito effettuato a norma dell'art. 436, comma 3, c.p.c., non pregiudica l'instaurazione del contraddittorio, non determina nullità né improcedibilità dell'impugnazione incidentale, e non impone al giudice di ordinare la rinnovazione della stessa notifica. (Cass. 26/1/2002, n. 963, Pres. Ianniruberto, Rel. Vigolo, in Lav. nella giur. 2003, 49, con commento di Elisa Bottelli)
  • Nelle controversie soggette al rito del lavoro, il giudice d'appello che rilevi la nullità dell'introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415, 5° comma, c.p.c., non può dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado (non ricorrendo in detta ipotesi né la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, né alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dagli artt. 353 e 354, 1° comma, c.p.c.), ma deve trattenere la causa e, previa ammissione dell'appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito (Cass. SU 21/3/2001, n. 122, pres. Vela, est. Preden, in Lavoro giur. 2001, pag. 1035, con nota di Guarnirei, Violazione del termine a difesa e rimessione della causa al primo giudice)
  • Nel rito del lavoro, il principio secondo cui, in caso di morte della parte successivamente al deposito della sentenza di primo grado, l'atto di impugnazione deve essere diretto e notificato nei confronti dei soggetti che siano reali parti del rapporto, attualmente interessate alla controversia, va integrato con il principio secondo cui, in detto rito, l'atto di appello si realizza, quale "edito actionis", con il tempestivo deposito del relativo ricorso introduttivo, che impedisce il verificarsi di ogni decadenza dell'impugnazione stessa; ne consegue che, se il decesso si sia verificato dopo il deposito del ricorso e prima della sua notificazione (caso in cui non è configurabile l'ipotesi interruttiva disciplinata dall'art. 328 c.p.c.), e tuttavia la notificazione sia avvenuta presso il procuratore domiciliatario del soggetto deceduto, invece che alle attuali parti del processo, il relativo vizio deve essere segnalato all'appellante affinché possa procedere ad una corretta notificazione nel termine perentorio a tale scopo assegnatogli. (Cass. 3/3/01, n. 3122, pres. Ianniruberto, est. Dell'Anno, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 440)
  • I documenti si considerano ritualmente prodotti in giudizio quando siano posti nella reale disponibilità dell'ufficio per essere inseriti nel fascicolo di parte, con l'adempimento delle formalità previste dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.; in particolare, gli atti ed i documenti di parte, prodotti dopo la costituzione in giudizio, vanno depositati in cancelleria con la comunicazione del loro elenco alle altre parti; qualora, nel giudizio di appello, non risulti alcuna attestazione dell'avvenuto ritiro del proprio fascicolo da parte dell'appellante, il giudice che non rinvenga il fascicolo stesso, non può dichiarare l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348 c.p.c. ma deve concedere all'appellante un termine per la ricostruzione del proprio fascicolo; è poi onere della parte controllare, prima del passaggio in decisione della causa, l'inserimento nel fascicolo d'ufficio del proprio fascicolo di parte depositato nel termine concessogli per la ricostruzione (Cass. 14/2/01, n. 2128, pres. Annunziata, est. Celentano, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 211)
  • Le parti contro le quali è stata proposta impugnazione possono proporre, a loro volta, impugnazione incidentale tardiva nei confronti di qualsiasi capo della sentenza (Corte Appello Bologna 17/7/00, pres. e est. Castiglione, in Lavoro giur. 2001, pag. 757, con nota di Zavalloni, Un "cocktail" d'eccezione: licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per successivo superamento del comporto)
  • Poiché nel processo del lavoro la produzione di nuovi documenti in appello ricade nell'ambito degli articoli 434, 436 e 437 c.p.c., la produzione della copia notificata del decreto ingiuntivo opposto da parte dell'opponente (non effettuata in primo grado) , effettuata dall'opponente appellato, costituito tardivamente nel giudizio di gravame, comporta la decadenza ai fini dell'art. 437 c.p.c. e di conseguenza l'improcedibilità dell'opposizione, avente come effetto la inoppugnabilità del decreto ingiuntivo opposto (Cass. 10/6/00, n. 7948, pres. Sciarelli, in Lavoro giur. 2001, pag. 457, con nota di Gallo, Produzione tardiva della copia notificata del decreto ingiuntivo in grado d'appello)
  • L'eccezione di prescrizione, così come l'eccezione di interruzione della prescrizione hanno natura di eccezioni in senso stretto, e pertanto non possono essere proposte per la prima volta in appello (Corte Appello Roma 8/5/00, pres. Sorace, in Lavoro giur. 2001, pag. 358, con nota di Guarnieri, Interruzione della prescrizione, onere di allegazione e produzione di documenti nuovi in appello)
  • Nel rito del lavoro la produzione di nuovi documenti in appello deve ritenersi in generale sempre ammissibile, ma deve essere esclusa quando in primo grado non siano stati dedotti i fatti cui si riferiscono i nuovi mezzi di prova (Corte Appello Roma 8/5/00, pres. Sorace, in Lavoro giur. 2001, pag. 358, con nota di Guarnieri, Interruzione della prescrizione, onere di allegazione e produzione di documenti nuovi in appello)
  • Il giudice, nell'attribuire ai rapporti dedotti in giudizio la qualificazione giuridica più appropriata, deve valutare le domande dei ricorrenti con una interpretazione complessiva degli atti che tenga conto di tutte le deduzioni in esse contenute, applicando, in via analogica, i criteri dettati dagli art. 1362 e 1363 c.c., senza che possa costituire ostacolo la qualificazione, anche concorde, assegnata dalle parti. Ne deriva che il giudice d'appello è tenuto a pronunciarsi sulla richiesta del ricorrente di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo parziale - pur avendo egli in precedenza dedotto un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno - non costituendo tale richiesta una domanda nuova, ma una semplice riduzione della prima (Cass. 3/4/00, n. 4038, pres. De Musis, est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 591, con nota di Cattani, Interpretazione della domanda giudiziale, possibili vizi e onere della prova nell'impugnazione del licenziamento)
  • In caso di mancato esercizio della facoltà di riserva dell'impugnazione differita, la sentenza non definitiva può essere impugnata entro i termini per appellare previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c., e perciò, in caso di mancata comunicazione o notificazione di essa, entro un anno dalla sua pubblicazione, a nulla rilevando che l'art. 340 c.p.c. preveda la possibilità di esercitare la facoltà di impugnazione differita fino alla prima udienza successiva alla comunicazione, giacché tale articolo prevede che detta facoltà vada esercitata a pena di decadenza entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione, col chiaro intento non di dilatare i termini di impugnazione previsti dai citati artt. 325 e 327 c.p.c., bensì di restringerli, nel caso in cui la prima udienza successiva alla comunicazione intervenga prima dello scadere di essi, senza che tale interpretazione della citata norma possa ritenersi pregiudizievole per i diritti di difesa della parte (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva impugnata dopo il decorso di un anno dal deposito, ancorché detta sentenza non risultasse comunicata) (Cass. 6/4/00 n. 4285, in Dir e pratica lav., pag. 2159)
  • La proposizione dell’appello nel rito del lavoro si perfeziona con il deposito del ricorso, mentre la mancata o tardiva notificazione, anche del decreto, impone esclusivamente l’assegnazione da parte del giudice che la rileva, previa fissazione di una nuova udienza di discussione, di un termine perentorio per la regolarizzazione della notificazione (Cass. 23/9/98 n. 9541, pres. Lanni, est. Lupi, in D&L 1999, 85)